Il presidenzialismo che vuole fare la destra

È in realtà un semi-presidenzialismo, ed è in cima al programma elettorale: per capire come funzionerebbe bisogna guardare a una proposta del 2018

(Cecilia Fabiano/LaPresse)
(Cecilia Fabiano/LaPresse)
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Al primo punto del terzo capitolo del programma della destra alle elezioni, dedicato alle riforme, c’è una proposta che cambierebbe radicalmente il sistema istituzionale italiano per come è stato dal dopoguerra a oggi. Con una formulazione piuttosto sintetica e sbrigativa, si annuncia la «elezione diretta del Presidente della Repubblica»: una riforma che trasformerebbe quindi l’Italia da repubblica parlamentare a qualcos’altro, probabilmente una repubblica semipresidenziale.

Non è facile però capire in cosa consista concretamente la riforma proposta dalla destra, perché nel programma non viene elaborata. I leader della coalizione ne hanno parlato alcune volte, in questa campagna elettorale, senza però spiegare nei dettagli cosa vorrebbero fare. Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, sul palco del Meeting di Rimini, ha detto: «questo racconto che il sistema presidenziale è un po’ impresentabile, ma la Francia non mi sembra così impresentabile». Suggerendo quindi che il modello di ispirazione sarebbe quello francese, per l’appunto semi-presidenziale.

«Bisogna rimettere i cittadini al centro delle scelte, noi abbiamo avuto in questi anni parlamenti che hanno fatto l’esatto contrario di quello che i cittadini chiedevano» ha detto Meloni. «A questa nazione serve un legame diretto tra il voto e il governo, con le idee che quel governo esprime, e serve stabilità». Probabilmente, l’eventuale riforma che proporrà la destra se vincerà le elezioni e formerà un governo sarà simile a quella presentata proprio da Fratelli d’Italia nel 2018, che era stata respinta dalla Camera lo scorso maggio.

Una simile riforma ovviamente deve intervenire sulla Costituzione, motivo per cui dovrebbe essere approvata per due volte da ciascuna camera. A quel punto verrebbe quasi sicuramente sottoposta a un referendum (lo chiederebbe e otterrebbe un quinto dei parlamentari all’opposizione), nel quale i cittadini sarebbero chiamati a esprimersi, senza il bisogno del raggiungimento del quorum. Ma c’è anche un’altra possibilità: se la proposta dovesse ottenere i due terzi della maggioranza in parlamento, il referendum potrà non essere chiesto. Sondaggi e previsioni dicono che la coalizione di destra non dovrebbe riuscire ad avere quella maggioranza, ma quasi: è insomma uno scenario possibile.

Partiamo dalle basi. L’Italia è una repubblica parlamentare. I cittadini votano i loro rappresentanti al parlamento, che a loro volta sostengono un governo che esercita il potere esecutivo. Il governo è nominato dal presidente della Repubblica, una figura di garanzia istituzionale eletta dai parlamentari. Negli ultimi trent’anni in realtà la carica del presidente della Repubblica ha di fatto acquisito molti poteri in più, e il ruolo avuto da Sergio Mattarella nelle crisi politiche ne è una prova evidente. Ma non ha comunque il potere esecutivo, cioè quello di esercitare l’azione di governo del paese.

A ricevere l’incarico di formare e guidare il governo può essere chiunque, anche una persona non eletta in parlamento, e negli ultimi dieci anni è successo in quattro casi su sei. Il legame tra l’espressione popolare e il governo è garantito dal parlamento, fatto di persone elette, che può in qualsiasi momento ritirare il sostegno al governo.

Da anni c’è chi critica il sistema istituzionale italiano, essenzialmente per due motivi: il primo è che, per come si è strutturato l’assetto politico, i governi sono sempre più difficili da formare, e finiscono per comprendere alleanze sempre più lontane da quelle che si presentano alle elezioni. Il secondo è collegato, ed è che questo meccanismo produce instabilità politica. Sulla validità di queste critiche esiste da tempo un esteso e articolato dibattito, nella politica e tra accademici e costituzionalisti.

La destra aveva proposto una riforma per correggere l’architettura istituzionale dopo le elezioni del 2018, quando per tre mesi i partiti non erano riusciti a formare un governo (alla fine si misero d’accordo Lega e Movimento 5 Stelle). Diceva la proposta, che aveva Meloni come prima firmataria: «La crisi in cui è sprofondata l’Italia nel periodo appena conclusosi rilancia l’esigenza che il Capo dello Stato sia eletto direttamente dal popolo italiano e quindi legittimato ad assumersi ogni responsabilità nell’indirizzo politico della nazione e nelle più importanti scelte di politica nazionale e internazionale».

Il piano di Fratelli d’Italia, se è rimasto quello del 2018, sarebbe in sostanza di spostare il potere esecutivo dalla figura del presidente del Consiglio a quella del presidente della Repubblica, che smetterebbe di essere una figura di garanzia istituzionale e di rappresentanza, per diventare il capo del governo. Nella proposta di legge costituzionale di Fratelli d’Italia il nuovo presidente della Repubblica è quindi eletto dai cittadini: al primo turno delle elezioni se raggiunge la metà più uno dei voti, altrimenti dopo un ballottaggio tra i due candidati più votati. Il mandato dura cinque anni, ed è consentita al massimo una rielezione.

Il presidente, che nella proposta deve avere più di 40 anni, presiede il Consiglio dei ministri, e «dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri, con il concorso del Primo ministro». La riforma prevede infatti il mantenimento di una carica intermedia tra presidente e governo: come succede cioè nel sistema francese, e non per esempio in quello statunitense. Non si chiamerebbe più presidente del Consiglio, visto che non presiederebbe il Consiglio dei ministri, ma Primo ministro.

Nella proposta di Fratelli d’Italia, il funzionamento del parlamento rimarrebbe uguale. La legislatura continuerebbe a durare cinque anni, come il mandato presidenziale, e il governo continuerebbe ad avere bisogno della fiducia delle due camere. Al presidente della Repubblica sarebbe garantito il potere di scioglierle, «sentiti i loro Presidenti e il Primo ministro». E la proposta di riforma introduce la «sfiducia costruttiva», cioè lo strumento con il quale una delle due camere può votare per far cadere un governo soltanto indicando il nome del successivo Primo ministro.

In pratica, in questa conformazione un presidente della Repubblica potrebbe ritrovarsi a lavorare con un Primo ministro e con una maggioranza diversa da quella che lo ha sostenuto in occasione della sua elezione. È quello che sta succedendo attualmente in Francia, per capirsi, dove Emmanuel Macron, dopo aver vinto le presidenziali dello scorso aprile, ha perso la maggioranza in parlamento alle successive elezioni legislative. In questa situazione, il presidente deve trovare nuovi alleati per avere una maggioranza, includendoli quindi nel governo e scendendo a compromessi per esercitare l’azione di governo.

È comunque un funzionamento diverso da quello statunitense, nel quale il governo non deve avere la fiducia del parlamento (ed è il motivo per cui negli Stati Uniti è normale che il presidente non abbia la maggioranza in una o in entrambe le camere).

Nel semi-presidenzialismo invece il governo deve sempre avere la maggioranza in parlamento. La domanda che potrebbe venire, a questo punto, è cosa succederebbe però se in una camera venisse meno la maggioranza.

La proposta di Fratelli d’Italia introduce a questo proposito l’istituto della sfiducia costruttiva, attraverso la quale una delle due camere può determinare la caduta di un esecutivo, ma solo indicando il nome del futuro Primo ministro. Insomma: se il parlamento non sostiene più il governo del presidente, può farlo cadere ma deve proporre un Primo ministro gradito, assicurando in questo modo la possibilità di proseguire la legislatura. Le camere non possono però sfiduciare il presidente della Repubblica, in quanto eletto dai cittadini.

Una proposta simile al semi-presidenzialismo è contenuta anche nel programma del terzo polo, cioè Azione e Italia Viva, che vorrebbero però che i cittadini eleggessero direttamente il presidente del Consiglio, una figura che assumerebbe quindi più poteri e che Matteo Renzi ha chiamato spesso “sindaco d’Italia”.

Ci sono diversi costituzionalisti che negli anni hanno esposto gli argomenti contro riforme di questo tipo. Uno dei più prolifici in questo senso è stato Gustavo Zagrebelsky, secondo il quale «il presidenzialismo proposto da Giorgia Meloni potrebbe tradursi in un regime autoritario sul genere di quello di Orbán, dove il presidente della Repubblica perde il ruolo di garante della Costituzione perché non è più una figura super partes. E sotto il suo potere – o sotto il potere del Partito del Presidente – il Parlamento rischierebbe di rimanere schiacciato, in una condizione di ricatto permanente».

Zagrebelsky aveva spiegato a Repubblica di non essere contrario al presidenzialismo, anche se ritiene che la cultura politica in Italia non vi si adatti molto bene, a differenza per esempio di quella francese. Secondo lui, però, oltre al problema di come potrebbe garantire la Costituzione una carica così politicizzata ed eletta dai cittadini, la proposta di legge ha varie incongruenze. Una riguarda la sfiducia costruttiva: «si tratta di un istituto iperparlamentarista preso dal modello tedesco, che ha senso solo in un sistema parlamentare. Siamo dinnanzi a una clamorosa contraddizione rispetto all’ispirazione presidenzialista della legge».

Il fatto che un presidente della Repubblica che viene eletto e ha un suo partito possa sciogliere le camere, poi, crea secondo Zagrebelsky un «potere di pressione e di ricatto enorme sul Parlamento».

Secondo Stefano Ceccanti, costituzionalista e deputato del Partito Democratico, la proposta di legge di Fratelli d’Italia dovrebbe in realtà essere ampliata per modificare gran parte della seconda parte della Costituzione, per funzionare. Per Ceccanti, si potrebbe rendere il sistema politico più stabile in modi meno radicali, soprattutto dopo la riduzione del numero di parlamentari: «Affidando al parlamento in seduta comune varie funzioni come fiducia, sfiducia e conversione dei decreti. Dipendere da una sola assemblea di 600, invece che da due separate di 400 e 200, darebbe un contributo molto forte alla stabilità dei governi».