Come gli animali percepiscono il mondo

Scoprirlo può aiutare a conoscere i danni dell'inquinamento sensoriale prodotto dalle attività umane, e a capire come limitarli

pipistrello
Un pipistrello della specie ferro di cavallo maggiore ad Abaliget, in Ungheria, l’8 gennaio 2020 (EPA/TAMAS SOKI)

La ghiandaia di Woodhouse è un uccello originario degli Stati Uniti occidentali e del Messico centrale. È una specie fondamentale per le foreste di quelle regioni e in particolare per alcune specie di pino, perché ciascuna ghiandaia può diffondere ogni anno tra i 3 e i 4 mila semi di questi alberi. È però un animale sensibile ad alcuni rumori artificiali che possono lasciarlo disorientato, come emerso da ricerche condotte in New Mexico nel 2021 e nel 2012. Le ricerche mostrarono una presenza di pini 4 volte inferiore nelle aree che le ghiandaie avevano abbandonato da tempo a causa del vicino e ininterrotto rumore dei compressori utilizzati per l’estrazione di gas naturale.

All’interno della comunità scientifica è abbastanza condivisa l’idea che una migliore comprensione del modo in cui gli animali percepiscono il proprio ambiente possa fornire nuove chiavi di interpretazione del mondo. Potrebbe rendere chiari effetti non altrimenti osservabili delle attività umane e stimolare una ricerca più efficiente dei modi di preservare gli ambienti o quantomeno minimizzare i danni, in parte ineliminabili, collegati a quelle attività.

Esempi come quello della ghiandaia di Woodhouse sono presenti in un libro di recente pubblicazione, An Immense World: How Animal Senses Reveal the Hidden Realms Around Us, scritto dal giornalista scientifico statunitense e apprezzato autore dell’Atlantic Ed Yong. Laureato in scienze naturali e vincitore nel 2021 del Premio Pulitzer per il giornalismo divulgativo, in passato Yong si è a lungo occupato di sistemi di comunicazione tra esseri umani e animali, tra le altre cose.

Oltre che di numerose ricerche nel campo delle scienze naturali, la percezione del mondo nel regno animale è stata nel tempo oggetto di lunghe riflessioni filosofiche. Una delle più note formulazioni della domanda alla base di queste riflessioni è il titolo di un celebre articolo del 1974 del filosofo statunitense Thomas Nagel: Cosa si prova a essere un pipistrello? (pdf). Nagel utilizza l’esempio del pipistrello per descrivere la connessione profonda e in parte inesplicabile tra l’esperienza cosciente soggettiva e il punto di vista.

Partendo dal presupposto che anche i pipistrelli abbiano un’esperienza del mondo simile a quella degli altri mammiferi, un essere umano potrebbe provare a immaginare cosa si provi a essere un pipistrello assumendo «il punto di vista del pipistrello», secondo Nagel. Ma sarebbe comunque impossibile per un essere umano «sapere come sia per un pipistrello essere un pipistrello».

La ragione per cui Nagel sceglie come esempio il pipistrello e non un altro animale, per il suo esperimento mentale, è perché il pipistrello ha notoriamente un apparato sensoriale molto diverso dal nostro. Abbastanza diverso da rendere chiaro il carattere irriducibilmente soggettivo dell’esperienza cosciente: la risposta alla domanda centrale dell’articolo, di conseguenza, «va oltre la nostra capacità di immaginazione».

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Non possiamo sapere cosa si provi a essere un pipistrello, concorda Yong con Nagel, ma possiamo provare a guardare il mondo da prospettive diverse dalle nostre, «attraverso la paziente osservazione, attraverso le tecnologie a nostra disposizione, attraverso il metodo scientifico e, soprattutto, attraverso la nostra curiosità e immaginazione».

gufo delle nevi

Un gufo delle nevi in cima a un monumento all’esterno della stazione di Washington Union a Washington, il 22 gennaio 2022 (AP Photo/Carolyn Kaster)

Per orientarsi nello spazio e cacciare i pipistrelli utilizzano l’ecolocalizzazione, la capacità di percepire l’eco delle onde sonore che emettono. Soltanto due gruppi di animali, a quanto ne sappiamo, hanno perfezionato questa abilità: i pipistrelli e gli odontoceti (cetacei dentati come i capodogli, i delfini e le orche).

«Gli occhi scrutano, i nasi annusano e le dita tastano, ma questi organi di senso raccolgono sempre stimoli che già esistono nel resto del mondo», osserva Yong. Attraverso l’ecolocalizzazione, un pipistrello invece produce uno stimolo che raccoglie successivamente. E la difficoltà degli esseri umani nel comprendere questa percezione è che l’intera esperienza dell’essere un pipistrello definisce un ambiente a noi completamente estraneo.

Per chiarire questa nozione di ambiente Yong utilizza la parola tedesca umwelt, introdotta nel campo della biologia e resa popolare dallo zoologo e filosofo estone Jakob von Uexküll nel 1909. Umwelt è l’insieme delle possibilità percettive proprio di ogni singola specie e diverso da quello delle altre. Per von Uexküll è come se ogni animale fosse racchiuso all’interno della propria «bolla sensoriale», spiega Yong, e percepisse soltanto un minuscolo frammento di «un mondo immenso».

Parte del «mondo percettivo» di una zecca alla ricerca di sangue dei mammiferi, per esempio, saranno il calore corporeo e l’odore dell’acido butirrico emanato dalla pelle. «Non gli importa degli altri stimoli, e probabilmente neppure sa che esistono», scrive Yong. Ed è un discorso che vale anche per gli esseri umani, che scambiano facilmente il proprio umwelt per tutto ciò che ci sia da sapere del mondo, quando «è invece soltanto uno tra milioni di altri».

Per quanto frustrante possa essere ogni nostro tentativo di comprendere l’umwelt di un pipistrello come quello di qualsiasi altra specie, secondo Yong, è il solo modo che abbiamo per cercare di uscire dalle nostre bolle sensoriali e migliorare la nostra conoscenza del mondo. Inoltre, gli esseri umani sono non soltanto «l’unica specie che può avvicinarsi alla comprensione degli altri umwelten, ma anche la specie più responsabile della distruzione di quei regni sensoriali».

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Possiamo imparare molto sull’ecolocalizzazione e su altri metodi che gli animali usano per percepire il proprio ambiente circostante, e secondo Yong questo tipo di conoscenza è sempre illuminante e preziosa.

I pipistrelli emettono ultrasuoni, cioè suoni a una frequenza troppo alta per essere uditi dagli esseri umani. Per farlo utilizzano i loro formidabili muscoli vocali – i più veloci muscoli tra quelli noti di tutti i mammiferi – ed emettono fino a 200 impulsi al secondo. Il sistema nervoso di un pipistrello è talmente sensibile da permettere di rilevare ritardi nell’eco nell’ordine di appena 1 o 2 milionesimi di secondo, che si traduce in una distanza fisica inferiore a un millimetro.

Il principale punto debole del sistema di ecolocalizzazione dei pipistrelli – che in compenso ha il vantaggio di funzionare anche nel buio pesto – è la portata. Alcune specie possono rilevare la presenza di un insetto distante fino a nove metri ma non oltre.

I suoni prodotti dai cetacei hanno invece una frequenza molto bassa: si trovano all’estremità opposta dello spettro, rispetto ai richiami acuti dei pipistrelli, e possono percorrere notevoli distanze. Parlando con Christopher Clark, docente di neurobiologia alla Cornell University a New York, conosciuto per le sue ricerche sul canto delle balene, Yong ha appreso che i canti sono per le balene, in un certo senso, un modo di misurare sia il tempo che lo spazio.

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Una megattera nel canale Stephens, in Alaska, l’8 agosto 2011 (AP Photo/Scott M. Lieberman, MD)

Un suono emesso da una megattera vicino all’arcipelago delle Bermuda, per esempio, impiegherebbe 20 minuti per raggiungere una megattera al largo della provincia canadese di Nuova Scozia. Se la megattera in Canada rispondesse immediatamente, trascorrerebbero complessivamente 40 minuti prima che l’altra megattera ascolti un suono dopo il primo che ha emesso. Immaginare di essere una balena, ha detto Clark a Yong, richiede di «estendere il pensiero a livelli di dimensione completamente diversi».

La tesi di Yong è che non sia necessario capire esattamente cosa si provi a essere una balena o un pipistrello per comprendere cosa possa essere un’interferenza nei loro mondi sensoriali. Jesse Barber, ricercatore di scienze biologiche della Boise State University in Idaho, ha condotto una serie di ricerche nel parco nazionale del Grand Teton, in Wyoming. E ha studiato le conseguenze della progressiva riduzione dell’oscurità in una zona del parco, causata dall’illuminazione proveniente da un ampio parcheggio vicino al Colter Bay Village, un’area di campeggio e di campi estivi per famiglie.

«Il parcheggio è illuminato come un centro commerciale perché nessuno ha pensato alle implicazioni per la fauna selvatica», ha detto Barber a Yong. Molti insetti sono attratti dalla luce dei 32 lampioni del parcheggio: il loro disorientamento attira alcune specie di pipistrelli ma non altre, quelle di pipistrelli che si muovono più lentamente e che, con tutta quella luce, sarebbero più facilmente preda dei gufi. L’illuminazione condiziona l’ambiente e produce degli effetti sulle specie animali presenti, attirandone alcune e allontanandone altre, in modi e con conseguenze difficili da prevedere, ha detto Barber.

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In un esperimento del 2019 citato da Yong, il gruppo di ricerca guidato da Barber ottenne dai responsabili del parco l’autorizzazione a montare nei lampioni del parcheggio lampadine speciali in grado di cambiare colore. E scoprì che la luce bianca influisce molto sul comportamento di insetti e pipistrelli, mentre la luce rossa no.

Oltre che pensare agli effetti più noti e dibattuti delle attività umane sul cambiamento climatico, secondo Yong, sarebbe utile riflettere anche su quanto gli esseri umani abbiano «riempito il silenzio di rumore e la notte di luce», e su quanto in generale abbiano contribuito – in modo spesso superficiale e inconsapevole – a determinare un fenomeno noto come «inquinamento sensoriale».

È come se incrementando la quantità di stimoli antropogenici nel mondo, spiega Yong, avessimo costretto le altre specie animali a vivere nel nostro umwelt. «Li abbiamo distratti da ciò che hanno effettivamente bisogno di percepire, abbiamo soffocato i segnali da cui dipendono e li abbiamo attirati in trappole sensoriali», e questo può avere conseguenze catastrofiche sugli ecosistemi, come peraltro dimostra anche il caso della riduzione della foresta collegato agli spostamenti della ghiandaia di Woodhouse.

L’alta risoluzione della nostra vista ha come svantaggio una bassa sensibilità, fa notare Yong, ed è questa la ragione per cui di notte cerchiamo più illuminazione, non meno. Ma la luce diffusa di notte è «una forza esclusivamente antropogenica»: i ritmi quotidiani e stagionali di luce e buio sono rimasti in gran parte immutati durante i tempi evolutivi del pianeta e poi sono cambiati a cominciare dal IX secolo.

Yong fa un esempio abbastanza significativo, per quanto eccezionale. Ogni anno, l’11 settembre, a New York vengono proiettati verso il cielo due fasci di luce blu sul luogo in cui sorgevano le Torri Gemelle, per commemorare gli attentati del 2001. Questa installazione artistica utilizza 88 lampade allo xeno per produrre un’intensità di luce di 7 mila watt: abbastanza da essere visibile da circa 100 chilometri. Man mano che ci si avvicina all’installazione è possibile scorgere piccole macchie che danzano intorno ai due fasci: sono migliaia di uccelli.

L’attivazione dell’installazione cade proprio durante la stagione della migrazione di molte specie di uccelli canori, che attraversano i cieli del Nord America nell’oscurità della notte in formazioni talmente numerose da apparire sui radar. Secondo una stima fatta nell’ottobre 2017 dall’ornitologo americano Benjamin Van Doren analizzando le immagini sui radar, in sette notti di attività l’installazione ha attirato e disorientato complessivamente circa 1,1 milione di uccelli, radunandoli intorno alla luce in formazioni 150 volte più dense del normale.

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Una parula di prateria a Brooklyn, New York, il 7 maggio 2014 (Spencer Platt/Getty Images)

Dato che le migrazioni per gli uccelli comportano un cospicuo dispendio di energie, anche una deviazione di una sola notte può comportare un esaurimento fatale delle loro riserve. Ed è per questa ragione, ricorda Yong, che ogni volta che migliaia di uccelli finiscono avvolti dalla luce dei fasci accesi l’11 settembre l’installazione viene provvisoriamente spenta per una ventina di minuti, per permettere agli uccelli di recuperare l’orientamento.

In casi meno eccezionali ma che possono lo stesso influenzare il comportamento degli uccelli migratori e causarne la morte, fonti di luce in grado di disorientarli provengono da stadi sportivi, per esempio, o da edifici luminosi, piattaforme petrolifere o attrazioni turistiche di vario tipo. Altre fonti di luce largamente ritenute inevitabili, come per esempio quelle necessarie per avvertire i piloti di aerei della presenza di torri di trasmissione, potrebbero provocare meno danni se le luci fisse fossero sostituite da luci lampeggianti.

La luce rossa, come emerso anche dalle ricerche di Barber, è una scelta migliore perché causa meno danni a insetti e pipistrelli. È noto però da altre ricerche che può ostacolare gli uccelli migratori. Quella gialla, per fare un altro esempio, può disturbare le salamandre ma non attira la maggior parte degli insetti. E non attira nemmeno le tartarughe marine appena emerse dai loro nidi nella sabbia, che anziché raggiungere l’oceano vengono spesso distratte dalle luci artificiali provenienti dalla direzione opposta e finiscono investite dalle auto o cacciate dai predatori.

«Nessuna lunghezza d’onda è perfetta ma il blu e il bianco sono i colori peggiori di tutti», ha detto a Yong lo scienziato statunitense Travis Longcore, ricercatore in scienze ambientali all’Institute of the Environment and Sustainability a Los Angeles. Le luce blu è però la più economica da produrre e la più efficiente: le luci a LED di ultima generazione contengono infatti molta luce blu. Usarle per convertire tutte le attuali luci giallo-arancione sarebbe, in termini energetici, «una vittoria ambientale». Ma la quantità di inquinamento luminoso globale aumenterebbe di due o tre volte.

salamandra tigre

Una salamandra tigre attraversa un sentiero a New Richmond, in Wisconsin, il 6 ottobre 2016 (Caitlin Smith/Planet Pix via ZUMA Wire)

Un altro rilevante fattore di inquinamento sensoriale è quello acustico. Secondo uno studio condotto negli Stati Uniti e pubblicato nel 2019 sulla rivista Frontiers in Ecology and the Environment, l’attività umana è responsabile di un cospicuo aumento dei livelli di rumore di fondo nelle aree protette come i parchi nazionali. Gli aerei e le strade sono le fonti di inquinamento acustico più diffuse ma, come dimostrato anche dagli studi sugli spostamenti della ghiandaia di Woodhouse in New Mexico, altre fonti sono l’estrazione di gas e petrolio e altre attività che prevedono trivellazioni, esplosioni o altre azioni rumorose.

Un costante aumento dei rumori si è verificato anche nei mari, dove dal 1945 al 2008 la flotta globale è più che triplicata, sposta merci in quantità dieci volte maggiore e a velocità più elevate. I livelli di rumore a bassa frequenza negli oceani negli ultimi 50 anni sono aumentati di 32 volte, condizionando il comportamento delle balene e di altri animali. E si ritiene che ci sia stato un aumento di circa 30 decibel rispetto ai tempi prima dell’esteso utilizzo della propulsione tramite elica. È possibile, fa notare Yong, che alcune balene capaci di vivere per un secolo e oltre abbiano fatto esperienza diretta di questo crescente frastuono sottomarino.

«Se dicessi che aumenterò di 30 decibel il livello di rumore nel tuo ufficio, l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro entrerebbe e direbbe che hai bisogno di indossare i tappi per le orecchie», ha detto a Yong l’esperto di mammiferi marini John Hildebrand, ricercatore della Scripps Institution of Oceanography in California.

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Ci sono animali che si sono adattati a molte forme di inquinamento sensoriale, scrive Yong, e hanno cambiato comportamenti sia nel corso della vita individuale che nel corso di molte generazioni. Alcuni ragni nelle città hanno cominciato a costruire ragnatele sotto i lampioni per intrappolare più insetti, per esempio. E negli stessi ambienti alcune falene si sono evolute per essere meno attratte dalla luce.

Ma per molte specie che maturano e si riproducono più lentamente l’adattamento non è possibile, o non può essere abbastanza rapido da tenere il passo con i livelli crescenti di inquinamento luminoso e acustico.

Inoltre, afferma Yong, l’inquinamento sensoriale ha spesso un’influenza non solo distruttiva ma «omogeneizzante», perché condizionando gli altri mondi sensoriali tende a produrre popolazioni di animali più piccole e meno diversificate. Non solo inquiniamo il pianeta producendo «stimoli sensoriali indesiderati» ma rimuoviamo anche «gli stimoli naturali da cui gli animali sono diventati dipendenti». E ogni nuova estinzione di una specie comporta l’estinzione del suo umwelt: quindi, per noi, la perdita di un’opportunità di interpretare il mondo.

Un tentativo di rendere meno condizionante la nostra presenza dovrebbe secondo Yong partire innanzitutto dal passaggio più semplice: anziché tentare di ripristinare «stimoli che abbiamo rimosso», potremmo provare a «rimuovere quelli che abbiamo aggiunto». A differenza dei rifiuti radioattivi o della plastica, il cui smaltimento richiede tempi lunghi, l’inquinamento sensoriale è «un raro esempio di problema planetario che può essere affrontato immediatamente ed efficacemente». Quello luminoso cessa appena le luci si spengono e quello acustico diminuisce appena vengono spente le sorgenti di rumore.

Anche misure semplici possono fare una grande differenza nella mitigazione dell’inquinamento sensoriale. Nel 2017 lo staff del Muir Woods National Monument, una foresta protetta in California, condusse un esperimento che prevedeva l’installazione di un cartello in alcune aree del parco scelte casualmente. Il cartello diceva che quell’area era stata dichiarata «zona tranquilla» e, senza aggiungere spiegazioni, invitava i visitatori a silenziare gli smartphone e abbassare il tono della voce. Questa semplice misura ridusse i livelli di rumore nel parco di tre decibel: come se ci fossero 1.200 visitatori e visitatrici in meno. E da allora i cartelli sono stati resi permanenti.