Come fanno gli animali a non perdersi

Sensi ipersviluppati, dotazione genetica e apprendimento costante formano i loro efficienti sistemi di navigazione “incorporati”, assai superiori ai nostri

San Francisco
San Francisco, California (AP Photo/Jeff Chiu)
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Ad aprile scorso Apple ha presentato un nuovo accessorio chiamato AirTag, un tracker da applicare agli oggetti per localizzarli facilmente in caso di smarrimento. Funzioni simili esistono da tempo e sono integrate in altri dispositivi che possono essere applicati, volendo, anche ai propri animali domestici per evitare di perderli di vista negli spazi all’aperto. Questo caso particolare – un utilizzo da alcuni peraltro sconsigliato, a causa del grado di affidabilità ancora limitato – fa emergere piuttosto limpidamente la sproporzione che esiste tra la nostra capacità di orientarci nello spazio e quella degli animali.

Le storie di animali domestici smarriti che ritrovano la strada di casa, percorrono distanze considerevoli e infine tornano dai loro padroni affollano da sempre una vasta e a volte dubbia aneddotica. Ma è un fatto noto e assodato, al netto di qualsiasi iperbole letteraria, che molte specie di animali siano in grado di compiere viaggi lunghissimi da un punto A a un punto B senza mai perdersi. Come sia possibile è una delle domande – ancora in gran parte priva di risposte – che guidano la ricerca in diversi ambiti di studi scientifici. Ne ha scritto recentemente in un articolo la giornalista del New Yorker Kathryn Schulz, peraltro vincitrice nel 2016 del premio Pulitzer nella categoria “Feature writing” per un articolo sui rischi sismici nel Pacifico nord-occidentale.

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L’evoluzione delle tecnologie di geolocalizzazione ha permesso negli ultimi anni di monitorare i viaggi compiuti dagli animali e acquisire molte informazioni sui loro spostamenti. Ha anche permesso di avere maggiore consapevolezza degli effetti diretti e indiretti delle numerose e crescenti interferenze in quelle traiettorie da parte dei «peggiori navigatori del pianeta, noi». Scrive Schulz, chiarendo subito quale sia la specie con le idee meno chiare sulla destinazione:

«Mentre altri animali rendono così affascinante questo campo di studio, noi umani ci distinguiamo principalmente per aggiungere sfumature esistenziali alle domande fondamentali della navigazione: come siamo arrivati qui? E dove stiamo andando esattamente?»

Tutti gli animali, ovunque e comunque vadano in giro, si spostano prevalentemente per gli stessi motivi: per nutrirsi, per accoppiarsi o per sfuggire ai predatori. È questa la funzione evolutiva della loro mobilità, scrive Schulz, citando casi noti e impressionanti di questa capacità, come i salmoni. Dopo la schiusa delle uova nei fondali di acqua dolce, i salmoni atlantici ridiscendono i fiumi per dirigersi verso l’oceano e, dopo aver trascorso in mare un tempo che va da tre a cinque anni, sono in grado di tornare nelle acque dolci a deporre le uova e avviare un nuovo ciclo vitale. Ed è un viaggio che affrontano percorrendo distanze di centinaia di chilometri, guidati dal loro olfatto, in grado di rilevare in un metro cubo d’acqua di mare una singola goccia del fiume in cui sono nati.

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La formidabile abilità di alcune varietà del colombo nel trovare la via per tornare al nido – il piccione viaggiatore, altro esempio noto – è stata sfruttata nella storia come mezzo di comunicazione. Trasportato lontano dalla piccionaia, il piccione viaggiatore è in grado di percorrere più di mille chilometri per fare ritorno al nido. La nocciolaia di Clark, una specie di corvo presente in California e nella Columbia Britannica, è in grado di ritrovare e recuperare semi che aveva sotterrato mesi prima orientandosi in un’area di oltre 260 chilometri quadrati. In esperimenti in laboratorio alcuni ragni della famiglia dei salticidi, la più numerosa, sono riusciti a raggiungere una preda in un labirinto anche se per riuscirci era per loro necessario muoversi nella direzione opposta rispetto a quella immediatamente intuibile.

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Un salmone reale insieme a un banco di alose nel fiume Columbia, in Oregon (Jeff T. Green / Getty Images)

Ci sono diversi aspetti che rendono queste abilità sorprendenti, fa notare Schulz, a cominciare da quelli che riguardano la fisiologia stessa degli animali. Sono dotati di efficienti sistemi di navigazione, per esempio, anche animali di dimensioni ridottissime come il colibrì rossiccio, un uccello di tre grammi e lungo circa otto centimetri, le cui migrazioni coprono distanze di oltre 6 mila chilometri. Gli uccelli migratori nello specifico viaggiano in molti casi di giorno e di notte, e per diversi giorni, e questo implica che cambino di continuo praticamente tutti i riferimenti che potrebbero servire loro per l’orientamento, dalla posizione del sole alla lunghezza del giorno, senza che questo condizioni la traiettoria prestabilita della migrazione.

Inoltre ogni animale deve sapere dove sta andando anche la prima volta, senza esserci mai stato, e conoscere il punto di quella destinazione rispetto alla sua posizione alla partenza. Questo riguarda anche le specie che si muovono sottoterra o nell’oceano.

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Nel libro Nature’s Compass la coppia di etologi James e Carol Grant Gould descrive diversi tipi di strategie condivise dagli animali per rimanere nella giusta rotta durante i viaggi. Alcuni si muovono in direzione di un segnale, o nella direzione opposta: è il caso della fototassi, quando l’organismo si muove in base a un determinato stimolo luminoso, o della fonotassi, quando il segnale è sonoro. Altri animali si orientano invece attraverso una sorta di bussola interna e mantengono la direzione grazie a un rilevamento costante della posizione. Altri sistemi ancora implicano anche una “stima” della velocità di viaggio o del tempo trascorso da quando è stata lasciata una posizione precedente. E ci sono strategie ancora più complesse, oltre a queste.

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Una dalmata a un’esposizione canina a Birmingham, in Inghilterra, il 9 marzo 2003 (Scott Barbour/Getty Images)

Ciascuna di queste diverse strategie si lega a meccanismi biologici che, a seconda dei casi, richiedono di avere abilità specifiche molto sviluppate come un’ottima memoria o una conoscenza approfondita e dettagliata dell’ambiente circostante. Il meccanismo di navigazione più facile da capire è quello che somiglia al nostro, basato cioè su una combinazione di visione e memoria. In alcuni esperimenti in laboratorio, ratti ben addestrati non erano più in grado di orientarsi in un labirinto dopo che quel labirinto veniva cambiato di posizione. Non ci riuscivano, si scoprì alla fine, perché per muoversi attraverso il labirinto utilizzavano anche punti di riferimento sul soffitto del laboratorio: in precedenza non stavano quindi apprendendo e memorizzando delle sequenze motorie del tipo “dieci passi avanti, gira a destra, tre passi avanti”.

Altri sistemi di navigazione sfruttano sensi totalmente sconosciuti agli esseri umani. Alcuni animali come le giraffe, i piccioni e le balene, per esempio, sono in grado di rilevare gli ultrasuoni, che si propagano per centinaia di chilometri via aria e per distanze ancora maggiori via mare. Gli squali possono muoversi alla ricerca di prede sfruttando una sensibilità a deboli campi magnetici ed elettrici percepiti attraverso particolari recettori presenti sul muso. E i pipistrelli per muoversi non utilizzano soltanto l’ecolocalizzazione, la loro nota capacità di sfruttare i riflessi delle onde sonore che emettono. Per gli spostamenti sulle lunghe distanze, come sostenuto da diversi studi, “tarano” una sorta di bussola magnetica utilizzando la polarizzazione della luce, una proprietà rilevabile anche nelle giornate in cui il sole è coperto dalle nuvole. Sistemi simili sono presenti anche in alcuni insetti come gli efemerotteri, in crostacei come le canocchie e nelle lucertole.

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Le formiche del deserto (Cataglyphis bicolor) utilizzano un sistema basato soltanto in parte sulla vista. In alcuni esperimenti è stato calcolato quanto sottostimassero o sovrastimassero le distanze da una fonte di cibo al nido alcune formiche le cui zampe venivano accorciate di un millimetro o allungate tramite trampoli di un millimetro. Le prime percorrevano mediamente soltanto il 50 per cento della distanza e le seconde, quelle con i trampoli, il 50 per cento in più. In qualche modo, conclusero i ricercatori, tramite un sistema interno che si riavvia ogni volta che rientrano al nido, le formiche tengono traccia dei passi compiuti.

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Un colibrì dalla coda ruvida (Amazilia tzacatl) ad Alajuela, Costa Rica (Dan Kitwood/Getty Images)

Nell’articolo del New Yorker Schulz si sofferma su quella che definisce «la navigazione pura», cioè la capacità di raggiungere una destinazione senza alcun punto di riferimento. Quella a cui potremmo unicamente fare appello, per capirci, se fossimo rapiti nell’oscurità totale, portati a migliaia di chilometri di distanza e abbandonati in un luogo disabitato, senza bussola né mappe a disposizione. In un caso del genere la differenza sostanziale tra noi e diversi animali, spiegano gli scienziati, è che certe coordinate geografiche fanno semplicemente parte della loro eredità evolutiva. E alcuni animali non soltanto sanno istintivamente dove stanno andando, ma migliorano ulteriormente queste abilità nel corso della loro vita.

Sono stati fatti esperimenti che provano in un certo senso a riprodurre lo scenario del rapimento. In uno studio pubblicato nel 2007 un gruppo di ricercatori che si trovavano nello stato di Washington intrappolò alcuni individui di passero corona bianca durante la loro migrazione annuale dal Canada al Messico. Trasportati in New Jersey in uno scompartimento senza finestre, i passeri ripresero la migrazione subito dopo essere stati liberati.

Gli individui più giovani si diressero a sud, seguendo quindi la stessa rotta utilizzata dal gruppo in volo nello stato di Washington. Gli individui adulti si diressero invece verso sud-ovest, correggendo la rotta in base alla nuova posizione. In qualche modo rimediavano a «uno spostamento che niente nella loro storia evolutiva avrebbe potuto prevedere». Altri studi successivi confermarono che gli uccelli adulti sono in grado di ri-orientare le loro traiettorie di migrazione anche dopo essere stati trasportati a 10 mila chilometri dalla loro rotta normale.

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Una delle ipotesi più condivise per spiegare l’orientamento di diversi animali ricorre al loro probabile uso del campo magnetico terrestre. Alcuni esperimenti dimostrano che, per esempio, piccioni viaggiatori liberati sopra una miniera di ferro hanno difficoltà a orientarsi finché non volano lontano dalla miniera. E in altri studi in parte guidati dai risultati di questi esperimenti i ricercatori hanno scoperto la presenza di piccole quantità di magnetite – il minerale con le più intense proprietà magnetiche esistente sulla Terra – nei becchi di diversi uccelli, e anche nei delfini, nelle tartarughe e in altri animali.

Nepal Everest

Il monte Everest fotografato dal Namche Bazar, un villaggio del Nepal ai piedi dell’Himalaya a 3.440 metri di altitudine, il 27 maggio 2019 (AP Photo/Niranjan Shrestha)

È come se quegli animali sfruttassero aghi di una bussola “incorporata” che funziona però in modo estremamente complesso e completamente diverso dalle nostre bussole. Si ritiene che non serva ad allineare nord e sud ma soltanto a stabilire l’inclinazione magnetica, l’angolo che la direzione del campo magnetico terrestre forma con il piano orizzontale in un qualsiasi punto della Terra. Il funzionamento completo dei sistemi fisiologici attraverso cui, a partire dalla magnetite, gli animali riescono a rilevare la polarità, l’intensità e l’inclinazione del campo è ancora oggetto di studio.

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Schulz cita poi una serie di scenari sperimentali che dimostrano, di contro, le ridottissime capacità degli esseri umani di orientarsi nello spazio. Se si chiede a un gruppo di persone in un campo, dopo che sono state trasportate lì in autobus bendate, di provare a tornare al punto di partenza, quelle persone si allontaneranno in tutte le direzioni. Se si chiede loro di attraversare un campo per raggiungere un bersaglio e poi il bersaglio viene nascosto, quelle persone perderanno la rotta in pochi secondi. Non che gli esseri umani non siano dotati di strumenti innati di “navigazione”, chiarisce Schulz, ma – a differenza che negli animali – l’orientamento è per gran parte una questione di apprendimento.

Questi processi sono evidentemente molto condizionati dalla nostra storia evolutiva. Le competenze di base nell’individuazione di un percorso a piedi o di una rotta marittima erano un tempo una faccenda di sopravvivenza ed erano quindi molto più diffuse nella nostra specie di quanto non lo siano oggi. Quelle abilità, tramandate e perfezionate di generazione in generazione, sono poi state progressivamente supportate nel tempo dall’invenzione di strumenti integrativi dei dati forniti dall’osservazione e dalla memoria, dall’astrolabio alle carte nautiche.

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«Perversamente, è proprio in parte perché questi strumenti sono molto migliorati che molti di noi sono peggiorati nel trovare la strada senza di essi», fa notare Schulz. Ed è una storia che comincia molto prima del GPS, che ha sostanzialmente fatto venire meno qualsiasi apparente necessità di orientarsi da soli. C’entra prima di tutti l’urbanizzazione: «dopo trecentomila anni in prossimità della natura selvaggia, in pochi secoli siamo emigrati in gran numero e per la maggior parte nelle città».

L’aiuto costante fornito da punti di riferimento artificiali come la segnaletica stradale ha via via atrofizzato alcune facoltà umane. Molti riferimenti naturali come i fiumi, il sole o le stelle sono stati coperti e resi di fatto inutilizzabili. E anche la progressiva perdita di autonomia e libertà nei movimenti, determinata da nuove abitudini sociali che interessano i primi anni di vita, ha indebolito la nostra memoria spaziale.

oche indiane

Una colonia di oche indiane durante una migrazione, in una riserva a Ranbirsinghpora, India, vicino al confine con il Pakistan, il 17 gennaio 2020 (AP Photo/Channi Anand)

Oltre che compromettere i nostri sistemi di navigazione in modi che ancora in larga parte ignoriamo, conclude Schulz, le pratiche umane sviluppate negli ultimi decenni e i fenomeni come l’urbanizzazione, la deforestazione o l’inquinamento luminoso stanno condizionando anche i sistemi di altre specie viventi. Per esempio, uno degli erbicidi più comunemente usati al mondo, il glifosato, interferisce con le capacità di navigazione dell’ape europea (apis mellifera). La bonifica di molte zone umide del pianeta, per fare un altro esempio, ha sottratto a milioni di uccelli costieri in migrazione zone che fungevano da “scalo”.

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E poi c’è il cambiamento climatico, che rappresenta una minaccia per l’esistenza stessa di molte specie. Lo è non per le temperature o il livello degli oceani in termini assoluti: nella lunga storia evolutiva dei vertebrati le temperature medie hanno subìto variazioni molto ampie, e il livello degli oceani è stato sia molto più alto che molto più basso rispetto al livello attuale. Ma la maggior parte degli animali è riuscita ad adattarsi a quei cambiamenti climatici perché, anche se drastici, sono avvenuti gradualmente.

A proposito di una specie di oca dell’Asia centrale, l’oca indiana (Anser indicus), capace di raggiungere e superare alcune delle vette più alte dell’Himalaya, gli ornitologi ipotizzano che questa sua capacità risalga a un tempo geologico in cui l’Everest nemmeno esisteva. Quando il monte incominciò a elevarsi in seguito alla collisione della placca indoaustraliana con quella euroasiatica, circa 55 milioni di anni fa, le oche indiane iniziarono a spostarsi verso l’alto con il monte. «Il problema con la nostra attuale crisi climatica non è quindi la sua natura ma il suo ritmo: in termini evolutivi, è un Everest sorto in una notte», sintetizza Schulz.