Una grande moria di aquile calve spiegata 25 anni dopo

Fu osservata negli Stati Uniti durante gli anni Novanta: ora uno studio pubblicato su Science ha risolto il mistero

(AP Photo/ Jeff Roberson)
(AP Photo/ Jeff Roberson)

Un articolo del New York Times del primo febbraio del 1998 parlava di come il mistero dietro alla morte di una settantina di aquile calve in alcuni stati del sud-est degli Stati Uniti fosse diventato quasi un caso nazionale: l’aquila calva è il simbolo del governo degli Stati Uniti, protetta da diverse leggi federali, e gli scienziati di tutto il paese non riuscivano a capire cosa avesse provocato una moria così diffusa di uccelli. Circa venticinque anni dopo, un approfondito studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Science ha ricostruito la complessa catena di eventi dietro al mistero, causata da «un’insidiosa combinazione di fattori».

A partire dal 1994 decine di aquile calve, o aquile di mare dalla testa bianca, vennero trovate morte in alcuni laghi artificiali nel sud-ovest dell’Arkansas: le prime al DeGray Lake, nel nord della contea di Clark, e altre ancora poche decine di chilometri più a nord. Prima di morire, i rapaci avevano mostrato comportamenti insoliti, che gli scienziati non sapevano spiegarsi: volavano andando a sbattere contro gli argini del lago e gli alberi, le loro ali erano indebolite e non funzionavano più. Era come se fossero ubriache.

In totale morirono più di 70 aquile in dieci laghi diversi, e l’allarme crebbe in particolare nel gennaio del 1998, quando in altri laghi artificiali della Georgia e del North Carolina furono trovate morte diverse folaghe, comuni uccelli acquatici, che presentavano le stesse lesioni al cervello osservate nelle aquile.

Come aveva detto al New York Times Karen Rowe, biologa esperta di specie a rischio di estinzione della Arkansas Game and Fish Commission, la preoccupazione non era tanto per l’impatto sulla popolazione delle aquile testa bianca, che non erano considerate una specie a rischio, ma piuttosto «il fatto che ci fosse una tossina o un agente nocivo» che gli scienziati non erano in grado di identificare e che stava causando un gran numero di morti in aree ben precise.

Dopo aver escluso che si trattasse di botulismo (una grave intossicazione che può provocare paralisi) e che le aquile calve fossero morte per avvelenamento da metalli pesanti o da pesticidi, diversi scienziati si misero al lavoro per provare a capire cosa avesse causato le lesioni al cervello. Tra di loro c’era anche Susan Wilde, esperta di ambienti acquatici dell’Università della Georgia, che cominciò a lavorare sul caso nel 2001 ed è una delle autrici del nuovo studio, pubblicato il 26 marzo.

Dalle ricerche degli scienziati è emerso che la responsabile della morte delle aquile calve fu una particolare specie di batteri (cianobatteri o alghe verdi-azzurre) che cresce su una particolare pianta infestante e che in presenza di specifiche sostanze inquinanti sviluppa una particolare tossina, all’epoca sconosciuta. La morte sopraggiungeva a causa della mielopatia vacuolare, una malattia che provocava lesioni nel cervello che faceva sembrare gli uccelli ciechi e scoordinati.

La patologa Carol Meteyer, che lavorava al caso per conto del National Wildlife Health Center del Wisconsin, aveva osservato che le folaghe che vivevano negli stessi laghi artificiali dove erano state trovate le aquile morte non nuotavano più in maniera normale e facevano fatica a tenere la testa fuori dall’acqua: per questo erano diventate prede facili per le aquile, che dopo averle mangiate si ammalavano.

Meteyer aveva intuito che qualsiasi cosa avesse causato la morte degli animali doveva essere legata a qualcosa che mangiavano: e nei laghi artificiali dove vivevano le folaghe cresceva abbondante la hydrilla verticillata, una pianta acquatica invasiva sulle cui foglie erano state osservate alcune macchie provocate per l’appunto dai cianobatteri.

Questi batteri a volte possono produrre tossine che sono in grado di uccidere pesci e uccelli, ma la cosa strana era che di solito vivono sulla superficie dell’acqua e non sulle piante. Il biochimico della State University of New York Gregory Boyer, che non aveva partecipato alle ricerche, ha detto all’Atlantic di ricordarsi del momento in cui Wilde aveva proposto per la prima volta questa teoria: c’era «molto scetticismo», ha spiegato, soprattutto perché la tossina sviluppata dai cianobatteri non era conosciuta.

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Dal 2011 furono condotti diversi esperimenti per studiare la nuova tossina e per capire se i cianobatteri cresciuti in laboratorio si comportassero in maniera diversa rispetto a quelli che vivevano in natura. Dopo l’analisi dei campioni di batteri raccolti nei laghi con una tecnica di osservazione sofisticata, gli scienziati riuscirono a capire che la tossina fino ad allora sconosciuta era stata prodotta soltanto dai cianobatteri che crescevano sull’hydrilla e non su quelli cresciuti in laboratorio, e che la sua molecola conteneva cinque atomi di bromo.

Un gruppo di scienziati provò quindi ad aggiungere il bromo ai cianobatteri cresciuti in laboratorio, ottenendo la stessa tossina, che in un test effettuato sui polli provocò le medesime lesioni che erano state riscontrate nel cervello delle aquile e delle folaghe. La tossina è stata chiamata aetokthonotoxin: “veleno che uccide l’aquila”.

Non è ancora chiaro da dove arrivino gli atomi di bromo che permettono lo sviluppo della tossina, ma secondo gli scienziati la sua origine ha a che fare con la «combinazione letale» di alcuni eventi, tra cui molto probabilmente la modifica dell’ecosistema a causa dell’attività umana. Nello studio si ipotizza che il bromo possa provenire dall’industria chimica, dagli additivi per carburanti oppure, curiosamente, dagli stessi erbicidi che vengono impiegati per distruggere la hydrilla invasiva.