Il caldo è un problema anche per gli animali

Non soltanto per le specie domestiche e da allevamento, ma anche per la sopravvivenza di quelle selvatiche e di interi ecosistemi

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Un pitbull si rinfresca in una fontana a New York, il 12 luglio 2011 (Ramin Talaie/Getty Images)
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Nel giugno scorso in Kansas, il paese con la terza maggiore industria di allevamento di bestiame negli Stati Uniti, duemila bovini sono morti a causa del caldo estremo e dei livelli molto alti di umidità. Condizioni simili nel Nord America, con temperature massime intorno a 50 °C, avevano provocato nell’estate del 2021 danni ingenti alla fauna selvatica, suscitando molta preoccupazione riguardo alle capacità degli animali di sopravvivere ai sempre più frequenti eventi estremi associati al cambiamento climatico.

Le riflessioni sulle ripercussioni prevedibili del cambiamento climatico sulla vita delle specie animali non umane alimentano un dibattito molto trasversale. Ne fanno parte preoccupazioni relative sia ai rischi per gli ecosistemi e la biodiversità, sia alle conseguenze per le economie basate sugli allevamenti. Secondo un recente studio pubblicato sulla rivista The Lancet Planetary Health, entro la fine del secolo l’innalzamento delle temperature potrebbe provocare tra gli allevatori di bestiame a basso reddito nei paesi più poveri perdite economiche stimate in una cifra tra 15 e 40 miliardi di dollari all’anno.

Infine, come ricordato negli ultimi giorni da diversi media che si sono occupati delle ondate di caldo in Europa, i colpi di calore possono essere letali anche per cani, gatti e altri animali da compagnia. La differenza sostanziale rispetto alla fauna selvatica è che agli animali domestici è generalmente destinato un livello di attenzioni e di cure che permette di ridurre molto i rischi.

In generale, le passate condizioni di caldo intenso e gli effetti sugli animali da allevamento riscontrati in zone come l’India, il Sud America e il Nord Africa forniscono agli scienziati dati limitati e non sufficienti a prevedere con precisione quali conseguenze avranno sugli animali le sempre più frequenti ondate di calore in zone come l’Europa e gli Stati Uniti. E questo non soltanto per le differenze che esistono tra i diversi ambienti, ma soprattutto perché le attuali condizioni estreme sono contraddistinte da temperature superiori a quelle registrate negli ultimi decenni.

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Mucche da latte vengono rinfrescate in una fattoria a Turlock, in California, il 26 luglio 2006 (Justin Sullivan/Getty Images)

Esiste evidentemente un limite di temperatura superato il quale i mammiferi e altre classi di animali non possono sopravvivere. Ma, come vale per gli esseri umani, quale sia questo valore ha a che fare con diversi fattori ambientali: non soltanto la temperatura dell’aria esterna ma anche il tasso di umidità e il livello di ventilazione. La temperatura di bulbo umido è in questo senso ritenuta un parametro più utile, rispetto a quella misurata con un comune termometro (cioè a bulbo secco), per misurare il caldo umido e provare a definire dei limiti di sopravvivenza.

La temperatura di bulbo umido è generalmente misurata attraverso un termometro avvolto in un pezzo di garza bagnata e, per effetto refrigerante dell’evaporazione dell’acqua, è più bassa rispetto a quella di bulbo secco. In presenza di caldo umido, quindi con temperatura esterna molto elevata e aria satura di vapore acqueo, gli esseri viventi faticano a cedere calore attraverso il corpo (cosa che per la maggior parte degli animali avviene in modi diversi dalla sudorazione). La loro temperatura interna comincia quindi a salire fino a raggiungere un punto di equilibrio con quella esterna. E questa condizione può in poche ore portare alla morte per ipertermia, nel caso in cui la temperatura esterna superi una certa soglia.

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Qualsiasi superamento di una temperatura di bulbo umido di 35 °C per periodi prolungati indurrebbe ipertermia negli esseri umani e in altri mammiferi, rendendo impossibile per loro la dissipazione del calore metabolico, scrissero il ricercatore statunitense Matthew Huber e il ricercatore australiano Steven Sherwood in uno studio pubblicato nel 2010 sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS).

Questa soglia viene attualmente superata soltanto per brevi intervalli e in aree del mondo molto limitate, ma gli scienziati ritengono che a un aumento della temperatura media globale possa corrispondere in futuro un proporzionale aumento delle temperature massime di bulbo umido.

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Un orso mangia della frutta ghiacciata in uno zoo a Rio de Janeiro, in Brasile, il 13 gennaio 2015 (AP Photo/Silvia Izquierdo)

Il problema della definizione delle soglie massime di sopravvivenza, come Huber ha ribadito in un recente articolo sulla rivista online Bulletin of the Atomic Scientists, è che quei valori sono riferiti a esseri viventi perfettamente idratati, all’ombra ed esposti a una forte ventilazione. Ma nella realtà gli esseri viventi possono sperimentare condizioni critiche anche molto prima di arrivare a quelle temperature massime di bulbo umido.

Inoltre, per la fauna selvatica le ondate di calore sono soltanto uno dei problemi dovuti al riscaldamento globale, disse l’estate scorsa a National Geographic Mažeika Sullivan, docente alla School of Environment and Natural Resources della Ohio State University. Gli eventi di caldo estremo sono infatti aggravati dalla siccità e dagli incendi sempre più estesi e intensi, che portano a una frammentazione degli ambienti in cui gli animali vivono, dopo essere fuggiti per mettersi in salvo.

In futuro potrebbero di conseguenza aumentare anche le interazioni tra gli esseri umani e la fauna selvatica. «Molto probabilmente gli animali correranno dei rischi che normalmente non correrebbero per cercare acqua», aggiunse Sullivan, riferendosi ai casi sempre più frequenti di animali selvatici che raggiungono i centri urbani.

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Tutti gli animali a sangue caldo (endotermi) in misura maggiore o minore sono soggetti a limiti biologici di temperatura e umidità. La maggior parte dei dati esistenti riguarda il bestiame, ha scritto Huber, e bisogna quindi tenere a mente che per le specie selvatiche e per interi ecosistemi i rischi sono diversi, dal momento che «la fauna selvatica non ha accesso a tecnologie come l’aria condizionata da poter utilizzare per adattarsi a temperature straordinarie».

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Una donna riposa con i suoi due cani in un centro di ospitalità climatizzato allestito nell’Oregon Convention Center, a Portland, il 27 giugno 2021 (Nathan Howard/Getty Images)

Il limite massimo di temperatura corporea interna sostenibile per i mammiferi è di circa 37-38 °C, se si considera la temperatura del sangue in circolazione in determinate aree critiche, come vicino alla base del cervello. Le temperature interne possono essere inferiori, ma non superiori senza che questo causi lesioni o morte. Più o meno lo stesso valore di temperatura interna massima vale per tutti i mammiferi placentati, fatto che indica che «quella temperatura è condivisa tra i mammiferi con un antenato comune», ha scritto Huber. Ed esistono «prove sostanziali che i mammiferi placentati abbiano questa temperatura corporea interna da decine di milioni di anni o più».

Per gli uccelli, che oggi si ritiene discendano da dinosauri aviani endotermi, i valori sono diversi. Possono sostenere temperature corporee interne massime significativamente più elevate (circa 43 °C), una caratteristica probabilmente ereditata a seguito delle condizioni calde e umide dell’era geologica in cui si sono evoluti, tra 100 e 65 milioni di anni fa, durante il Mesozoico.

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Le temperature interne massime per i mammiferi placentati (38 °C) e per gli uccelli (43 °C) sono condivise dalla maggior parte dei generi e delle specie all’interno di quelle classi. E questo, secondo Huber, «suggerisce fortemente che questi siano limiti immutabili sulle scale temporali umane». Non sono cioè valori che possono subire rapide evoluzioni in funzione delle condizioni ambientali, né per gli esseri umani né per altri animali. E nella storia della Terra lo dimostrano peraltro le estinzioni di massa seguite agli stravolgimenti dell’ecosistema del pianeta.

La maggior parte delle specie animali viventi oggi, ha scritto Huber, è il risultato di «una forte pressione evolutiva» per adattarsi alle condizioni più fredde delle epoche glaciali e interglaciali prevalenti negli ultimi 3 milioni di anni. E l’ultima volta in cui il clima è stato caldo come è previsto che lo sarà nei prossimi 50-100 anni risale ad almeno 3 milioni di anni fa, durante il Pliocene. Le previsioni oltre il 2100, basate su ipotesi di moderate emissioni future di gas serra, indicano «temperature comprese in un intervallo che non si vede dal Miocene» (da 23 a 25 milioni di anni fa).

Di conseguenza, esiste il rischio che entro un secolo o meno le temperature e l’umidità aumentino a un livello tale da estendere anche le temperature di bulbo umido oltre l’intervallo osservato negli ultimi 3 milioni di anni, o forse da ancora prima. E recenti studi condotti sulla storia evolutiva dei limiti termici degli animali endotermi indicano come la tolleranza al freddo si sia evoluta molto più velocemente della tolleranza al caldo.

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Un cervo a Matthews, in North Carolina, il 16 luglio 2016 (AP Photo/Chuck Burton)

La notizia almeno in parte rassicurante, secondo Huber, è che anche nell’ipotesi considerata più probabile di un aumento della temperatura globale di 3 °C nel prossimo futuro, «la maggior parte della biosfera terrestre non supererebbe il limite di 35 °C di bulbo umido per periodi di tempo significativi». La notizia meno buona è che, come detto, quella soglia per i mammiferi è un valore massimo di riferimento, e in realtà il limite di sopravvivenza potrebbe essere raggiunto anche con un riscaldamento globale inferiore a 3 °C. Nel frattempo altre metriche, come quelle relative alle radiazioni e ai venti, potrebbero inoltre diventare più significative e utili.

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Un argomento discusso, tra gli altri, a proposito delle conseguenze del cambiamento climatico sugli animali è infine se gli esseri umani debbano limitarsi a osservare i processi di adattamento delle altre specie o interferire con essi, ed eventualmente in quali modi (se attraverso allevamenti selettivi, modificazioni genetiche o altre modalità). Uno degli effetti del riscaldamento globale, secondo Huber, è che gli animali sperimentano sempre più spesso condizioni e ambienti diversi da quelli a cui si erano adattati in milioni di anni. Ed è improbabile che possano adattarsi in tempi significativamente più brevi.

«Ovviamente, la soluzione migliore sarebbe evitare del tutto questo esperimento», ha scritto Huber, sostenendo che limitare l’innalzamento della temperatura globale al di sotto di 3 °C ridurrebbe l’area del pianeta interessata da pericolose ondate di caldo umido. Diversamente, potrebbe a un certo punto porsi la questione se costruire rifugi naturali o artificiali in cui trasferire popolazioni di animali endotermi, lontano dalle regioni più a rischio, in modo da garantirne la sopravvivenza.

Significherebbe però, conclude Huber, che «la lotta per preservare i principali ecosistemi che rendono bello il nostro pianeta sarà stata persa». E sarebbe meglio non arrivare a considerare questa soluzione, «per il bene di tutti gli animali, noi compresi».