Quanto caldo è troppo caldo?

Dipende dall’umidità – se è un caldo secco o no, come si dice – ed è una domanda resa più urgente dal cambiamento climatico

troppo caldo
Un fotogramma del film “Chiamami col tuo nome”, del 2017
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Le recenti ondate di calore sono considerate parte di un insieme molto complesso di fenomeni climatici da tempo oggetto di studi e analisi tra gli scienziati, e di sempre più frequenti riflessioni preoccupate nell’opinione pubblica. Nella comunità scientifica esiste una sostanziale convergenza di opinioni in merito al fatto che il cambiamento climatico sia in qualche modo collegato a una maggiore frequenza di eventi atmosferici estremi come gli uragani, le alluvioni e la siccità.

Oltre a essere un fattore rilevante implicato in questi fenomeni, l’aumento della temperatura media globale – associato a sua volta all’aumento della presenza di gas serra nell’atmosfera – produce spesso condizioni estreme e gravi conseguenze anche durante le ondate di caldo, con temperature massime oltre i 40 gradi. Le ondate di caldo provocano migliaia di morti ogni anno nelle aree del mondo maggiormente interessate da questi fenomeni, ma possono avere conseguenze gravi anche a latitudini mediamente più fresche, proprio perché la popolazione in queste zone non è solitamente preparata e attrezzata con aria condizionata o ventilatori.

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Riflettendo sulle ondate di caldo recenti, il sito Slate si è chiesto nella sezione “Future Tense” – in cui si occupa di politiche pubbliche, società e tecnologie emergenti, in collaborazione con l’Università statale dell’Arizona – quali siano le temperature oltre le quali l’abitabilità umana di certe zone attualmente popolate sarebbe mortalmente compromessa. Fa innanzitutto riferimento alla differenza tra caldo secco e caldo umido, una distinzione conosciuta e piuttosto frequente anche nei discorsi comuni (abbastanza da aver generato una delle più note frasi fatte: “non è il caldo, è l’umidità”).

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Un centro di ospitalità climatizzato allestito nell’Oregon Convention Center, a Portland, il 27 giugno 2021(Nathan Howard/Getty Images)

Palm Springs è una popolare città turistica del Sud della California, nota per i suoi alberghi di lusso, campi da golf ed eventi culturali. Eppure è situata in un’area desertica a poche ore di distanza in macchina dalla Death Valley, uno dei posti più inospitali degli Stati Uniti. Con acqua a sufficienza – e in spazi all’ombra, per evitare insolazioni – gli esseri umani possono per esempio sopravvivere diverse ore al caldo di Palm Springs, con temperature massime fino a 50 gradi, trattandosi di un clima caldo e asciutto.

Le cose cambiano completamente se ci si sposta da un posto come Palm Springs a uno come Palm Beach, in Florida, una delle regioni più umide dell’emisfero occidentale. Un singolo giorno con 50 gradi causerebbe in quel caso migliaia di morti per ipertermia, una condizione caratterizzata dal rapido aumento della temperatura corporea, frequente in ambienti con temperatura molto elevata, alto tasso di umidità e scarsa ventilazione. L’esposizione prolungata a condizioni di questo tipo può causare l’alterazione dei normali meccanismi di termoregolazione del corpo ostacolando la dispersione del calore che avviene attraverso la sudorazione.

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Per spiegare meglio l’ipertermia e comprendere un concetto «fondamentale per la sopravvivenza e per la mitigazione della crisi climatica», secondo Slate, è utile richiamare la nozione di temperatura di bulbo umido, un valore diverso dalla temperatura di bulbo secco – quella misurata con un comune termometro – e generalmente misurata attraverso un termometro avvolto in un pezzo di garza bagnata. Per effetto refrigerante dell’evaporazione dell’acqua, la temperatura misurata dal termometro avvolto nel panno umido in un determinato ambiente sarà più bassa rispetto alla temperatura a bulbo secco in quello stesso ambiente. La differenza tra le due temperature corrisponde a una delle misure dell’umidità: con il 100 per cento di umidità, semplificando molto, le temperature di bulbo secco e umido saranno le stesse.

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Sarajevo, Bosnia, 23 giugno 2021 (AP Photo/Kemal Softic)

Si ritiene che alterazioni letali della normale termoregolazione umana possano verificarsi in ambienti con temperature di bulbo umido superiori a 35 gradi (ma anche con valori più bassi rispetto a questo, a seconda di altre variabili). Quando fuori fa caldo e i nostri corpi sudano, spiega Slate, la trasformazione del sudore da liquido sulla pelle a vapore nell’aria richiede energia, e quell’energia proviene dal calore del corpo, che si raffredda attraverso questo processo ed evita un aumento della temperatura interna.

Un caldo secco è una condizione più tollerabile perché l’evaporazione avviene così velocemente da non permetterci nemmeno di accorgerci del sudore sulla pelle. È anche la ragione per cui la disidratazione è un rischio più concreto negli ecosistemi desertici, dove l’aria secca permette di sopportare il caldo ma intanto comporta ugualmente una costante perdita di liquidi. In presenza di temperatura molto elevata e aria satura di vapore acqueo, invece, il sudore rimane sulla pelle e il corpo non riesce a cedere calore. La temperatura interna comincia quindi a salire e ad avvicinarsi a quella esterna fino a raggiungere un pericoloso punto di equilibrio, una condizione in grado di provocare la morte in poche ore, se la temperatura esterna supera una certa soglia.

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Il concetto di temperatura di bulbo umido è ritenuto un parametro molto significativo, utile a tenere traccia degli effetti del cambiamento climatico e avere indicazioni più precise riguardo a quando e dove le città diventeranno inabitabili. Indica infatti condizioni rispetto alle quali non è possibile immaginare che gli esseri umani si abituino, considerati i loro limiti fisiologici fondamentali. Aumentare progressivamente la quantità di popolazione mondiale con accesso all’aria condizionata, oltre che avere un costo enorme in termini ambientali, non è considerata una soluzione del problema a lungo termine, e l’aumento della domanda incrementerebbe peraltro le probabilità di interruzioni nelle forniture di energia elettrica.

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Docce all’aperto a Baghdad, in Iraq, giovedì 1° luglio 2021 (AP Photo/Khalid Mohammed)

I modelli climatici più condivisi indicano che le ondate di calore saranno via via più frequenti e più intense in ampie parti del pianeta, con conseguenze critiche già entro il 2050. Sebbene la previsione dell’andamento dell’umidità sia un’operazione più complessa, si prevede infatti che l’aumento delle temperature riguarderà sia quelle di bulbo secco che quelle di bulbo umido, determinando scenari in cui ombra e idratazione non saranno sufficienti per la sopravvivenza. Le zone più esposte al rischio di frequenti periodi di inabitabilità negli Stati Uniti, in base a queste previsioni, non sarebbero quelle desertiche con le attuali temperature più alte bensì le aree già umide, come per esempio la maggior parte del Midwest e degli Stati Uniti orientali.

Ondate di caldo estremo con temperature di bulbo umido superiori a 35 gradi, secondo altri modelli climatici, saranno regolari e sempre più frequenti anche nelle regioni del Golfo Persico, del Subcontinente indiano e della Cina orientale, aree tra le più densamente popolate al mondo.

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Molte proiezioni sottolineano la necessità di ridurre rapidamente le emissioni di gas serra per limitare o rallentare il più possibile il riscaldamento globale e, auspicabilmente, la frequenza con cui queste ondate di calore estremo potrebbero verificarsi in futuro. Sottolineano inoltre la necessità di attuare politiche di salvaguardia delle popolazioni più vulnerabili, che prevedano la creazione di centri climatizzati per i residenti anziani e l’invio sistematico di segnalazioni preventive in caso di ondate di calore imminenti.