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  • Sabato 8 agosto 2020

Il clima innescherà migrazioni colossali

Un nuovo e approfondito studio sulle conseguenze del cambiamento climatico presenta scenari che si stanno già avverando, con futuri spostamenti di centinaia di milioni di persone

Vosburg, Sudafrica, 14 novembre 2019 (AP Photo/Denis Farrell)
Vosburg, Sudafrica, 14 novembre 2019 (AP Photo/Denis Farrell)

Il giornale online ProPublica e il New York Times, con il sostegno dell’organizzazione Pulitzer Center, hanno lavorato con il geografo Bryan Jones a un ampio studio sulla cosiddetta “migrazione climatica”, cioè sulle persone che saranno costrette a lasciare la propria casa e la propria terra di origine per circostanze ambientali: non tanto quelle legate ai singoli eventi disastrosi, come un uragano, ma ai processi lenti e costanti già in atto come per esempio la desertificazione delle terre.

La ricerca – che riprende e amplia quella del 2018 fatta dalla Banca Mondiale e intitolata  “Groundswell – Preparing for internal climate migration” – si concentra soprattutto sulle conseguenze umane dei cambiamenti climatici: su come le persone si sposteranno all’interno dei loro paesi e dal loro paese a un altro. A partire dall’elaborazione di miliardi di dati, sono stati costruiti vari scenari basati soprattutto sulle risposte politiche che i paesi più ricchi e meno colpiti dal cambiamento climatico daranno ai cambiamenti climatici stessi e alle migrazioni che ne conseguiranno.

Cosa accadrà
Negli ultimi seimila anni, dice un importante studio pubblicato lo scorso maggio, il genere umano ha vissuto in zone della terra caratterizzate da un intervallo di temperature medie molto ristretto che sta tra gli 11 e i 15 gradi: in condizioni, dunque, che potevano permettere agricoltura, allevamento e sopravvivenza. Nei prossimi 50 anni, dice la ricerca, il clima cambierà più di quanto sia cambiato nei precedenti seimila anni: un terzo della popolazione si ritroverà a vivere in ambienti con una temperatura media attorno ai 29 gradi, quella che oggi si registra nello 0,8 per cento della superficie terrestre. Entro il 2070, dunque, le zone estremamente calde come il Sahara e che ora ricoprono meno dell’1 per cento della superficie terrestre potrebbero estendersi a quasi un quinto del territorio del pianeta.

Sui potenziali, probabili e certi effetti del cambiamento climatico sulla terra c’è un generalizzato consenso scientifico, e sono state fatte previsioni numeriche anche molto precise. Con l’aumento della temperatura, ampie fasce di territorio diventeranno più aride, e aumenteranno drasticamente le siccità estreme. Le frequenze e le intensità delle piogge cambieranno, con alcune zone che saranno più interessate di oggi (quelle monsoniche) e altre che lo saranno meno (quelle alle medie latitudini). Secondo le previsioni tutto questo, unito alla mutata composizione del suolo, causerà alluvioni devastanti.

Lo scioglimento dei ghiacci, inoltre, sta innalzando il livello delle acque del pianeta, che aumenterà, secondo le stime, tra gli 8 e i 13 centimetri entro il 2030, tra i 17 e i 20 centimetri entro il 2050, e tra i 35 e gli 82 entro il 2100, a seconda dei modelli matematici usati per le previsioni. Questo avrà conseguenze potenzialmente enormi per le persone che vivono vicino ai delta dei fiumi e in generale nelle zone costiere, soprattutto sulle isole più piccole. L’innalzamento del livello dei mari poi comporta una sempre maggiore salinizzazione del suolo, fenomeno che ha gravi conseguenze sull’agricoltura e che è naturalmente contrastato dalle piogge. Con i cambiamenti nelle precipitazioni e le siccità, però, questo ciclo è messo a rischio.

Fra le possibili conseguenze di tutto questo, i vari studi parlano di un cambiamento nella distribuzione geografica della popolazione, cioè migrazioni di massa, che si verificheranno comunque e nonostante le barriere psicologiche, sociali e politiche, poiché non esiste adattamento più naturale a un clima sfavorevole se non quello di migrare.

Di quante persone si parla?
Prevedere quanti saranno i migranti climatici è complicatissimo e secondo alcuni impossibile. La migrazione è un fenomeno umano ed è influenzata da una serie di fattori antropici che possono essere più difficili da prevedere di quelli naturali, già di per sé spesso incerti. La quantità di persone che lasceranno il proprio luogo di origine per circostanze ambientali dipenderà da una lunga serie di fattori aggiuntivi, che vanno dalle specificità dei luoghi e delle popolazioni alla facilità con cui sarà possibile spostarsi per questo genere di fenomeni, dal punto di vista legale ad esempio, fino ad arrivare alla risposta dei governi locali (ci torniamo).

Ci sono comunque studi che dicono che entro il 2050 i migranti climatici potrebbero essere 200 milioni, un numero esorbitante: una persona su 45 tra quelle che pensiamo vivranno in tutto il mondo, e più dei 192 milioni di persone che oggi vivono lontano dal proprio luogo di nascita. La Banca Mondiale, nel 2018, studiando gli effetti del cambiamento climatico in atto in tre regioni (Africa subsahariana, Asia meridionale e America Latina) ha stimato migrazioni interne (cioè all’interno dei propri confini, dalle aree rurali alle città vicine) di 143 milioni di persone entro il 2050: 86 milioni di persone in Africa, 40 milioni in Asia del Sud, 17 milioni in America Latina.

Il processo di migrazione è in realtà già in atto. Un’altra ricerca pubblicata nel novembre del 2017 dalla ONG Oxfam aveva parlato di 22 milioni di persone all’anno che, tra il 2008 e il 2016, sono state costrette in tutto il mondo ad abbandonare la propria casa a causa dei mutamenti climatici. Nel sud-est asiatico, dove le piogge e la siccità dei monsoni hanno drasticamente abbassato le rese dell’agricoltura, la Banca Mondiale ha parlato di oltre otto milioni di persone che si sono spostate verso il Medio Oriente, l’Europa e il Nord America.

Se lo spostamento lontano dai climi caldi raggiungesse le dimensioni che le attuali ricerche suggeriscono è probabile che si arriverà, scrive il New York Times, a una vera e propria «rimappatura delle popolazioni del mondo».

Conseguenze umane
Al di là dei numeri ci sono conseguenze molto complesse di cui tenere conto quando si parla di clima e migrazione. Diversi studi considerano il cambiamento climatico un elemento significativo nell’esasperazione sistemica che può portare all’inizio di un conflitto. Il New York Times cita ad esempio le perdite di raccolti e la conseguente disoccupazione come concausa delle rivolte della primavera araba in Egitto e in Libia. Una siccità senza precedenti, poi, ha contribuito tra il 2007 e il 2010 a spingere molti siriani dalle campagne alle periferie delle città, periferie già gravate dalla crescita della popolazione e dalla presenza di più di un milione di rifugiati arrivati dall’Iraq dopo la seconda guerra del Golfo. Tutto questo ha aggravato le tensioni, peggiorato la disoccupazione, aumentato la corruzione e la disuguaglianza.

I vari modelli elaborati non possono dire molto sulla tensione culturale e sociale che potrebbe derivare dall’afflusso di migranti climatici in alcuni paesi, ma è comunque qualcosa da tenere in considerazione, sapendo che potrebbe avere ripercussioni molto ampie.

Come avverrà tutto questo? 
La migrazione umana, come si è detto, è difficile da prevedere, ma è possibile individuare una tendenza: in tutto il mondo quando il cibo scarseggia le persone si spostano verso le città che, di conseguenza, crescono molto rapidamente. Il flusso migratorio interno provocherà dunque una sorta di shock: svuoterà le aree rurali, incrementerà la pressione su quelle urbane che diventeranno sovraffollate, povere di infrastrutture, con poca acqua o elettricità. E in questi contesti, in una specie di circolo vizioso, le persone saranno più vulnerabili alle inondazioni o ad altri disastri ambientali. Gli impatti sistemici, dice il New York Times, saranno gravissimi: aumenteranno la disoccupazione e la criminalità, si accentueranno le disuguaglianze, provocando possibili e profonde crisi politiche.

Le regioni potenzialmente più colpite dai cambiamenti climatici saranno e sono tra le più povere al mondo, nonostante nella stragrande maggioranza dei casi siano tra quelle che contribuiscono meno alle emissioni pro capite di gas serra, il principale contributo umano al cambiamento climatico. Tutto quel che accadrà come conseguenza delle migrazione climatiche costituirà dunque un fattore di pressione su un territorio e su un ambiente umano già vulnerabili.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha detto che il 96 per cento della futura crescita urbana avverrà in alcune delle città più fragili del mondo, che hanno già alti livelli di conflitto e governi che sono poco in grado di affrontarli. In questo momento poco più della metà della popolazione del pianeta vive nelle aree urbane, ma entro la metà del secolo, secondo la Banca Mondiale, nelle città vivrà il 67 per cento della popolazione e alcune città non riusciranno a sostenere l’afflusso.

Quando la situazione interna inizierà a diventare insostenibile, le persone tenderanno ad attraversare i confini e a intraprendere viaggi verso altri paesi, in quello che viene definito percorso di “migrazione graduale”. Lasciare un villaggio per la città è abbastanza difficile, scrive il New York Times, ma attraversare un confine e andare in un altro paese è un processo completamente diverso, se si tiene conto, tra l’altro, che il diritto internazionale non riconosce il diritto all’asilo per motivi ambientali. Per questo la definizione di “rifugiati climatici” è, almeno per ora, inesatta.

Scelta politica
«La migrazione può offrire grandi opportunità» dice il New York Times, non solo per i migranti ma anche per gli stati in cui i migranti si spostano. Il declino demografico americano, ad esempio, suggerisce che un numero maggiore di migranti avrebbe un ruolo anche nella produzione, ma sarebbe fondamentale fin d’ora investire e prepararsi a quell’afflusso di persone. Tutto, insomma, deve avere inizio «da una scelta»: i paesi del Nord del mondo possono scegliere di consentire ai rifugiati climatici di attraversare i loro confini, oppure possono chiudersi, «intrappolando centinaia di milioni di persone in luoghi sempre più invivibili».

In tutto il mondo, la tendenza sembra essere la seconda: «Gli Stati Uniti e l’Europa rischiano di murarsi e di murare gli altri». Lo scenario peggiore sarebbe quello in cui gli Stati Uniti e il resto del mondo sviluppato si rifiutano di accogliere i migranti senza riuscire ad aiutarli nelle loro terre. Le persone morirebbero a causa delle elevate temperature, di fame, o nei conflitti che nasceranno a causa dell’insicurezza alimentare e idrica.

Si potrebbe invece decidere per un impegno sistematico nel sostenere le persone vulnerabili nei luoghi in cui vivono, finanziando lo sviluppo locale, modernizzando l’agricoltura e le infrastrutture idriche. Il Programma alimentare mondiale (World Food Programme, WFP), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare, ha ad esempio contribuito a costruire serre irrigate a El Salvador, riducendo drasticamente le perdite dei raccolti e migliorando i redditi degli agricoltori.

Quindi la domanda di fondo è: cosa sono disposti a fare i vari governi al riguardo? Diversi studi sui migranti climatici concordano nel dire che se le società risponderanno in modo deciso contro i cambiamenti ambientali aumentando la loro “resilienza”, la produzione alimentare sarà sostenibile, la povertà ridotta e la migrazione internazionale rallentata, tutte cose che potrebbero contribuire alla stabilità e alla pace. Se i leader del mondo non intraprenderanno azioni efficaci contro i cambiamenti climatici, o intraprenderanno scelte punitive contro i migranti, l’insicurezza alimentare aumenterà, così come la povertà e probabilmente i conflitti.

Il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration, il documento approvato nel dicembre del 2018 dall’Assemblea dell’ONU con il voto contrario, tra gli altri, degli Stati Uniti, chiede esplicitamente che i governi facciano dei piani per prevenire le migrazioni climatiche e per aiutare le persone che saranno costrette a spostarsi per questi motivi. Anche gli Accordi sul clima di Parigi del 2015 hanno chiesto esplicitamente che un comitato speciale istituito alla Conferenza sul Clima di Varsavia del 2013 si occupi di preparare delle linee guida per definire giuridicamente i migranti ambientali. Qualunque azione sarà fatta e quando sarà fatta, «farà la differenza», conclude il New York Times.
«Ma la finestra temporale per agire si sta per chiudere».