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  • Mercoledì 29 giugno 2022

Trump sarà incriminato per l’attacco al Congresso?

Dalle testimonianze raccolte dalla commissione d'inchiesta della Camera sembra possibile, ma le cose non sono così semplici

Donald Trump (Mike Sorensen/Quincy Herald-Whig via AP)
Donald Trump (Mike Sorensen/Quincy Herald-Whig via AP)
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In questi giorni stanno proseguendo le audizioni pubbliche della commissione d’inchiesta della Camera statunitense sull’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021, quando centinaia di sostenitori del presidente Donald Trump occuparono il Campidoglio per interrompere la ratifica della vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali del novembre 2020. Durante le audizioni stanno emergendo sempre più dettagli sul ruolo centrale che ebbe proprio Trump prima e durante l’attacco, e sulle sue responsabilità. La domanda che si stanno facendo molti commentatori è soprattutto una: il governo federale incriminerà Trump per il suo coinvolgimento nell’attacco?

Non c’è accordo su una sola risposta, ma tutti ritengono che la questione sia delicatissima, per varie ragioni.

Trump era già andato molto vicino a essere incriminato nel 2019, quando l’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller fece emergere diversi contatti fra il comitato elettorale di Trump per le elezioni presidenziali del 2016 e il governo russo, che si prodigò esplicitamente per aiutare Trump a battere la candidata Democratica Hillary Clinton. Mueller concluse però che Trump non poteva essere incriminato per via di una storica opinione giuridica interna del Dipartimento della Giustizia, secondo cui un presidente in carica non può essere incriminato per ragioni di opportuno bilanciamento fra il potere giudiziario e quello esecutivo.

Ora che Trump non è più presidente in teoria potrebbe essere incriminato, anche secondo i rigidi standard del Dipartimento della Giustizia (che comunque per ora non ha commentato le ipotesi di una eventuale indagine). Ma secondo il parere di Jack Goldsmith, ex viceprocuratore generale dell’amministrazione di George W. Bush, i fattori che il Dipartimento dovrebbe considerare sono almeno tre. Li ha elencati di recente in un articolo sul New York Times.

Il primo è capire se una eventuale indagine possa essere affidata al Dipartimento stesso oppure a un procuratore speciale. L’attuale procuratore generale Merrick Garland è rispettato in maniera trasversale e noto per tenere molto all’indipendenza e all’integrità del Dipartimento: ma rimane pur sempre un alleato politico del presidente Joe Biden, che avrebbe tutto l’interesse a screditare Trump in vista delle elezioni presidenziali del 2024. Nel caso decidesse di nominare un procuratore speciale, Garland dovrebbe trovare la persona adatta per un compito complesso e delicato.

In secondo luogo il Dipartimento dovrebbe capire se dispone di prove sufficienti per arrivare a una condanna: un requisito che negli Stati Uniti viene richiesto per prassi per ogni processo penale. È proprio su questo punto che la maggior parte degli esperti ha opinioni divergenti.

Nel corso delle audizioni della commissione d’inchiesta alla Camera sono emerse informazioni che secondo i Democratici fanno pensare che Trump sapesse benissimo cosa stava succedendo il 6 gennaio 2021, e che facesse parte di un piano per ribaltare il risultato delle elezioni presidenziali che aveva perso.

Secondo varie testimonianze e interviste, durante l’attacco Trump avrebbe evitato di inviare rinforzi al Congresso per contenere gli assalitori. Avrebbe inoltre spiegato ad alcuni collaboratori che il suo vicepresidente Mike Pence si era «meritato» i cori che inneggiavano alla sua morte, e che si erano sentiti fuori dal Campidoglio.

Proprio per il 6 gennaio al Congresso era prevista una cerimonia formale di certificazione del risultato delle elezioni presidenziali, presieduta da Pence, a cui Trump aveva più volte chiesto di non partecipare. Dalle udienze è emerso inoltre che, nei giorni precedenti all’attacco, Trump aveva chiesto ad alcuni funzionari del Dipartimento della Giustizia di «dire che le elezioni sono state falsate», e «lasciare il resto a me e ai deputati Repubblicani». Nelle settimane successive alle elezioni, Trump aveva promosso varie e infondate teorie del complotto secondo cui Biden aveva vinto grazie ai brogli elettorali architettati dai Democratici.

«È sempre più chiaro che l’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021 non è stato un incidente», hanno scritto di recente gli editorialisti del Boston Globe, ma il passaggio finale di un tentativo di rovesciare il risultato elettorale, legittimato dallo stesso Trump.

Martedì 28 giugno si è tenuta poi la testimonianza che l’Atlantic ha giudicato «la più schiacciante, finora»: è stata quella di Cassidy Hutchinson, 26enne assistente del capo di gabinetto di Trump, Mark Meadows. Hutchinson ha raccontato che il 6 gennaio, poco dopo aver tenuto un comizio a Washington, Trump chiese al suo autista di portarlo al Congresso, verosimilmente per partecipare all’attacco. Quando il suo autista si rifiutò, Trump lo prese per il collo cercando di impossessarsi del volante dell’auto presidenziale.

In un altro passaggio della sua testimonianza, Hutchinson ha detto che Trump chiese di rimuovere i metal detector all’ingresso dello spazio che ospitava il suo comizio: sapeva bene, insomma, che molti dei suoi sostenitori erano arrivati a Washington armati.

I reati che secondo diversi esperti possono essere imputati a Trump sono ostruzione di una procedura ufficiale – per i suoi tentativi di impedire la certificazione del risultato elettorale, culminati nell’attacco al Congresso – e tentata frode nei confronti degli Stati Uniti, per i suoi sforzi nell’annullare la vittoria di Biden e rimanere al potere.

Sulla carta sono accuse sorrette da decine di informazioni e testimonianze, alcune delle quali emerse proprio in questi giorni grazie alla commissione d’inchiesta della Camera. In pratica però si parla di accuse molto difficili da sostenere in tribunale.

Il New York Times spiega che «nelle indagini che si concentrano su eventi fisici come rapine, aggressioni e omicidi, i magistrati non devono preoccuparsi di dimostrare le intenzioni del responsabile, dato che il legame fra le sue azioni e il danno che hanno provocato è spesso molto chiaro». Nel caso di una rapina, per esempio, è chiaro che se una persona sfila il portafogli a un’altra la sua intenzione è quella di rubarlo. «Ma il problema di determinare l’intenzionalità può essere scivoloso quando l’indagine riguarda una persona il cui stato mentale può essere difficile da determinare».

In altre parole: se Trump fosse stato realmente convinto che c’erano stati brogli elettorali e che le elezioni presidenziali andavano annullate, allora stava agendo in buona fede. Cioè una condizione che secondo la legge statunitense scagiona una persona dai reati di ostruzione di una procedura ufficiale e tentata frode.

«Sarebbe fondamentale avere le prove che Trump abbia detto a qualcuno che sapeva di avere perso, ma che stava tentando comunque a rimanere al potere», ha detto al New York Times Daniel L. Zelenko, un avvocato che si occupa spesso di casi di frodi ad alti livelli. «Con Trump il problema è che bisogna provare a entrare nella sua testa: ma mente e promuove cose false così spesso che è difficile capire cosa pensi».

Su questo punto, fra l’altro, la convinzione di Trump potrebbe essere cambiata nel tempo. In un primo momento ha forse realizzato di avere perso; ma poi potrebbe essersi genuinamente convinto che c’erano stati dei brogli elettorali. È la tesi che ha raccontato per esempio la sua ex responsabile delle comunicazioni esterne, Alyssa Farah Griffin, in un’intervista a CNN. «Poco dopo le elezioni mi disse che sapeva di avere perso», ha detto Griffin. Poi però «alcune persone sono entrate nella sua testa», e «credo davvero che la sua percezione sia stata modificata». Griffin si riferisce soprattutto ad alcuni collaboratori particolarmente complottisti con cui Trump si confrontò a lungo nei giorni precedenti al 6 gennaio, fra cui l’avvocata Sidney Powell e il suo ex consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn.

Un altro elemento di complessità riguarda i poteri del presidente, che nella giurisprudenza americana hanno tradizionalmente dei confini molto poco definiti. In un eventuale processo gli avvocati di Trump potrebbero argomentare che fare pressioni su Pence affinché si rifiutasse di certificare la vittoria di Biden rientrava nei suoi poteri, così come la decisione di non fare intervenire la Guardia Nazionale, un corpo federale di forze dell’ordine di cui il presidente può disporre a piacimento dato il suo incarico di capo delle forze armate.

Infine, secondo Goldsmith, Garland dovrebbe valutare se un’indagine e un successivo processo contro Trump servirebbero l’interesse del paese, già molto polarizzato e diviso sia sull’attacco al Congresso sia sulla figura di Trump. Alcuni, come l’ex procuratore federale e commentatore politico Andrew C. McCarthy, ritengono che un eventuale processo «strapperebbe il nostro paese già lacerato e danneggerebbe in maniera irreparabile la reputazione del Dipartimento della Giustizia», che dall’elettorato conservatore verrebbe accusato di essere eccessivamente di parte.

Altri, come il professore di diritto costituzionale Laurence H. Tribe, che insegna ad Harvard, pensano invece che un tentativo come quello di Trump debba essere sanzionato dalla giustizia federale, affinché non si ripeta più. «Attribuire la responsabilità a Trump e interdirlo dai pubblici uffici non sarebbe una misura faziosa, ma anzi necessaria per preservare lo stato di diritto», ha scritto sul Los Angeles Times.

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