Le campane intelligenti

A Sassari c'è un'azienda che produce sistemi per automatizzare luoghi e oggetti: aveva iniziato con le automobili, tra poco lo farà anche con le chiese

di Riccardo Congiu e Claudio Caprara

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Abinsula è un’azienda di Sassari che produce e distribuisce sistemi elettrici con cui vengono automatizzate alcune funzioni di vari prodotti e oggetti: prima di tutto certe parti delle automobili, ma anche trattori, frigoriferi, impianti di illuminazione, persino campane.

È nata nel 2012 con l’obiettivo di creare software per le automobili, in particolare le centraline che ne gestiscono la parte elettronica: quelle che fanno in modo che schiacciando un tasto si accendano i fari, o che pigiando il freno si attivino le luci posteriori. A dieci anni dalla sua nascita l’azienda si è evoluta ed è riuscita ad applicare le competenze acquisite sulle automobili a molti altri settori.

Oggi è un punto di riferimento per i sistemi embedded: cioè sistemi elettronici di elaborazione che vengono integrati in un oggetto per controllarne e gestirne a distanza le funzionalità. In un’auto possono servire a collegare il telefono alla radio, in una casa ad abbassare le tapparelle da un’app sullo smartphone, anche quando si è fuori. Sono in sostanza dispositivi elettronici che elaborano e comunicano dati e informazioni.

Piazza d’Italia, Sassari (Claudio Caprara/Il Post)

La Sardegna è l’unica regione italiana in cui non ci sono autostrade, perciò per arrivare ad Abinsula abbiamo percorso la Strada Statale 131, detta anche Carlo Felice, che è il principale collegamento dell’isola e congiunge le due città più grandi, Cagliari e Sassari.

In Sardegna è come se tutte le strade fossero strade blu.

La cameretta

La storia di Abinsula comincia nella cameretta di Andrea Sanna, uno dei cinque fondatori, nella casa dei suoi genitori a Sassari. Fu la prima sede legale dell’azienda. Sotto il letto trovavano posto i primi server di Abinsula.

Sanna è tuttora l’amministratore dell’azienda, che fondò quando aveva 25 anni insieme ad altri quattro amici sardi a Torino. «Eravamo cinque amici al bar», racconta. Tutti studenti fuori sede tranne uno. Stava studiando ingegneria al Politecnico di Torino, quando a 21 anni cominciò anche a lavorare nello sviluppo di tecnologia elettronica applicata alle automobili. In questo settore, spiega Sanna, un’automobile va intesa come «un insieme di tanti dispositivi che dialogano tra loro per fornire funzionalità che noi oggi diamo per scontate, dal controllo dei fari al sistema telematico».

Fin dai primi mesi i fondatori cominciarono a viaggiare, soprattutto nel nord Italia, tornando spesso a Torino dove avevano più relazioni e potenziali clienti. All’inizio il prodotto che avevano a disposizione erano solo le loro competenze, perciò per alcuni mesi vendettero consulenze.

«La sede era marginale in quel periodo, ci serviva un recapito», spiega Sanna. Per questo anche una cameretta andava bene. La decisione di avere Sassari come sede principale della società però non fu casuale. «Abinsula è un’azienda dal forte orgoglio sardo. Sarebbe potuta nascere ovunque e forse in alcune aree sarebbe stato anche più semplice», dice Sanna, sottolineando che spostarsi dalla Sardegna significa nel migliore dei casi dover fare sempre almeno un’ora di aereo.

«Il ritorno in Sardegna non ha ostacolato l’azienda ma non l’ha neanche favorita, è stata una scelta personale». Ainsula in latino significa “dall’isola”: nel nome si dichiarava già l’intenzione di rimanere a Sassari, e da lì partire per costruire relazioni commerciali in Italia e all’estero.

Conquistati i primi clienti, verso la fine del 2012, Abinsula ottenne un finanziamento da Sardegna Ricerche, l’ente regionale che promuove l’innovazione e lo sviluppo tecnologico, a cui i fondatori affiancarono i propri fondi privati. Così fu possibile aggregare al progetto altre quattro persone e aprire un ufficio vero e proprio. «Ci siamo messi a testa bassa a lavorare e abbiamo sempre reinvestito quello che abbiamo guadagnato nel mese precedente: così abbiamo creato l’azienda», racconta Sanna.

Nei primi anni la società si basò soprattutto sui propri fondi, e questo – secondo Sanna – ha permesso la crescita di una struttura solida. «Negli anni siamo stati avvicinati da diversi soggetti interessati all’acquisto e abbiamo sempre rifiutato, perché riteniamo di avere ancora le forze per poter crescere da soli».

Dalla Sardegna al mondo

La sede di Sassari non è nella zona industriale, come ci si aspetterebbe da un’azienda che opera nel settore di Abinsula. «Il primo ufficio lo abbiamo affittato nel centro di Sassari e poi siamo sempre voluti restare qui», dice Andrea Sanna, «un po’ perché la dimensione della città lo consente, e poi perché quando si esce dal lavoro è più bello vivere la città». Il fatto che sia in centro è uno dei motivi per cui è molto conosciuta a Sassari, dov’è anche molto presente nel sostenere iniziative culturali e sportive della città.

Oggi ha uffici in quattro città: Sassari, Cagliari, Torino e Barcellona, ma lavora con clienti in tutto il mondo. Dei cinque fondatori quattro erano sardi, l’80 per cento: più o meno la stessa proporzione che c’è ancora tra sardi e non sardi all’interno dell’azienda, che oggi ha 160 dipendenti.

«I cognomi con la S e con la U fanno parte del curriculum aziendale», scherza Antonio Solinas, il direttore ricerca e sviluppo, che è stato tra i primi in Abinsula.

«Rispetto ad altre aree d’Italia dove il mercato del lavoro è più vivace e ci sono alternative – spiega Solinas – noi possiamo formare qui i nostri dipendenti e aspettarci ragionevolmente che restino da noi: per questo ci sono più persone nate in Sardegna». La presenza di un’azienda così importante ha anche ridotto il rischio che molte persone di valore lasciassero l’isola.

«C’è gente che è con noi dal 2012, e comunque molti sono qui da diversi anni». Solinas spiega che in questi anni si sono saldati i rapporti con le università e i centri di ricerca regionali. «Sono la nostra prima fabbrica di talenti».

Allo stesso tempo, però, dalla Sardegna si viaggia spesso: «Prima della pandemia ogni dirigente dell’azienda faceva 60-70 voli all’anno, e anche durante l’emergenza non ci siamo mai fermati del tutto. Se non fosse stato per la pandemia, sarebbe stato praticamente impossibile trovarci una volta tutti in sede».

Le palle di vetro che i dipendenti di Abinsula portano al ritorno dai numerosi viaggi (Claudio Caprara/Il Post)

Le automobili connesse

Per alcuni anni Abinsula si è occupata quasi esclusivamente di produrre e vendere i software per le automobili alle grandi aziende chiamate “Tier One” (“primo livello”), quelle che forniscono i componenti elettronici delle auto alle case automobilistiche.

Il decennio di attività dell’azienda sassarese è coinciso con un periodo di trasformazione digitale per il settore, che oggi deve essere in grado di produrre “automobili connesse”. La loro parte elettronica non deve più comunicare solo con i fari per illuminare la strada, ma anche con gli smartphone, con i sensori di parcheggio e potenzialmente con moltissimi altri dispositivi: per esempio il frigorifero di casa, in modo da poter controllare dall’auto cosa manca e sapere cosa comprare al supermercato. Così le centraline sono diventate sempre più avanzate e tecnologicamente sofisticate. Abinsula ha saputo inserirsi in questo mercato e i suoi software sono nelle automobili dei marchi più importanti del mondo.

Oggi però quello delle automobili è solo uno dei suoi settori di attività: «Dall’esperienza sul mercato automobilistico ci siamo allargati anche su altre aree dove abbiamo capito che si potevano trasferire le nostre tecnologie e le nostre competenze», spiega Solinas. «L’automobile è diventata una scuola per poter portare quei software in un trattore, in un dispositivo medico, in un elettrodomestico, persino in una campana».

Dispositivi per le cose

Abinsula è diventata un’impresa di produzione di dispositivi embedded ad ampio raggio e di altri sistemi che si applicano al cosiddetto IoT, l’Internet of Things (in italiano “Internet delle Cose”), cioè l’estensione di internet a oggetti e luoghi concreti.

Marco Stocchino di Abinsula (Claudio Caprara/Il Post)

Ne sono un esempio i recenti utilizzi nell’ambito della domotica (cioè lo studio delle tecnologie applicate agli strumenti e agli ambienti della casa), della medicina, delle automobili. Quando chiediamo a uno di quei dispositivi chiamati “assistenti per la casa” di spegnere le luci della camera da letto, o al telefono di cambiare canzone in auto mentre guidiamo, siamo nell’ambito dell’IoT.

«Abinsula – spiega Solinas – sta sperimentando nuove aree di produzione». Ha aperto un incubatore di imprese e accompagna la nascita e lo sviluppo di aziende spin-off, cioè imprese che nascono da un’altra più grande (Abinsula in questo caso) e che fanno crescere dei prodotti nuovi.

L’incubatore invece è un centro che supporta le startup nel processo di trasformazione da idea ad azienda. Mette a disposizione 50 postazioni di coworking e i suoi servizi tecnologici, oltre alla possibilità per le imprese di accedere alla rete di clienti e relazioni di Abinsula, che oggi è molto vasta. Poi alcune di queste possono diventare funzionali anche alle sue attività, e talvolta nascono delle collaborazioni.

Così l’azienda è diventata «un insieme di aziende, un arcipelago connesso da ponti», come lo chiama Solinas, in grado di occuparsi a seconda delle necessità di «cybersecurity, agricoltura, soluzioni digitali. Ma ci sono anche cose più particolari tipo una startup che tratta dati per il calcio, o attività legate all’editoria».

«Oggi non possiamo più pensare a un’auto o a un trattore come entità uniche: sono oggetti che stanno all’interno di un ecosistema digitale», dice Solinas. Ci sono siti web che controllano le diagnosi dei trattori e applicazioni che controllano se un particolare macchinario in un ospedale sta funzionando correttamente.

I campanili smart 

Ma come si arriva a pensare a un ecosistema digitale per un campanile?

«Ho dovuto studiare molti dettagli del funzionamento delle campane: il martello, l’oscillazione, ho imparato anche tutto il dialetto di settore», racconta Marco Stocchino, ingegnere che lavora a un progetto di applicazione dei principi dell’Internet of Things nel settore delle chiese, dei campanili e delle campane.

«Un cliente che produce campane da cinquant’anni ci ha chiesto di sviluppare insieme un sistema per automatizzare i campanili».

Si tratta di Ecat, un’azienda che fabbrica campane e le vende alle chiese in ogni parte del mondo. Con il tempo il suo mercato si è allargato anche ad altri luoghi di culto, che hanno comuni esigenze di amplificazione del suono, ma anche realizzazioni in tempi e modi diversi.

Il controller da cui impostare il suono delle campane (Valentina Lovato/Il Post)

Il prodotto che è stato sviluppato consente di automatizzare il suono delle campane e sincronizzarlo con l’orologio, permettendo al responsabile – il prete, tipicamente – di controllarne il funzionamento da remoto.

L’uso delle campane per il richiamo dei fedeli è attestato dal sesto secolo dopo Cristo, e ancora oggi in molte chiese le campane vengono suonate a mano da una o più persone, i campanari.

«Ho scoperto che è un settore molto conservativo, ma anche molto tecnologico: in alcuni casi viene studiata la frequenza di risonanza della campana e si applicano metodi all’avanguardia», dice Stocchino. L’elettronica infatti viene applicata alle campane già da alcuni anni: quello che ha fatto Abinsula applicando i concetti dell’automazione industriale però è del tutto innovativo.

Abinsula ed Ecat hanno poi deciso di estendere questo progetto a tutti gli ambienti della chiesa. Stocchino ci ha spiegato come potrà essere la “chiesa intelligente” a cui stanno lavorando: «Vogliamo remotizzare tutta la parte di controllo e dare la possibilità al prete di averla in tasca. Con un’app sul proprio smartphone potrà creare nuove melodie per il ritmo dei colpi dei batacchi, gestire il funzionamento del campanile e dei quadranti dell’orologio, le luci, l’impianto di condizionamento della chiesa, le candele. Stiamo lavorando per realizzare sensori che permettano all’orologio del campanile di riconoscere che ora stanno segnando le lancette, in modo che si regoli da solo. Può sembrare inutile, ma farà risparmiare un sacco di tempo: per dire, se c’è un blackout non ci sarà bisogno che qualcuno salga sul campanile a reimpostare manualmente l’ora esatta, e l’orologio si riprogrammerà da solo».

L’oggetto più tecnologico

I servizi per le automobili restano comunque il prodotto più importante dell’azienda. Le competenze necessarie a questa specializzazione rendono poi più semplice cimentarsi in altri campi.

«L’auto è diventata un accentratore di tecnologia», dice Stocchino, «è l’oggetto più tecnologico che mediamente tutti si comprano, e quello che costa di più tra quelli intelligenti». Lavorare sulle auto costringe l’azienda a essere allineata alle tecnologie di ultima generazione, con la difficoltà di doverle inserire in un luogo in cui bisogna mantenere notevoli standard di sicurezza per le persone.

«Avendo molte competenze sulle auto, quando ci occupiamo di altri settori ci troviamo avvantaggiati, perché lì abbiamo raggiunto un livello di complessità tecnologica molto alto», dice Stocchino.

Cosa fanno le centraline

Per Abinsula il settore dell’auto è sempre in crescita, e c’è ancora bisogno di persone in grado di lavorare allo sviluppo delle funzionalità delle centraline, sia nell’infotainment (cioè i sistemi audio, video o internet) sia nel settore della sicurezza del veicolo.

Le grandi aziende del settore investono molto in ricerca e sviluppo per aggiungere alle automobili funzionalità che possano distinguerle dalla concorrenza. L’obiettivo di chi produce le centraline di Abinsula però, più che aggiungere funzioni, è prima di tutto far fare loro le stesse cose in meno tempo e spendendo meno: «Bisogna cercare di eseguire le funzionalità cruciali usando sempre meno energia e risorse finanziarie nella produzione», spiega Maria Azzena, ingegnera elettronica che lavora nella divisione per i sistemi embedded, specializzata nelle funzioni “safety relevant”, cioè di sicurezza.

«Noi non possiamo mai pensare di fare il nostro lavoro supponendo di avere risorse infinite». Anche nell’ingegneria si è passati da una logica di produzione a una di sostenibilità: «È un punto sempre più pressante», dice Azzena. Gli scopi di queste operazioni non sono necessariamente nobili o ambientalisti: essere più sostenibili significa anche spendere di meno e aumentare i profitti.

L’area di cui si occupa Azzena è quella di diagnostica e sicurezza del veicolo. Semplificando molto, deve rendere l’automobile in grado di riconoscere e comunicare i suoi guasti: da una parte evitare che creino problemi peggiori, dall’altra registrarli per il futuro, come una specie di scatola nera.

Restare in Sardegna

Azzena è una delle donne dell’azienda: «Su dieci dipendenti 8 sono uomini. D’altra parte le proporzioni sono le stesse anche alla facoltà di ingegneria». Racconta di incontrare sempre un po’ di stupore, quando spiega di essere un’ingegnera.

Dice di essersi abituata, ormai, a lavorare in ambienti prevalentemente maschili e di non vivere particolari discriminazioni: «Certo, quando si progetta il numero dei bagni si percepisce che c’è un target maschile, ma mi sembra che la situazione da questo punto di vista stia migliorando, anche perché ci sono tante ragazze nuove rispetto a 2 o 3 anni fa».

Azzena, che è di Sassari, si era iscritta a ingegneria elettronica a Cagliari perché si era appassionata alla fisica, ma senza sentirsi particolarmente «propensa a fare una vita troppo legata alla ricerca, che pure mi piaceva». Ingegneria era il giusto compromesso. Le ambizioni erano sempre molto alte, per chi come lei studiava in quegli anni tra la fine dei Duemila e l’inizio degli anni Dieci: «C’era un po’ il mito della California, non tanto della Silicon Valley, quanto di altri posti in cui si faceva ricerca un po’ spinta sui dispositivi elettronici. Poi col tempo sono diventata più pragmatica: le occasioni capitano dove capitano».

Per molti fare ingegneria significava accettare di doversene andare dalla Sardegna, tant’è che Azzena aveva frequentato la magistrale a Torino ed era rimasta lì qualche anno, prima di tornare a Sassari per Abinsula.

Nonostante la dimensione acquisita oggi dall’azienda, per una persona che lavora nella stessa città in cui è nata non è facile paragonarsi a chi opera nello stesso ambito, ma a livello internazionale: «Un po’ di complesso di inferiorità ce l’abbiamo sempre – dice Azzena – a volte mi capita di guardare con un pizzico di invidia o nostalgia alle persone che hanno fatto esperienze diverse fuori, quindi forse non sono ancora arrivata a un giusto livello di maturazione».

Abinsula però è un’azienda ancora giovane, con quattro sedi in Europa e che ha avuto una crescita molto rapida: «Per me è un grande motivo di orgoglio lavorare in un’azienda su cui fino a dieci anni fa nessuno avrebbe scommesso che sarebbe arrivata dove è oggi».

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