Il pane dei centenari

A Orroli, in Sardegna, la filiera del pane di Kentos accompagna il grano dal seme all'uscita dal forno

di Valentina Lovato e Claudio Caprara

Arriviamo a Orroli da sud, attraversando qualche piccolo paese che anche in pieno giorno sembra disabitato, per poi percorrere circa 15 km senza più incontrare nessuno: eccezion fatta per un furgone guidato da due ragazzi, che segue lento un gregge di pecore.

È un avvicinamento graduale quello che compiamo verso questo piccolo comune dell’entroterra, situato nella regione storica del Sarcidano; qui si trova uno dei complessi nuragici più grandi della Sardegna, il Nuraghe Arrubiu, costruito attorno al 1500 a.C.

Il nuraghe Arrubiu, cioè “rosso”, che deve il nome ai licheni rossi che lo ricoprono (Valentina Lovato/Il Post)

Dopo aver raggiunto il suo picco demografico negli anni ‘60, gli abitanti di Orroli hanno iniziato a diminuire in modo lento ma costante, fin quasi a dimezzarsi: oggi sono poco più di 2000.

Siamo qui per conoscere Viviana Sirigu, imprenditrice senza volerlo. Nel 2007 ha fondato il suo laboratorio di panificazione: Kentos, il pane dei centenari.

Il riferimento ai centenari è duplice: da un lato la prossimità con la Sardegna centro orientale, una delle zone del mondo in cui si riscontra un tasso di longevità e una presenza di persone che superano i cento anni molto più alti rispetto alla media; e dall’altro è un omaggio alla tradizione antica: kentos è una contrazione di chent’annos, che nel dialetto locale significa cento anni.

«Ho iniziato ad andare nei punti vendita per educare il cliente al consumo di questo pane: gli anziani lo riconoscevano ed erano emozionati, mentre per i giovani era una cosa nuova. Ma è stato semplice farglielo scoprire, e anzi il riscontro che abbiamo avuto mi ha sorpresa: sono arrivate anche le scuole, di ogni grado, e le università».

Viviana Sirigu è emozionata mentre ripercorre la storia dell’azienda, che è anche la sua storia. Nata in una famiglia in cui «si produceva tutto ciò che serviva per il consumo familiare», racconta di aver trovato nello studio un modo per emanciparsi dalla vita contadina, per arrivare ad avere un posto sicuro da dipendente della Regione Sardegna.

Nonostante la gratificazione di un impiego sempre più soddisfacente presso l’assessorato regionale al Lavoro, dopo qualche anno ha cominciato a provare una nostalgia sempre più forte per la sua vita semplice di prima, il ritmo dei cicli della natura da cui era fuggita, tanto da spingerla a «tornare all’unica cosa che sapevo fare: il pane», così come le era stato insegnato dalle donne della sua famiglia.

Il pane delle donne

Simona Prasciolu, la figlia, ci spiega che la panificazione è sempre stata un sapere femminile: nel centro della Sardegna le donne, oltre a dedicarsi al lavoro nei campi e alla cura della casa e della famiglia, si sono tramandate sia l’arte di fare il pane sia, ingrediente prezioso e fondamentale, l’eredità materiale del lievito madre: su frammentu.

Il lievito madre è un composto di acqua e farina utilizzato da millenni, già in Mesopotamia e nell’Antico Egitto, in cui è presente una microflora batterica composta da microrganismi “vivi”: mangiano (acqua e farina, ma volendo accelerare la fermentazione anche zuccheri), crescono, si riproducono e, eventualmente, muoiono.

Quello che usano a Kentos dicono abbia più di 300 anni, anche se la genealogia si perde alla trisavola di Viviana. Per non rischiare di perderlo, zie e vicine di casa ne conservano delle porzioni.

Un progetto etico

A Kentos i panificatori iniziano a impastare al mattino. La lavorazione richiede tra le 10 e le 15 ore di lievitazione: 20 nel caso del pane pistoccu, una pane spesso e croccante che si mantiene per lunghi periodi, e che tradizionalmente era quello che i pastori portavano con sé nelle settimane che passavano al pascolo.

Anche gli altri formati durano parecchi giorni: questo, spiega Viviana, ha ricadute positive sia per chi compra, perché «nessuno butta il nostro pane: rimane buono per più di due giorni, anzi migliora», sia sul lavoro dei panificatori, «perché noi lavoriamo 5 giorni su 7, non lavoriamo nei giorni festivi, né il sabato sera né la domenica». È un approccio che torna spesso nelle parole di Sirigu: l’importanza di mantenere un tempo separato, da dedicare a sé e alla propria famiglia.

Kentos è progetto etico, non solo imprenditoriale.

Per fare il pane, nel tempo, si è costituita una filiera di soggetti che oggi è composta da una trentina di agricoltori, due mugnai e i lavoratori del laboratorio.

Inizialmente, spiega Viviana, non c’erano molti cerealicoltori che producevano grano biologico Senatore Cappelli, l’unico che viene usato per il pane di Kentos. La soluzione più semplice è stata formalizzare un patto di fiducia e mutuo sostegno tra produttori e trasformatori: in questo modo chi coltiva sa già a chi venderà, e a che prezzo, ciò che deve ancora seminare. Questo permette di evitare le fluttuazioni del mercato e assicurarsi di avere sempre un compratore.

Graziano Piras e Simone Murtas, due cerealicoltori di Escolca, ammettono di essere stati scettici all’inizio: dopo aver coltivato per anni in modo convenzionale, cioè non con metodo biologico, seminare un grano come il Cappelli, da tempo sostituito con varietà più produttive, sembrava un passo indietro. Ma la nicchia di quel mercato si è allargata sempre di più, e oggi è richiesto più degli altri.

Campi coltivati a grano Cappelli nel comune di Escolca (Valentina Lovato/Il Post)

Il grano Cappelli è impropriamente definito grano antico, nonostante sia stato “creato” per ibridazione all’inizio del ‘900 dal genetista e agronomo Nazareno Strampelli (ne parliamo anche nella newsletter di questa settimana), a partire da una varietà diffusa nel Nord Africa, la Jenah Rhetifah. Strampelli incrociò diverse varietà di grano per cercare di ottenere le caratteristiche desiderate; e lo fece in Puglia, nei poderi dell’allora parlamentare del Regno Raffaele Cappelli, a sua volta appassionato agronomo e presidente della Società degli agricoltori italiani e dell’Istituto internazionale di agricoltura.

Da quando si è cominciato a coltivare, il grano Cappelli ha vissuto periodi di fortune alterne: diffuso inizialmente in tutta Italia grazie alla sua resistenza, è stato progressivamente sostituito negli anni ‘60 da altre varietà più produttive. È tornato sul mercato negli ultimi decenni grazie ad alcuni pastifici che ne hanno mantenuto o recuperato il seme.

È un frumento adatto alla coltivazione biologica: cresce molto in altezza, fino a 1.80 metri, soffocando le piante infestanti. Secondo uno studio del Policlinico Gemelli di Roma è un grano adatto a chi non è celiaco ma soffre di intolleranza al glutine, è più digeribile e non provoca problemi gastrointestinali.

La scelta di Kentos di utilizzare il grano Cappelli è coerente con la ricerca di Viviana Sirigu di mantenere viva la tradizione: tra i suoi obiettivi ci sono il recupero e la trasmissione dei saperi antichi, anche attraverso la formazione.

Ha le idee molto chiare su questo: lo spopolamento dei paesi dell’entroterra sardo è una tendenza che non sembra arrestarsi. Chi va via per studiare non torna, chi può cerca lavoro altrove. La formazione professionale secondo lei serve a «trattenere le persone nella nostra terra, che non è fatta solo di lavoro estivo e costiero».

Viene facile pensare a ciò che scrisse Guido Piovene nel Viaggio in Italia, a proposito della Sardegna: «è forse questa l’unica regione del nostro paese in cui si assiste ad un passaggio tra due termini entrambi sani; il primitivo autentico e la modernità convinta».

Dalla spiga alla farina

Della filiera di Kentos fanno parte anche alcuni mulini, tra cui La pietra e il grano di Angelo Anedda di Nurri: il comune famoso per i picca molas, gli scalpellini, che producevano sa molas, le macine tradizionali.

Angelo Anedda, proprietario del mulino La pietra e il grano di Nurri (Valentina Lovato/Il Post)

Il mulino è stato costruito nel 1931 dal nonno di Anedda, che unico tra i suoi nove fratelli ha continuato il lavoro di famiglia ed è oggi aiutato da suo figlio Daniele.

«Le macine in pietra ci permettono di conservare integre tutte le caratteristiche qualitative del grano, in particolare il germe che è la parte fondamentale del chicco, quella che poi rigenera la pianta, che è ricca di vitamine, proteine e sali minerali», spiega Anedda, «le macine, che si chiamano palmenti, sono fatte con una pietra che veniva estratta nei Pirenei francesi, e sono considerate tuttora le migliori al mondo per la macinazione del grano duro: il fatto che siano in attività da 91 anni ne è la dimostrazione».

La macinatura avviene con lo sfregamento di macina su macina, tra quella che rimane ferma sotto, la dormiente, e la girante.

Nel mulino si producono circa 250 chili di farina integrale all’ora.

Il grano che viene lavorato al mulino di Nurri arriva dal Sarcidano, dalla Trexenta e dalla Marmilla, le tre regioni al centro della Sardegna. È tutto grano locale, il più lontano viene coltivato a Guasila, che dista 40 chilometri. La maggior parte arriva al mulino durante il periodo della raccolta, ma ci sono anche dei produttori che lo conservano e lo portano man mano che serve.

La coltivazione

«Noi come materia prima non dipendiamo dall’esterno: da quando abbiamo fatto la nostra filiera di produzione, a meno che non ci sia qualche annata veramente brutta, siamo sempre stati proprio autosufficienti», spiega Sirigu, «e anzi, ci sono sempre più coltivatori che vorrebbero entrare nella nostra filiera. Sia io che il mugnaio siamo cauti: bisogna crescere nella giusta misura, non farsi prendere da idee di grandezza, che possono essere attraenti ma se non si arriva ad essere grandi si rischia di ritrovarsi piccoli».

In un momento in cui la dipendenza dal grano dall’estero sta mettendo in crisi gli approvvigionamenti di diversi paesi, la sicurezza di non dover ricorrere alle importazioni è un punto di forza per l’intera filiera di Kentos.

La filiera comprende circa 200 ettari di proprietà di una trentina di agricoltori. Sono campi coltivati a rotazione, dove oltre al grano vengono piantate foraggere in alternanza: sulla, trifoglio rosa o trifoglio alessandrino.

I cerealicoltori con cui abbiamo parlato ci hanno spiegato che il vantaggio di far parte della filiera è notevole: oltre a poter accedere a contributi regionali, sapere cosa e quanto piantare, e a chi vendere prima di farlo, è fondamentale per la sopravvivenza delle aziende. Tuttavia ci sono anche degli aspetti negativi, perché in altre regioni alcuni agricoltori lamentano la poca aderenza tra il prezzo fissato dai consorzi e quello di mercato, e non lascia margine di decisione nel momento della vendita.

Il prossimo passo di Kentos sarà aprire un punto vendita a Cagliari: per crescere, portando la tradizione anche nel capoluogo. «Abbiamo progettato una nicchia nel negozio, dove metteremo il lievito madre: in modo che chi entra lo possa vedere», dice Simona Prasciolu, che si occuperà di gestire il negozio. E Orroli? «L’azienda continuerà il suo progetto, facendo crescere indotto economico e lavorativo per il paese e che torni ad essere attraente per i giovani. La nostra è una terra bellissima e spero torni ad essere abitata come lo era vent’anni fa».

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