• di Vincenzo Latronico
  • Storie/Idee
  • Lunedì 21 febbraio 2022

In fila a Berlino, per una casa

«Le coppie che vogliono trasferirsi insieme cercano famiglie separate in casa con cui scambiare appartamenti, perché è infinitamente più facile che trovare, rispettivamente, un tri-quadrilocale o due bilocali passabili. Sui siti di annunci si legge di persone che offrono migliaia, decine di migliaia di euro a chi possa trovare loro un buon affitto»

Una manifestazione per chiedere maggiore accesso alle case a Berlino nel 2019 (Steffi Loos/Getty Images)
Una manifestazione per chiedere maggiore accesso alle case a Berlino nel 2019 (Steffi Loos/Getty Images)

La mia prima casa a Berlino costava 1000 euro al mese ed era un cinque locali di epoca liberty nel quartiere di Mitte, il centro della vecchia città dell’Est. L’avevo trovato mandando una mail. Quando io e Andrea ci abbiamo messo piede per la prima volta abbiamo contato le finestre con uno stupore crescente: erano 14. Era il 2009.

La mia seconda casa a Berlino costava 1000 euro al mese ed era un trilocale in un palazzo antico ma cadente incuneato fra un cimitero e il vecchio aeroporto di Tempelhof, direzione periferia. Io e Nicoletta lo avevamo trovato dopo un mesetto di mail e ricerche. Era il 2012.

La mia terza casa a Berlino, in cui vivo ora, costa 1000 euro al mese ed è un bilocale da cui sento il traffico sulla tangenziale, a nove chilometri e mezzo dalla prima lungo la direzione centro-periferia. È la prima che ho visto quando mi sono rimesso a cercare, l’estate scorsa. Leggendo il mio profilo su ImmoScout, sito di annunci immobiliari, scopro che per ottenere quella visita avevo mandato 184 dossier con dichiarazioni dei redditi, assenza di debiti e documenti, per altrettante case che neanche sono arrivato a visitare. Ma naturalmente ci sono altri portali che ho usato, quindi in totale sono molte di più.

Questo non sorprende chiunque viva qui oggi: in media alle open house – le visite concentrate alle case sul mercato – per un appartamento in affitto si presentano 174 persone. Le code si sviluppano per vari piani e vari isolati oltre il portone. Le coppie che vogliono trasferirsi insieme cercano famiglie separate in casa con cui scambiare appartamenti, perché è infinitamente più facile che trovare, rispettivamente, un tri-quadrilocale o due bilocali passabili. Sui siti di annunci si legge di persone che offrono migliaia, decine di migliaia di euro a chi possa trovare loro un buon affitto.

Per chi conosce la città com’era anche solo un decennio fa questa situazione è inconcepibile: allora si trovavano monolocali a 200 euro al mese e si comprava a meno di 1000 euro al m2; Berlino si era fatta la fama di città “povera e sexy”, in grado di attirare artisti e artiste e movimenti creativi da tutto il mondo, proprio perché lo spazio era così abbondante e così a buon mercato.
Cosa è successo?

La storia dell’immobiliare a Berlino è la storia di un intreccio perverso di speculazione privata e fallimento del pubblico. Tanto per cominciare: al contrario che in Italia, dove oltre il 78% della popolazione vive in case di proprietà, nelle grandi città tedesche per molto tempo è prevalsa una cultura dell’affitto (i proprietari sono circa il 50% a livello nazionale, e perlopiù nella vecchia Germania Ovest). Questo significa che gli inquilini erano tutelatissimi – con contratti privi di termine, in cui a volte persino lo sfratto per uso del proprietario richiedeva un preavviso di anni – e gli affitti erano relativamente bassi. Ma ovviamente la situazione di Berlino è particolare: alla riunificazione, 30 anni fa, la città dell’Est si è trovata con un enorme stock immobiliare in mano pubblica. Erano casamenti spesso fatiscenti e destinati a svuotarsi con la chiusura improvvisa di tutte le imprese non più competitive dell’ex DDR e con la dismissione del vasto apparato statale che aveva sede in città.

Tornata capitale della Germania unita a un anno dalla caduta del muro nella prosperità degli anni ’90, Berlino si aspettava un afflusso di aziende e uffici praticamente senza fine. I valori immobiliari, allora, sono schizzati alle stelle, incoraggiando la ricostruzione di parti molto importanti della città (emblematico è il caso dei grattacieli di Potsdamer Platz, un vero intervento urbanistico). I prezzi – specie del commerciale – divennero quasi quelli di oggi.

Questi progetti erano speculativi, cioè predicati sul fatto che i prezzi sarebbero saliti sempre di più; erano finanziati da un complesso sistema di fondi che in ultima analisi facevano capo a un’entità pubblica, la Bankgesellschaft Berlin. Quando i prezzi non hanno tenuto alla domanda reale e le torri di uffici sono rimaste vuote è cominciato un giro di occultamenti e tangenti che è collassato fra il 2001 e il 2002 lasciando la città esposta per 21 miliardi di euro con perdite che al 2019 sono state valutate in 1,5 miliardi.

Salvata per il rotto della cuffia dal governo federale, e indebitata per oltre vent’anni, la città di Berlino è stata costretta a vendere il patrimonio immobiliare di cui era proprietaria. Ma erano edifici degradati, in un mercato appena collassato: per renderli appetibili, oltre ai prezzi stracciati, il comune ha dovuto istituire i cosiddetti Sanierungsgebiete, una specie di superbonus permanente, che permetteva di scaricare integralmente i costi di ammodernamento dello stock abitativo a patto che fosse in uso.

Questo ha creato la situazione paradossale in cui l’acquisto si rivelava conveniente anche solo come strategia fiscale; gli affitti non erano una fonte di margine ma tutt’al più un modo per coprire i costi dei finanziamenti e garantirsi l’occupazione degli stabili. All’epoca non era raro che famiglie dell’ex Germania Ovest comprassero interi casamenti coi risparmi di un normale professionista. Alcune società hanno acquistato isolati interi. I due gruppi maggiori – Deutsche Wohnen e Vonovia, in corso di fusione – possiedono in due 150mila appartamenti a Berlino. Per farsi un’idea: è come dire che possiedono Firenze.

Poi il tempo è passato; i cantieri sono finiti; i bonus fiscali sono stati incassati; i prezzi hanno cominciato a salire. Quanto? Non troppo, perché un apposito istituto, il cosiddetto Mietspiegel, vincola i nuovi contratti d’affitto a rispettare il prezzo medio al metro quadro di ogni zona, a pari qualità dell’immobile. Significa quindi che i prezzi sono cresciuti poco? No. Significa, semplicemente, che in larga misura gli immobili sono rimasti vuoti: perché le enormi società che ne possiedono il grosso – quando non possono abbattere e ricostruire per evitare i vincoli – hanno maggior interesse ad immetterli sul mercato lentamente lasciando che i prezzi continuino progressivamente a salire. Le code dipendono anche da questo, pochi appartamenti a disposizione. Camminando, di sera, nei quartieri ove la speculazione è stata più marcata (Kreuzberg, Neukölln, Prenzlauer Berg), le facciate dei palazzi anche nelle strade più richieste sono spesso teorie di finestre buie.

Ci sono stati dei tentativi di soluzione. Ci sono state molte proteste, e interventi legali, contro l’espansione degli affitti brevi come Airbnb, accusati di inacerbare la situazione: il che è vero, ma si tratta comunque di circa diecimila appartamenti sugli oltre un milione della città. Nel 2020 il Senato di Berlino ha varato il cosiddetto Mietendeckel, sostanzialmente un equo canone universale, imponendo un affitto massimo al metro quadro valido anche per modificare i contratti in essere: ma è stato giudicato incostituzionale pochi mesi dopo essere entrato in vigore. Similmente, pochi mesi fa la città ha fatto passare – col 73% di affluenza, e il 59% di sì – un referendum per permettere l’esproprio su tutte le società con più di tremila (tremila!) appartamenti. Si tratta solo di un referendum consultivo, e non è chiaro dove potrebbero essere trovati i fondi per renderne possibile l’attuazione: ma se non altro è un segnale esplicito di quanto nettamente sia percepito il problema dalla cittadinanza.

E insomma, che cosa è successo, davvero? È successo anche a Berlino il ventunesimo secolo: il crollo della fiducia nel settore pubblico; la gentrificazione delle città; la finanziarizzazione del diritto ad abitare. I lanzichenecchi del libero mercato ci vedranno un segno che le tutele e i prezzi calmierati vanno a danno degli stessi inquilini; chi ha maggiore fiducia nel pubblico (come chi scrive) farà notare che l’intero problema è nato perché il pubblico è stato fatto garante, due volte, della speculazione di pochi, socializzando le perdite e privatizzando i profitti; e ora i gruppi d’interesse contrari a una soluzione sono divenuti tanto influenti da paralizzare ogni forza correttiva.

Quali che ne siano le cause, gli effetti sono chiari. Poche società private hanno ottenuto guadagni immensi; gli individui abbastanza lungimiranti e privilegiati da comprare al momento giusto hanno vinto alla lotteria. A fronte di ciò, centinaia di migliaia di persone vivono a tutti gli effetti inchiodate all’ultimo affitto che hanno trovato: convivendo dopo il divorzio, rimandando progetti di figli all’avere una stanza in più che chissà quando arriverà. Tutti gli altri, meno fortunati, si svenano anche qui, come ci si svena a Parigi e ad Amburgo, come ci si svenerà sempre di più a Bologna e a Milano. È l’effetto vasi-comunicanti del gioco fra domanda e offerta, la mano invisibile che annichilisce le differenze.

Una differenza, a Berlino, esisteva: un’abbondanza di spazio e di immobiliare in mano pubblica senza alcun paragone in tutto l’Occidente, una capitale europea la cui economicità ha favorito il fiorire di una comunità artistica e culturale internazionale, come era stato per il downtown di New York negli anni ’60 e ’70, come la Parigi del primo ‘900. Ora queste differenze non esistono più. Però esistono, a Parigi e a Berlino, le code di centinaia di persone per un singolo appartamento sul mercato.

Una di queste persone sono io, che come buona parte di quelli che conosco sono sempre in cerca di un contratto più tutelato o un appartamento più centrale o più economico o ampio abbastanza da pensarci una famiglia. Le tutele a favore degli inquilini fanno sì che la competizione non porti a un rialzo dei prezzi, ma a una ricerca di garanzie sempre maggiori: e da non tedesco (benché qui da tanto), da free-lance, so di poterne dare molte meno di un medico o uno statale. D’altro canto, la lotteria tocca a tutti. In coda ci sono anche loro, il medico e lo statale. Come loro, spero di trovare qualcosa, o di decidermi a tornare in Italia, prima che sia ultimato il grattacielo che Amazon sta costruendo per la propria nuova sede tedesca. Aprirà l’anno prossimo a migliaia di dipendenti, assunti e ben pagati nel settore della tecnologia. Le code si allungheranno ancora.

Vincenzo Latronico
Vincenzo Latronico

Vincenzo Latronico traduce e scrive romanzi. Ne ha pubblicati tre con Bompiani.

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