A Hollywood non si paga più come prima

I soldi che girano continuano a essere tantissimi, ma lo streaming ha cambiato i contratti con conseguenze che coinvolgono tutti, dagli attori ai truccatori

(AP Photo/John Locher)
(AP Photo/John Locher)

Fino a qualche anno fa, pagare i grandi attori di Hollywood era facile. Visto che di soldi ne giravano comunque tanti, se ne davano molti in anticipo, come compenso per recitare in un film e per la loro partecipazione a tutte le attività collaterali di promozione, e molti altri dopo, in rapporto a quanto quel film incassava nel mondo. Ora, però, le cose stanno cambiando: perché la pandemia ha ridotto e talvolta perfino annullato gli incassi; e poi perché c’è lo streaming, in cui i soldi si fanno con gli abbonamenti.

Quello attuale è quindi un periodo di transizione tra un vecchio sistema ormai spesso impraticabile e un nuovo assetto ancora non ben definito. Che ha conseguenze sui conti correnti di Scarlett Johansson e Tom Hanks, ma anche – per ragioni simili ma con dinamiche diverse – sulle vite di decine di migliaia di persone che, senza recitare, lavorano a film e serie. Per questo, ha scritto l’Economist, dalle parti di Hollywood «è un periodo turbolento, in cui tutti – dai grandissimi fino agli addetti a trucco e parrucco – sono in guerra con le case di produzione». In altre parole, con i loro datori di lavoro.

Anche prima della pandemia tra streaming e cinema c’erano frequenti intersezioni: Netflix per esempio aveva già fatto un film di Martin Scorsese, una serie con Kevin Spacey e una lunga serie di contenuti con costi, nomi e ambizioni da grande cinema. La grande maggioranza dei film più costosi e ricercati continuava tuttavia ad arrivare dal cinema tradizionale, e a Hollywood continuava per molti versi a essere in vigore un sistema vecchio di decenni. Per le produzioni principali si sceglievano cioè attori e registi di primo livello, che il pubblico conosceva e seguiva, si dava loro un compenso prima del film e una percentuale sugli utili, alla luce degli incassi. C’erano inoltre – in questo caso pure per altri membri del cast e della troupe – percentuali relative alle vendite di VHS e poi di DVD, o ai successivi passaggi televisivi del film, mesi o anni dopo l’uscita nei cinema.

È sempre difficile avere numeri precisi, ma si stima che Avengers: Endgame, il film che con quasi 2,8 miliardi di dollari di incassi fu quello che andò meglio nel 2019, fece guadagnare a Disney (che controlla Marvel) circa 900 milioni di dollari. E che in virtù della sua presenza in quel film e in molti dei precedenti film Marvel, Robert Downey Jr. si prese in tutto circa 75 milioni di dollari tra salario e pagamenti successivi.

Quello stesso sistema, tuttavia, non sempre funzionava: si stima per esempio che nel 2019 almeno cinque grandi film persero più di 100 milioni di dollari l’uno. È parte del motivo per cui Netflix riuscì a convincere molti grandi nomi a lavorare a serie o film fatti per lo streaming e non per i cinema: pagava tanto e subito, a prescindere.

Era, come ha scritto Bloomberg, «una alternativa che evitava molti imprevisti». Qualcuno, legato alla tradizione dell’esperienza cinematografica, non gradiva però questa prospettiva. Molti altri invece la apprezzarono da subito, anche perché, pur di avere certi nomi nel suo catalogo, Netflix offriva grandi libertà produttive. «Ben pochi» ha scritto Bloomberg «avrebbero per esempio prodotto Roma di Alfonso Cuaron, un film tutto in spagnolo e tutto in bianco e nero, basato sull’infanzia del regista a Città del Messico». Netflix invece lo finanziò e lo rese disponibile in tutto il mondo, oltre che in centinaia di cinema.

Con i servizi di streaming girano più soldi. Ci sono più contenuti in più posti, e più contenuti vuol dire più lavoro e possibilità per tutti, da chi scrive il soggetto di una serie a chi diversi mesi dopo la doppia in un’altra lingua. Secondo Bloomberg, quest’anno i servizi di streaming potrebbero arrivare a spendere in totale 50 miliardi di dollari.

Come ha scritto l’Economist, «fino a tre anni fa quando si faceva un nuovo film nel migliore dei casi c’erano 6 principali offerenti a cui venderlo: Netflix più i cinque grandi studi cinematografici di Hollywood. Ora che sono della partita anche Amazon, Apple e altri ancora, gli offerenti sono circa una dozzina». E secondo stime citate ancora dall’Economist, quando c’è da comprare i diritti per un film le aziende di streaming pagano in genere tra il 10 e il 50 per cento in più rispetto agli studi cinematografici.

Oltre ad avere molti soldi da investire, i servizi di streaming hanno anche logiche diverse: perché funzionano ad abbonamenti e non a incassi, perché si occupano di tecnologia almeno tanto quanto si occupano di intrattenimento e perché spesso arrivano (e sono guidate da persone che arrivano) da altri contesti. Una delle conseguenze è che spesso possono permettersi di andare oltre l’idea che per fare qualcosa di costoso serva per forza di cose un grande attore, di quelli capaci – quasi solo con la sua presenza – di portare spettatori nei cinema.

Nella costosissima serie Amazon sul Signore degli Anelli, il cui budget è già vicino al mezzo miliardo di dollari, non ci sono attrici o attori famosissimi. Spesso e volentieri, chi fa streaming punta soprattutto ad acquisire, creare e gestire storie, proprietà intellettuali e mondi narrativi. Talvolta ci sono anche grandi attori, ma non è più qualcosa di praticamente imprescindibile come lo era nella Hollywood del passato.

Rimangono comunque alcune categorie di contenuti in cui i nomi continuano a essere importanti, anche nello streaming, perché la loro presenza riesce a dare valore e visibilità, contribuendo a convincere persone ad abbonarsi o a rinnovare il proprio abbonamento. Quando qualche attore o attrice accetta di farsi pagare da un servizio di streaming lo fa ovviamente per i soldi, ma anche perché, come ha detto un agente all’Economist, «spesso fa comodo avere un proprio film in streaming, dove non si può sapere di preciso quanto sia stato visto, anziché dover affrontare le critiche di un fallimento ai botteghini».

Ma anche qui c’è il rovescio della medaglia: con questo nuovo sistema può succedere che, come ha detto all’Economist John Berlinskiavvocato che si occupa di contratti cinematografici, nella Hollywood del passato i contratti erano “biglietti della lotteria”, perché se un film o una serie andavano bene si finiva per guadagnare tantissimo. Con il nuovo sistema, invece, «le persone sono sottopagate in caso di successo e troppo pagate in caso di fallimento». L’Economist fa l’esempio di Dwayne Johnson, che si pensa abbia avuto 50 milioni di dollari da Amazon per recitare nel film d’azione Red One. Tantissimi soldi, che però «in passato sarebbero potuti diventare anche il doppio, grazie alle percentuali sugli incassi» (che in questo caso invece non ci saranno).

Oltre ai grandi attori e ai loro contratti milionari ci sono tutti gli altri lavoratori del cinema e della serialità televisiva. Tutti i membri di tutte le troupe, che a Hollywood sono noti come i lavoratori below-the-line perché nel fare il budget per un film sono considerati un costo diverso, separato da una specifica linea, da quello relativo a regia, recitazione e sceneggiatura. Sono, per usare una definizione del New York Times, «i colletti blu di Hollywood», definito «un luogo in cui le gerarchie non sono per nulla sottili».

Anche a loro lo streaming ha portato in generale più lavoro, ma pure più incertezza. Perché, per esempio, i servizi di streaming si fanno pochissimi scrupoli nel sospendere una serie anche solo dopo una sola stagione, magari dopo averla valutata inefficace. Succede quindi con frequenza di dover trovare un nuovo lavoro, in mezzo a una accesa concorrenza. Inoltre, come fa notare l’Economist «le serie in streaming tendono ad avere meno episodi di quelle televisive del passato». Che per molti spesso vuol dire meno giorni di lavoro, e quindi meno soldi.

A una situazione già parecchio confusa si è poi aggiunta la pandemia. Che prima ha bloccato o rallentato molte produzioni, e poi ha indirizzato molti film direttamente verso lo streaming. Con il disappunto di molti registi (secondo Denis Villeneuve guardare il suo Dune in televisione era come provare a «guidare un motoscafo in una vasca da bagno») e anche con rimostranze di altro tipo. Scarlett Johansson, per esempio, aveva fatto causa a Disney (raggiungendo poi un accordo) ritenendo che nel far uscire un suo film in streaming l’azienda le avesse fatto perdere diversi milioni di dollari.

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Anche nel caso dei lavoratori below-the-line, la pandemia ha esacerbato problemi che già c’erano. Al punto che a ottobre lo IATSE, il sindacato statunitense che rappresenta 150mila di loro, è andato vicinissimo al suo primo sciopero generale e nazionale in 128 anni. Uno sciopero che poi è stato evitato grazie a diverse concessioni fatte nel nuovo contratto di alcune decine di migliaia di lavoratori below-the-line, ma che ha tuttavia reso evidente come, nonostante la grande ascesa dei servizi di streaming, molti di loro siano parecchio insoddisfatti.

Marisa Shipley, che ha 33 anni e lavora nei reparti artistici del cinema e ha lavorato tra gli altri agli Hunger Games e ai Guardiani della Galassia, aveva detto a NBC News: «c’è quest’idea che l’industria del cinema sia la fabbrica dei sogni, che non solo facciamo cose fantastiche ma che anche lavorarci sia un sogno che si avvera. E c’è chi da fuori dice che, avendone la possibilità, lavorerebbe gratis pur di stare in un set». Shipley spiegava però di aver recentemente lavorato 21 giorni di fila, che il giorno in cui aveva lavorato meno l’aveva fatto per 12 ore, e che un altro era arrivata a 19 ore.

Un po’ per la pandemia, un po’ per lo scombussolamento generale portato dallo streaming, con modi e misure diverse dalle parti di Hollywood sono in molti a essere insoddisfatti. È impossibile generalizzare – esistono per esempio direttori della fotografia ricercati quasi quanto certi attori, e piccoli attori che si arrabattano per piccoli ruoli pagati quanto membri della troupe – e ci sono anche molte persone con più lavoro, come gli autori che improvvisamente hanno molti più possibili clienti a cui vendere le loro storie. Ma il problema è riconosciuto e sentito, pur con ordini di grandezza ovviamente diversi: si va appunto dalla lavoratrice below-the-line che lavora troppo e magari guadagna pochissimo a Dwayne Johnson che a fine anno si ritrova con qualche decina di milione di dollari in meno sul conto corrente.

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E manca, per ora, una chiara soluzione. Come ha scritto il Los Angeles Times, fin qui in casi simili a quello che ha riguardato Johansson si è spesso scelto (prima di arrivare ad azioni legali) di trovare forme di compensazione con gli attori, definite «soluzioni a breve termine per un problema specifico». Soluzioni nate per adattare contratti pensati alla vecchia maniera che, causa pandemia, hanno dovuto cavarsela con lo streaming. Resta però la grande domanda su «come i contratti del futuro di Hollywood proveranno a collegare le forme di remunerazione con il successo in streaming».

È infatti praticamente impossibile poter pensare che una società come Netflix possa o voglia decidere di pagare un attore in base al numero di abbonati che porta o che mantiene. Perché è impossibile calcolarlo con esattezza, e perché è tutto nell’interesse di Netflix che un’informazioni di quel tipo non venga condivisa. In un contesto sempre più eterogeneo e imprevedibile, come dimostra l’inaspettato successo della serie sudcoreana Squid Game, che potrebbe diventare il contenuto più visto di Netflix nonostante una produzione straniera e dal budget contenuto, basata peraltro su un soggetto che per anni non aveva voluto produrre nessuno. E che ciononostante potrebbe finire per rendere a Netflix più di ogni altro tipo di contenuto, attore o universo narrativo.

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