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  • Domenica 12 settembre 2021

Cosa sappiamo della donna che ha partorito in carcere a Roma

È successo a Rebibbia, e del caso si stanno interessando i Garanti nazionali dei diritti dei detenuti e il ministero della Giustizia

(ALESSANDRO DI MEO - ANSA ARCHIVIO)
(ALESSANDRO DI MEO - ANSA ARCHIVIO)

A fine agosto una donna di 23 anni detenuta nel carcere di Rebibbia, a Roma, ha partorito in cella senza assistenza medica. A raccontare per prima quanto accaduto è stata Gabriella Stramaccioni, che a Roma è Garante delle persone detenute, un organismo statale con varie diramazioni locali che si occupa di monitorare la situazione nelle carceri; dopo che ne avevano parlato i giornali, si è interessata della vicenda anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia, che ha avviato un’indagine dell’Ispettorato per capire come sia avvenuta l’incarcerazione della donna: secondo il Codice di Procedura Penale per le donne in gravidanza non dovrebbe essere disposta la custodia cautelare in carcere.

Cosa è successo

Repubblica, tra i primi giornali a parlare della storia, scrive che la donna – il cui nome è Amra e il cognome non è noto – era stata arrestata lo scorso 23 giugno in seguito al furto di un portafoglio insieme ad altre due donne. Oltre ad Amra, anche una delle altre due era già in stato di gravidanza avanzato. Amra è italiana, di origine bosniaca, e ha vissuto un periodo nel grande campo nomadi di Castel Romano, a circa 20 chilometri da Roma.

Dopo l’arresto, le tre donne erano state portate alla IV sezione penale del Tribunale di Roma, ed era stato assegnato loro un avvocato d’ufficio. Per Amra l’avvocato aveva chiesto il patteggiamento, ma la giudice Isabella Russi aveva respinto la richiesta e a quel punto Amra e le due donne erano state trasferite al carcere di Rebibbia. La giudice, scrive Repubblica, aveva deciso di applicare «la misura di maggior rigore» nei loro confronti, poiché le tre donne non lavoravano e non avevano fornito l’indirizzo di una «dimora idonea», e aveva ritenuto che le loro gravidanze non fossero un impedimento al carcere cautelare. Peraltro, l’avvocato aveva anche presentato alcuni certificati medici a testimoniare le complicazioni nelle precedenti gravidanze avute da Amra.

Il Codice di Procedura Penale dice all’articolo 275 che «se la persona da sottoporre a custodia cautelare sia donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni […], non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza». Non è chiaro quali siano state «le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza» nel caso di Amra, nè perchè la giudice non abbia seguito – non volendo disporre i domiciliari – quanto disposto dall’articolo 285 bis: «Il giudice può disporre la custodia presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri»

– Leggi anche: Le donne della Giudecca

A metà agosto la Garante Gabriella Stramaccioni aveva cominciato a interessarsi della situazione di Amra. Parlando con Repubblica, Stramaccioni ha raccontato di aver scritto al tribunale il 17 agosto, chiedendo il trasferimento di Amra in una comunità, ma «nessuno ha risposto». La dinamica di quanto avvenuto dopo non è molto chiara: sembra che Amra abbia avuto un’emorragia e che sia stata ricoverata in ospedale, ma che una volta rientrata l’emergenza sia stata fatta tornare in carcere, il giorno stesso.

Il parto sarebbe avvenuto una decina di giorni dopo: secondo Dino Petralia, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP, alle dipendenze del ministero della Giustizia), il parto sarebbe avvenuto nella notte tra il 30 e il 31 agosto, ma alcuni giornali citano altre date. Petralia ha detto che al momento del parto Amra si trovava nella sua stanza del reparto dell’infermeria del carcere, e che avrebbe partorito da sola perché il medico in servizio «si sarebbe allontanato per contattare l’ospedale». Ma una testimonianza della stessa Amra data a Repubblica racconta l’accaduto in modo diverso:

“Quella notte è successo tutto improvvisamente – racconta la donna – nelle ore precedenti non avevo dolori, anche se sapevo che avrei partorito di li a poco tempo. La sera ho cenato, poi mi sono messa a letto e improvvisamente sono iniziate le contrazioni”. La 23enne divide la cella con un’altra rom, anche lei incinta, al quinto mese di gravidanza. “Quando sono iniziati i dolori lei mi ha aiutata – aggiunge Amra – e dopo poco è nata la bimba. È stata la mia compagna di cella a chiamare i soccorsi”.

Il 3 settembre la richiesta di patteggiamento dell’avvocato di Amra è stata accolta, e quindi la donna è stata scarcerata. «Una vicenda simile non mi era mai capitata in tanti anni di professione» ha detto l’avvocato.

Le reazioni

La ministra della Giustizia Cartabia ha commentato la vicenda dicendo che «dobbiamo portare tutte le detenute madri fuori dal carcere», e ha incaricato Maria Rosaria Covelli, a capo dell’Ispettorato generale del ministero, di ricostruire le decisioni e le eventuali responsabilità che hanno portato Amra a partorire in carcere. Petralia invece ha detto che «ogni madre con un bambino in carcere rappresenta un disagio, e anche una pena» e che «tutte le misure possibili vengono gestite dai magistrati anche con una certa oculatezza, tant’è che al momento ne abbiamo solo 22 in custodia con 25 figli, ma l’obiettivo è cancellare questa cifra. Ma non abbiamo noi il governo di questo orizzonte, ce l’ha l’autorità giudiziaria».

Secondo Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone (che si occupa di tutelare i diritti delle persone detenute), le situazioni come quella di Amra non sono così rare. «Purtroppo non è la prima volta» ha detto parlando con lo Huffington Post. «Nonostante in caso di condanne definitive il codice penale imponga il differimento della pena per donne incinte o madri di minori di un anno. E queste siano anche le raccomandazioni degli organismi internazionali sui diritti umani».

Il Garante dei diritti delle persone detenute del Lazio, Stefano Anastasia, ha segnalato invece una disparità di trattamento nei confronti di alcune persone: «Capita purtroppo a soggetti “deboli”: che senso ha mandare in carcere per reati di lieve entità? Eppure ai rom la custodia cautelare viene applicata de plano [senza difficoltà, ndr] perché considerati inaffidabili. Per fortuna qui è nata una nuova vita, ma ricordo la tragedia di tre anni fa quando sempre a Rebibbia una madre ha gettato i bambini dalle scale. Come è possibile rendersi conto delle criticità solo dopo che si sono manifestate?».

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