I paesi europei che non vogliono l’accordo globale per tassare le multinazionali

Sono Irlanda, Estonia e Ungheria, e la loro contrarietà potrebbe allungare i tempi di approvazione dell'accordo

Una vista di Tallinn, Estonia (Jordan Mansfield/Getty Images)
Una vista di Tallinn, Estonia (Jordan Mansfield/Getty Images)

Giovedì scorso, 130 paesi e giurisdizioni hanno aderito a un accordo globale – da molti considerato storico – per imporre un livello minimo di tassazione del 15 per cento alle grandi multinazionali. Il patto, frutto di anni di negoziazioni coordinate dall’OCSE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, è stato però contestato da alcuni paesi che non vi hanno aderito. A far discutere è stata in particolar modo la contrarietà di tre paesi che fanno parte dell’Unione Europea: Irlanda, Ungheria ed Estonia.

La posizione di questi stati, che hanno diritto di veto sull’adozione dell’accordo da parte dell’UE, rischia di allungare i tempi sia per la finalizzazione dei dettagli del testo (che i partecipanti si sono imposti di terminare entro il prossimo ottobre), sia per la sua implementazione attraverso leggi che lo applichino concretamente, attesa per il 2023.

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L’accordo riguarda soltanto le società con ricavi globali di almeno 20 miliardi di euro l’anno e un margine di profitto di almeno il 10 per cento (quindi circa un centinaio di grandi multinazionali, secondo il Wall Street Journal), e potrebbe generare secondo la stessa OCSE 150 miliardi di dollari di gettito fiscale all’anno a livello mondiale, neutralizzando la concorrenza dei paradisi fiscali e gli effetti negativi dell’elusione fiscale sui bilanci dei paesi colpiti da questo fenomeno.

Il testo è ancora una bozza, ma prevede due punti fermi, chiamati “pilastri”.

Il primo consiste nell’assicurare una distribuzione più equa dei proventi dalla tassazione di queste società tra paesi, riassegnando alcuni diritti di tassazione dagli stati in cui le multinazionali hanno sede fiscale (spesso quelli con aliquote molto basse) a quelli in cui operano e generano profitti, indipendentemente dal fatto che esse abbiano una presenza fisica in questi paesi. Ciò consentirebbe di redistribuire circa 100 miliardi di dollari di tasse l’anno, secondo le stime dell’OCSE.

Il secondo – quello che sta facendo discutere – introduce un’aliquota minima globale del 15 per cento sui profitti d’impresa, superiore a quella che attualmente le società pagano in Irlanda (12,5 per cento) e in Ungheria (9 per cento). In Italia, per fare un paragone, le imposte sul reddito delle imprese si dividono tra IRES (l’imposta statale) e IRAP (quella regionale), che cumulate portano le società a pagare in tasse il 27,9 per cento dei profitti in media.

La bozza ha messo d’accordo paesi che in totale rappresentano circa il 90 per cento del Prodotto interno lordo mondiale, inclusi Stati Uniti, Cina e Russia. Tuttavia, come dicevamo, i governi di Irlanda, Ungheria ed Estonia si sono rifiutati di aderirvi.

L’Irlanda ha almeno due evidenti motivi per non voler aderire all’accordo: oltre a offrire una tassa sui profitti del 12,5 per cento, concede alle imprese che traggono profitto da brevetti e software un’aliquota dimezzata, del 6,25 per cento. Questa è l’aliquota che si applica a gran parte delle multinazionali oggetto dell’accordo: società operanti su Internet che offrono servizi digitali in tutta Europa attraverso i loro software, come per esempio Google e Facebook.

Fino al 2015, il paese è stato in grado di attrarre grandi multinazionali americane grazie a un regime fiscale ancora più permissivo, che consentiva loro di attuare una strategia chiamata “Double Irish”, o “doppio irlandese”, perché implicava la creazione di due società di diritto irlandese. Questa veniva spesso abbinata a un’altra strategia, chiamata “Dutch sandwich”, “panino olandese”. La strategia di elusione fiscale risultante, molto complessa, consentiva alla multinazionale di pagare in tasse cifre molto basse sui profitti generati al di fuori degli Stati Uniti – tra il 2,2 e il 4,5 per cento – sfruttando le regole fiscali dei paesi coinvolti e gli accordi fiscali tra loro.

Dal 2015, l’Irlanda ha modificato le sue leggi fiscali per mettere fine a questa pratica, concedendo però in cambio alle multinazionali l’aliquota ridotta del 6,5 per cento per evitare che lasciassero il paese. L’accordo OCSE metterebbe quindi a repentaglio questo vantaggio fiscale che l’Irlanda ha tuttora nei confronti di altri stati europei.

Ciò nonostante, il ministro delle Finanze irlandese, Paschal Donohoe, si è mostrato aperto a discutere l’accordo: «Non ero nella posizione di unirmi al consenso sull’accordo e specificamente sull’aliquota fiscale effettiva globale minima di “almeno il 15%” oggi», ha detto giovedì, aggiungendo: «ho espresso la riserva dell’Irlanda, ma resto impegnato nel processo e mi propongo di trovare un risultato che l’Irlanda possa ancora sostenere».

Secondo un analista sentito da Euronews, Jacob Kirkegaard, l’Irlanda dovrà in qualche modo scendere a compromessi sull’accordo, perché ha bisogno del supporto dell’Unione Europea e degli Stati Uniti nelle sue trattative sulla Brexit con il Regno Unito.

Diverso è il discorso dell’Ungheria, dove la politica fiscale permissiva introdotta dal primo ministro, Viktor Orbán, ha aiutato l’economia a crescere mantenendo alto il suo consenso tra i cittadini, nonostante la regressione del paese sul piano dei diritti civili. Secondo Kirkegaard, proprio a causa di questa regressione, che rende incerta l’applicazione delle leggi, le aziende non avrebbero altro incentivo a delocalizzare in Ungheria se non quello fiscale. Perciò è probabile che il paese si opponga con più fermezza all’adozione dell’accordo da parte dell’Unione Europea.

Questo è un problema per quei paesi europei che hanno estremo bisogno dell’accordo per ottenere risorse dalle multinazionali che ne eludono il fisco, come Italia, Francia e Germania. Secondo i trattati dell’Unione infatti, i cambiamenti in tema di politica fiscale devono essere approvati all’unanimità, perciò l’opposizione dell’Ungheria (come quelle di Irlanda ed Estonia) sarebbe sufficiente a impedire all’intero blocco di adottare l’accordo. L’Unione Europea dovrà quindi negoziare con Orbán come successe per l’approvazione del piano di ripresa dalla pandemia, il NextGenerationEU, a cui si era opposta anche la Polonia. Questo potrebbe allungare i tempi e indebolire la posizione negoziale dell’Unione alla prossima riunione dei ministri delle Finanze del G20, che si terrà venerdì 9 luglio a Venezia.

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C’è poi il caso dell’Estonia. In questo paese baltico, dove le aliquote per le imprese vanno dal 14 al 20 per cento, le tasse si pagano solo sui profitti distribuiti. In altre parole, se un’impresa decide di reinvestire i propri profitti, questi non vengono tassati. Perciò, il momento in cui la tassa viene determinata si sposta da quello in cui il profitto viene generato a quello in cui viene distribuito. Questo fa sì che il pagamento delle tasse possa essere posposto per anni, il che crea un problema perché, come osservato dal ministero delle Finanze estone, “la versione attuale [dell’accordo] permette allo stato in cui si trova la sede della società di tassare il profitto guadagnato in Estonia se l’Estonia non ha tassato il profitto della filiale locale entro tre o quattro anni”. Insomma, l’Estonia rischia di vedere altri paesi raccogliere i profitti che lei non ha tassato al momento della generazione. Sentito da Bloomberg, il ministero delle Finanze estone ha detto che la proposta è ancora troppo vaga per prevedere la posizione finale del paese a riguardo.

Oltre a Irlanda, Estonia e Ungheria, all’accordo non hanno aderito nemmeno Perù (che non l’ha fatto perché al momento si trova senza un governo), Sri Lanka, Nigeria e Kenya, oltre a noti paradisi fiscali come le Barbados, Saint Vincent e Grenadine.

Il meccanismo di tassazione ipotizzato dall’accordo però permetterebbe di mettere in pratica la redistribuzione anche senza l’adesione dei paradisi fiscali: secondo la bozza, se una società aprisse una succursale in un paradiso fiscale con aliquota inferiore al 15 per cento, il paese d’origine della società potrebbe imporle un’aliquota pari alla differenza tra quella imposta nel paradiso fiscale e il 15 per cento. In altre parole: le società non avrebbero più incentivo ad aprire sedi in paesi a tassazione agevolata perché finirebbero comunque per pagare lo stesso ammontare. Questo meccanismo neutralizzerebbe la concorrenza dei paradisi fiscali.

Potrebbero però esserci altri ostacoli all’attuazione del piano. Il più concreto: il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, è sostenuto al Congresso da una maggioranza risicata, che potrebbe ridursi con le elezioni di metà mandato del prossimo anno: l’approvazione del Congresso è necessaria perché il paese renda operativo l’accordo.