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  • Lunedì 22 febbraio 2021

Un tentativo di prevedere come andrà a finire

Con un approccio non esente da limiti, un influente psichiatra americano si è cimentato in un esercizio delicato ma richiesto sulla pandemia

coronavirus california
Un cameriere prende le ordinazioni dei clienti di un ristorante a Burbank, in California, il 18 luglio 2020 (AP Photo/Marcio Jose Sanchez)

La progressione delle campagne di vaccinazione per il coronavirus nel mondo, i dati incoraggianti provenienti da Israele e, allo stesso tempo, la presenza – significativa in molti paesi – di varianti del virus potenzialmente influenti sull’efficacia dei vaccini attuali e anche di alcuni tipi di test, hanno via via reso disponibili molte più informazioni sull’epidemia di quante ne avessimo anche soltanto tre mesi fa. Tutte insieme contribuiscono a descrivere con un minore grado di incertezza il quadro futuro della pandemia, pur non permettendo di formulare ipotesi a lungo termine che non siano suscettibili di correzioni anche radicali, a seconda dell’evoluzione degli eventi.

Fare previsioni sull’evoluzione della pandemia, e su come sarà la nostra quotidianità tra tre, sei o dodici mesi, rimane un esercizio difficilissimo e delicato: ma a un anno dalla scoperta della globalità del contagio, appaiono comprensibili e in una certa misura necessari i tentativi di ovviare al clima di incertezza e spaesamento con cui ci siamo abituati a convivere.

Questa esigenza è particolarmente sentita tra alcuni analisti vicini a riflessioni e orientamenti diffusi tra le grandi aziende tecnologiche della Silicon Valley, abituate a un approccio ai problemi della contemporaneità che lascia poco spazio alla casualità e prevede sempre l’esistenza di una soluzione. Approccio che presenta limiti evidenti nell’analisi di un fenomeno complesso e in continua evoluzione come la pandemia, che ha insegnato più volte che quello che sembra certo oggi potrebbe non esserlo tra qualche settimana.

Negli ultimi mesi, in ogni caso, si è definita una corrente di pensiero che ritiene che provare a immaginare scenari futuri anche a costo di grandi imprecisioni possa comunque essere un esercizio sempre valido, e nel migliore dei casi illuminante. Queste riflessioni spesso non arrivano necessariamente da scienziati specializzati in virologia ed epidemiologia, ma da analisti che, seppur obiettivamente meno qualificati, sono anche meno riluttanti a condividere previsioni ad alto grado di fallibilità e in presenza di pochi elementi assolutamente certi.

A definire una prospettiva riguardo al futuro della pandemia – una tra tante, e tra molte cautele – ci ha provato nei giorni scorsi un apprezzato e seguito psichiatra californiano, che scrive da anni con lo pseudonimo Scott Alexander (che è il suo nome completo di battesimo). È autore di un popolare e corposissimo blog che si occupa di scienza, medicina, filosofia e politica, e in cui annota – e in seguito verifica – sue previsioni generalmente discusse da un gruppo abbastanza complice di commentatori.

Scott Alexander è peraltro seguito da suoi colleghi conosciuti e stimati come lo scienziato cognitivo Steven Pinker, il filosofo Peter Singer e lo psicologo Jonathan Haidt, che furono tra i firmatari di una petizione organizzata dai sostenitori del blog a luglio 2020 per evitare che un ritratto di Alexander in uscita sul New York Times rivelasse il suo cognome (poi lo fece direttamente lui, alla fine di un lungo post).

Oltre che nel suo specifico ambito di competenza medica, Alexander è ritenuto un autore molto influente tra economisti, scienziati, manager e altri professionisti che ruotano intorno alla San Francisco Bay Area. È la parte della California sede delle più grandi aziende di tecnologia al mondo (tra cui Apple, Google e Facebook), e anche la zona degli Stati Uniti in cui si sono sviluppati in anni recenti prodotti, movimenti e tendenze i cui effetti si sono poi rapidamente estesi al resto del paese e oltre.

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Alexander parte da un’analisi dei dati della terza e più pesante ondata dell’epidemia di COVID-19 negli Stati Uniti, compresa tra novembre scorso e gennaio. Ritiene che una quarta potrebbe iniziare a marzo, con il sopravvento della cosiddetta “variante inglese” (B.1.1.7), e durare fino a maggio prima di un nuovo calo dei contagi. Ma è lo stesso Alexander ad attenuare subito la perentorietà di questa affermazione e a rivedere al ribasso le percentuali di probabilità della sua previsione citando i progressi compiuti dagli Stati Uniti nella campagna di vaccinazione nei giorni subito prima e subito dopo la pubblicazione del suo post.

In attesa di avere più informazioni sull’efficacia dei vaccini attualmente in uso anche rispetto a tutte le varianti, la buona notizia è che i dati finora disponibili indicano una buona protezione dai sintomi più gravi anche in caso di scarsa protezione dal contagio. Nel frattempo, secondo Alexander, la dinamica finora dominante durante la pandemia potrebbe sostanzialmente rimanere invariata per la popolazione: una ciclicità tra l’irrigidimento delle restrizioni e la ripresa dei contagi («più virus -> lockdown rigidi -> meno virus -> lockdown flessibili -> più virus»).

Lo schema in cui si muove Alexander, tralasciando i margini di errore legati alla quota per ora ineliminabile di imprevedibilità, vede contrapposte da una parte la velocità con cui il coronavirus sarà in grado di produrre varianti e dall’altra quella dei ricercatori nel produrre dosi di richiamo o nuovi vaccini in grado di rafforzare l’immunità anche rispetto alle varianti.

Alcuni studi preprint (quelli che devono poi essere sottoposti alla peer-review, la valutazione di ricercatori terzi) citati da Alexander suggeriscono che creare un nuovo vaccino, per le case farmaceutiche, possa essere un’operazione relativamente semplice. Si tratterebbe, per usare un’immagine presa in prestito dall’informatica, di prendere le nuove parti del virus che funzionano come “password” di accesso alle cellule – le mutazioni nella proteina sulle punte del coronavirus – e comunicarle al sistema immunitario in modo da permettergli di riconoscere la variante.

I tempi lunghi riguardano piuttosto il resto della catena: approvazione, produzione e distribuzione del vaccino. Potremmo avere a disposizione un nuovo vaccino contro la “variante sudafricana” (501Y.V2) nei primi mesi del 2021, ipotizza Alexander, ma a quel punto il coronavirus potrebbe aver cambiato un’altra volta le sue password, e saremmo punto e a capo. Il problema è che non è una corsa alla pari: per il virus si tratta di un unico processo – cambiare la password – mentre per i produttori del vaccino i passaggi sono più numerosi, anche nel caso di autorizzazioni di emergenza da parte delle agenzie (FDA negli Stati Uniti, EMA in Europa).

Alexander identifica quindi quello che potrebbe essere definito «lo scenario migliore», determinato da una serie di probabili effetti a catena a partire da una prima decisione fondamentale, per nulla scontata. La FDA dovrebbe dichiarare che tutte le autorizzazioni concesse finora valgono per le procedure in generale, e si estendono quindi anche agli «aggiornamenti minori» effettuati dai produttori sui vaccini esistenti per far fronte alle varianti.

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A quel punto, di fronte a ogni nuova variante, i ricercatori risponderebbero in tempi rapidi con un vaccino aggiornato. Sarebbero regolarmente condotti i test clinici per garantirne la sicurezza ma, prosegue Alexander, magari non tutti quelli necessari per garantirne l’efficacia, pur di guadagnare tempo. Si passerebbe subito alla produzione, sovvenzionando tutte le aziende e le fabbriche. E «se Amazon vorrà entrare nel business dei vaccini, per amor del cielo, lasciateglielo fare. E se poi questo significherà che alcune persone povere non potranno permettersi i vaccini, il governo darà loro i soldi finché non potranno permetterselo».

Questa parte della previsione di Alexander è forse la più fragile, perché immagina e auspica meccanismi che accelerino le autorizzazioni e facilitino l’ingresso di nuove aziende nella produzione e distribuzione dei vaccini: uno scenario che però non sembra necessariamente probabile, e forse nemmeno tecnicamente possibile perché passa attraverso la complicata e ancora irrisolta questione dei brevetti e dei segreti industriali. L’obiettivo, ribadisce in ogni caso Alexander, dovrebbe essere quello di contrarre quanto più possibile il tempo che intercorre tra la scoperta di una nuova variante e la disponibilità di un richiamo o di un vaccino creati appositamente per quella variante.

L’unico modo per portare a zero le possibilità del coronavirus di produrre varianti, sostiene Alexander, sarebbe quello di portare a zero i contagi. Potrebbe non accadere per anni, che sia per ragioni politiche o per ragioni logistiche, o potrebbe non accadere mai. Probabilmente non debelleremo il virus nel 2021 né in questo decennio, dice. Avrà sempre la possibilità di diventare più resistente ai vaccini e trasmettersi tra le persone sviluppando nuove varianti, e così via. Senza contare che l’inclinazione delle persone a ricevere periodicamente un vaccino o una dose di richiamo, peraltro senza alcuna garanzia che non ne serviranno altri in seguito, potrebbe lentamente regredire. L’esito più probabile in uno scenario di questo tipo è che il coronavirus diventi «un’altra influenza stagionale».

Ogni anno l’influenza cambia un po’. Ogni anno diciamo alle persone di fare il vaccino antinfluenzale che le rende immuni, nella migliore delle ipotesi, all’influenza di quest’anno. Ogni anno, in inverno, l’influenza si diffonde in tutto il mondo, un po’ più lentamente nei paesi molto vaccinati e un po’ più velocemente in quelli non vaccinati, e uccide un numero di persone a sei cifre [un numero tra 290 mila e 650 mila, secondo dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità]. E ogni anno è uno schifo, sì, ma nei paesi del Primo Mondo almeno la maggior parte degli anziani è stata vaccinata, quindi è meno peggio di quello che potrebbe essere.

È così che immagino che finirà anche con il coronavirus. Le persone vengono vaccinate in un numero sufficiente da non rendere più il virus una pandemia straordinariamente pericolosa. Ogni anno muta un po’, e noi cambiamo i vaccini un po’. Persone insolitamente a rischio e persone insolitamente coscienziose faranno il vaccino; tutti gli altri lo ignoreranno. Lasceremo che accada, piangeremo i morti e andremo avanti.

Alexander specifica che la sua analogia tra la COVID-19 e l’influenza stagionale non è posta sul piano della gravità della malattia (la prima è al momento molto più grave). L’analogia serve per descrivere quella che a suo avviso potrebbe essere una ciclicità paragonabile, per quanto riguarda il rapporto tra malattia stagionale e nuovo vaccino. Ma una parte consistente di questa previsione, ammette Alexander, dipende da qualcosa che al momento non è possibile stabilire con esattezza: se e quanto il coronavirus sia effettivamente “abile” a creare varianti.

Per descrivere meglio l’incertezza attuale Alexander cita l’analista Tomas Pueyo, autore di un articolo molto condiviso e apprezzato all’inizio della pandemia, secondo il quale i dati attualmente disponibili indicano un ben diverso tasso di mutazione tra il virus che provoca la COVID-19 e il virus influenzale. «Sono serviti 50 milioni di casi (e forse centinaia di milioni di infezioni) di COVID-19 perché il virus sviluppasse tre varianti negative», scrive Pueyo, ricordando che il piano di vaccinazione contribuirà a rallentare la velocità di mutazione («meno casi, meno opportunità di mutazioni»). Ma subito dopo Alexander cita anche un’analisi di Trevor Bedford, biologo specializzato in vaccini e malattie infettive al Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, che dall’inizio della pandemia raccoglie dati sulle caratteristiche genetiche del coronavirus. La velocità di mutazione nel SARS-CoV-2 sarebbe più alta rispetto a quella del virus influenzale, secondo Bedford, che però ritiene i vaccini per il coronavirus uno strumento in grado di «inseguire» il virus più efficacemente di quanto non avvenga con il vaccino antinfluenzale.

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Dopo la più intricata e fragile parte di previsioni sull’evoluzione delle varianti del coronavirus, Alexander si sposta su una riflessione più ampia e probabilmente più interessante. Ragiona infatti sulle possibili implicazioni di uno scenario come quello immaginato, e sulle evoluzioni degli stili di vita della popolazione in un mondo in cui le malattie continueranno ad aumentare nel tempo. In genere l’assistenza sanitaria migliora più rapidamente dell’evoluzione delle malattie, e quindi ogni anno le perdite nette in termini di morti per malattie infettive tendono a diminuire. «Ma solo perché stiamo vincendo la gara non significa che vinciamo ogni tappa», e ogni tanto nuove malattie si aggiungono e diventano permanenti.

Il coronavirus diventerà parte della nostra vita quotidiana, e sarà una gran rottura. Mi aspetto che le persone se ne preoccuperanno tanto quanto si preoccupano dell’influenza ora, cioè non molto. Ma non sono sicuro di come andrà a finire. Dovrà esserci un momento in cui le restrizioni diminuiranno e resteranno allentate. E spero che questo avvenga in conseguenza di un graduale aumento delle vaccinazioni e una graduale diminuzione dei contagi, e non come una resa incondizionata dovuta al fatto che non riusciamo ad agire tutti insieme e lo stress per le nuove varianti resistenti al vaccino diventa insostenibile.

Alcuni dei suoi pazienti, racconta Alexander, temono che il lockdown non finirà mai. In molti casi è un pensiero psicotico o motivato da un secondo fine. «Ma si sbagliano certamente al cento per cento?», si chiede. È possibile che alcuni dei cambiamenti a cui stiamo assistendo da ormai un anno siano permanenti. Di sicuro ci sono aziende che hanno ragionato su questa ipotesi, quando hanno messo in conto per i loro dipendenti la possibilità di lavorare da casa per sempre.

Alexander fa una previsione sulle mascherine e sostiene che continueremo a utilizzarle nei posti affollati quando siamo malati (poco meno del dieci per cento delle persone per strada a San Francisco nel 2022, secondo lui), come avveniva peraltro già in molte zone dell’Asia anche prima della pandemia. Inoltre alcuni ristoranti potrebbero non riaprire mai più o riaprire soltanto per gestire le consegne a domicilio. E servizi come DoorDash, Uber Eats e Deliveroo continueranno a espandere le loro quote di mercato. Il ricorso alla telemedicina ove possibile potrebbe diventare stabile, soprattutto ora che questa modalità è stata esplorata mantenendo soddisfacenti livelli di sicurezza ed efficienza.

Detto questo, passiamo alle vere paranoie. E se non ci fossero mai più concerti rock o festival musicali? E se venisse per sempre richiesto di indossare le mascherine, perché ci sarà sempre un po’ di coronavirus, di influenza o di raffreddore in circolazione? Penso che le possibilità siano veramente basse, meno dell’un per cento. Ma è perché io detesto dire zero per cento.

I ragazzini di scuola giravano per la città da soli o in gruppetti di amici, per giocare e andarsene a zonzo. Poi arrivò la volta degli attacchi di panico per i rapimenti dei bambini e la gente disse che i bambini dovevano rimanere tutto il tempo a vista dei loro genitori. Ora la criminalità è in calo, e la gente ha smesso di farsi prendere dal panico per i rapimenti, ma chiamano ancora la polizia se vedono un bambino incustodito, semplicemente perché non si lasciano i bambini incustoditi. Ci sono cucine di interi paesi del mondo le cui basi derivano ancora da bizzarre decisioni prese per ragioni di razionamento ai tempi della Seconda guerra mondiale. Ora non voglio che accada una cosa del genere, ma non volevo nemmeno che la sorveglianza permanente fosse normalizzata dopo l’11 settembre.

La riflessione di Alexander si conclude con l’augurio che i governi possano definire in tempi rapidi quadri normativi tali da garantire che un vaccino annuale per il coronavirus, che protegga contro le nuove varianti, arrivi negli studi medici in tempo per l’inizio della stagione delle malattie invernali. La sua previsione è che a un certo punto del 2021, con una probabilità del 50 per cento, la Food and Drug Administration (FDA, l’agenzia federale statunitense che si occupa di farmaci) concederà alle case farmaceutiche un’approvazione generale del vaccino «adattabile» alle varianti del virus senza che questo implichi di ripetere l’intera procedura di approvazione. E questo farà sì che, secondo la sua previsione, tra la creazione del vaccino e l’approvazione per l’uso generale passeranno meno di tre mesi.

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