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  • Venerdì 24 luglio 2020

Si litigava per le mascherine anche durante l’influenza spagnola

Erano raccomandate e in alcuni casi obbligatorie, ma spesso osteggiate: a San Francisco nacque la Lega anti-mascherine

Sui tram di Seattle, nello stato di Washington, si poteva salire solo con la mascherina, in teoria, ottobre 1918
( © JT Vintage/Glasshouse via ZUMA Wire /ANSA)
Sui tram di Seattle, nello stato di Washington, si poteva salire solo con la mascherina, in teoria, ottobre 1918 ( © JT Vintage/Glasshouse via ZUMA Wire /ANSA)

Le mascherine sono diventate uno dei simboli dell’epidemia da coronavirus: indossarle è un gesto condiviso da milioni di persone in tutto il mondo, è uno dei modi più facili ed efficaci che abbiamo per prevenire la malattia ma è diventato, in alcuni paesi, l’occasione di un forte scontro politico. In Italia c’era stata una iniziale confusione, creata dalla comunità scientifica e dalle autorità che le avevano definite inefficaci o addirittura dannose, ma da quando la loro utilità è stata dimostrata non sono mai state più messe in dubbio dalla classe politica (anche se il leader della Lega Matteo Salvini è stato rimproverato più volte per non averle usate correttamente) e sono diventate obbligatorie in alcuni casi da inizio aprile.

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In altri paesi però incontrano un certo rifiuto: vale per i paesi del Nord Europa, dove il minor numero di morti non ha comunicato un senso di emergenza, e soprattutto negli Stati Uniti, dove indossarle è diventato un gesto di appartenenza politica: il presidente Donald Trump ne ha lungamente svilito l’uso e si è presentato raramente in pubblico portandone una mentre i Democratici si sono raccolti attorno allo slogan “wear a mask”, diventato un messaggio di responsabilità civile contro l’egoismo e l’incompetenza del presidente e dei Repubblicani. A livello locale sono in corso scontri tra politici Democratici che vorrebbero imporle, e altri Repubblicani che si oppongono.

Non è la prima volta che le mascherine diventano il simbolo della lotta a un’epidemia e il terreno di scontro, anche violento, tra chi è favorevole a indossarle e chi no, per ragioni diverse: era già successo ai tempi dell’influenza spagnola, che si diffuse in tutto il mondo dal gennaio del 1918 al dicembre del 1920, causando tra 50 e 100 milioni di morti su una popolazione di 2 miliardi di persone.

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A leggere i giornali e i racconti dell’epoca, le misure per contenerla ricordano quelle prese per il coronavirus. In Italia, l’isolamento e la quarantena furono rispettati scrupolosamente solo dalle truppe dell’esercito (era infatti in corso la Prima guerra mondiale, terminata l’11 novembre del 1918). Nell’autunno del 1918 le autorità locali chiusero le scuole, i teatri e i cinema, ordinarono disinfezioni di strade, telefoni pubblici e stazioni ferroviarie; erano sconsigliati abbracci, baci e strette di mano e c’erano campagne che invitavano a non sputare in strada ma a usare fazzoletti di carta o stoffa. Misure simili, tra cui i divieti di adunanze e manifestazioni, vennero prese in molti altri paesi e si diffusero anche le mascherine, come testimoniano molte fotografie del tempo. Erano molto diverse da quelle di oggi ed erano fatte sostanzialmente di strati di garza e cotone.

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Gli Stati Uniti, dove la spagnola venne osservata per la prima volta nel gennaio del 1918 in Kansas, furono il paese in cui si registrò, il 4 marzo, il primo morto accertato: il cuoco Albert Gitchell, che si era ammalato a Fort Riley, un centro di addestramento dell’esercito, sempre in Kansas. In mancanza di vaccini e medicine, i singoli stati approvarono misure per rallentare la diffusione dell’epidemia: chiusero le scuole e i negozi, vietarono gli assembramenti pubblici, si cercò di isolare i malati e metterli in quarantena; alcune città raccomandavano ai cittadini di indossare una maschera in pubblico.

Le misure più stringenti arrivarono nell’ottobre del 1918, quando la situazione era diventata drammatica per il numero di morti e contagi, e riguardavano anche l’uso della mascherina. L’Ufficio per la salute pubblica nazionale stampò dei volantini che invitavano tutti a indossarla, volontari della Croce Rossa le cucivano e distribuivano gratuitamente vista la difficoltà a reperirle e i giornali pubblicavano istruzioni su come farle da sé o donarle. Sempre la Croce Rossa consigliava di non frequentare chi aveva tosse e raffreddore, non andare in posti poco ventilati, non condividere bicchieri e asciugamani, non stancarsi e preoccuparsi troppo, restare a casa in caso di raffreddore e indossare una mascherina nei luoghi chiusi.

Come anche oggi, la mascherina diventò un accessorio alla moda: nell’ottobre del 1918 il Seattle Daily Times scriveva, per esempio, che «le donne di Seattle indossano mascherine in maglia fine con i bordini di chiffon per tenere lontana la malattia». Probabilmente non servivano a molto, e l’efficacia delle protezioni fatte di garza stratificata era messa in discussione dalla comunità scientifica di allora. Un requisito era perlomeno indossarle correttamente, non lasciando scoperto il naso o praticando dei fori per fumare, come accadeva a Phoenix, in Arizona.

Intanto a ottobre molti stati e città fecero grosse campagne per convincere i cittadini a indossare le mascherine nei luoghi pubblici o in caso di ritrovo; furono soprattutto gli stati dell’ovest, in particolare la California, lo Utah e Washington. All’inizio era visto come un gesto patriottico e necessario a proteggere i soldati in guerra e venne sostenuto dalla popolazione. Annunci della Croce Rossa, per esempio, sostenevano «che l’uomo, la donna o il bambino che non indossano la mascherina sono pericolosi disertori». Il sindaco di San Francisco, James Rolph, disse che «la coscienza, il patriottismo e la salvaguardia personale richiedono di essere subito e rigidamente realizzate indossando una mascherina» e anche il sindaco di Oakland, John Davie, disse che «è ragionevole e patriottico, indipendentemente dalle convinzioni personali di ognuno, proteggere gli altri cittadini in questo modo».

La comunità medica però era convinta che gli appelli al patriottismo non sarebbero bastati e che sarebbe stato necessario imporre alle persone l’uso della mascherina. Molti consigli comunali cercarono di renderne l’uso obbligatorio, ma spesso si spaccarono sull’approvazione perché era ritenuto «autocratico e anticostituzionale», come disse un funzionario di Portland, in Oregon, rifiutando «categoricamente che mi venga messa la museruola come a un cane idrofobo». Dopo molte discussioni, lo Utah decise per esempio di non rendere le mascherine obbligatorie perché si temeva che indossandole le persone si sarebbero sentite al sicuro e avrebbero fatto meno attenzione.

In altre città le mascherine divennero obbligatorie, come a San Francisco, dove chi non le indossava rischiava multe dai 5 ai 200 dollari e brevi periodi in carcere. Molte dovettero affrontare l’aperta e a volte irrisoria ribellione dei cittadini a portarle. Tutti si lamentavano che erano scomode e fastidiose e molti cercavano degli espedienti per evitarle. A Seattle gli autisti dei tram facevano salire i passeggeri anche senza mascherina, a Denver i negozianti facevano lo stesso con i loro clienti: qui, scriveva un giornale locale, la norma «era quasi del tutto ignorata dalle persone, ed era motivo di grandi risate». Venne modificata e resa obbligatoria solo per gli autisti, che minacciarono allora di scioperare; si parlò di allargare ulteriormente l’obbligo e la popolazione minacciò un nuovo sciopero. Alla fine Denver affrontò l’epidemia senza alcuna misura protettiva.

A Tucson, Arizona, venne organizzato un «tribunale dell’influenza», come lo chiamò un giornalista locale, che si occupava dei casi di persone accusate di non aver indossato una mascherina o di non averlo fatto correttamente. I giudici dovevano ascoltare le giustificazioni degli imputati e decidere se multarli comunque di 10 dollari; una delle giustificazioni era che la mascherina era a lavare, un’altra che il proprietario desiderava «il rapido privilegio di una boccata d’aria fresca».

In California le cose non andavano meglio. A Oakland vennero assoldati 300 volontari per segnare i nomi e gli indirizzi di chi violava l’obbligo di indossare la mascherina. A Sacramento il capo della polizia ordinò agli agenti di pattugliare le strade e portargli chi trovavano a viso scoperto: in 20 minuti le stazioni di polizia furono sommerse di trasgressori.

A San Francisco la mascherina fu resa obbligatoria per la prima volta da ottobre a fine novembre 1918. La disobbedienza fu tale che le carceri si ritrovarono piene e i giudici dovettero fare le ore piccole e lavorare nei weekend per smaltire il lavoro. A ottobre un ufficiale del Consiglio della sanità sparò a una gamba e a una mano a un uomo che si era rifiutato di indossare la mascherina; l’uomo fu prima portato in ospedale e poi arrestato per aver disobbedito all’ordine. I danni dell’economia iniziavano a farsi sentire, i negozianti chiedevano di poter riaprire, vennero organizzate le prime proteste della Lega anti-mascherine, la Anti-Mask League, che chiedeva la fine immediata dell’obbligo di indossarle.

A inizio 1919 l’epidemia si presentò in una seconda ondata e il 17 gennaio il Consiglio cittadino approvò di nuovo l’obbligo di indossare le mascherine. Questa volta l’opposizione fu ancora più decisa e accusò la norma di essere una violazione delle libertà civili: il 25 maggio la Lega organizzò una manifestazione a cui parteciparono 2.000 persone, tra cui medici e anche un membro del Consiglio cittadino. Il primo febbraio, l’obbligo venne ritirato su parere del Consiglio di sanità.

Ancora oggi, non è chiaro quanto siano servite le mascherine per contenere l’influenza spagnola; si sa però che le città che imposero qualche forma di misura restrittiva se la cavarono meglio delle altre. Man mano che la situazione rientrava nella normalità, i divieti agli assembramenti vennero ritirati in tutto il paese e lasciarono gradualmente il posto a incontri, cene, eventi mondani, fino alle feste sregolate dei “ruggenti” anni Venti.