Come ha fatto il Veneto

Zone rosse, chiusure tempestive di ospedali, tanti test e pochi ricoveri: la regione che ha contenuto meglio il coronavirus in Italia aveva cominciato ad attrezzarsi già a gennaio

Riva degli Schiavoni a Venezia il 9 marzo (Marco Di Lauro/Getty Images)
Riva degli Schiavoni a Venezia il 9 marzo (Marco Di Lauro/Getty Images)

Quando furono segnalati i primissimi casi di contagio da coronavirus in Italia, tutto il paese imparò a conoscere il nome di Vo’, il piccolo comune in provincia di Padova dove viveva la prima persona morta ufficialmente di COVID-19 sul territorio nazionale. Insieme a Codogno, quello di Vo’ fu identificato come il focolaio italiano dell’epidemia, e per giorni la preoccupazione per la situazione in Veneto fu molto alta, al pari di quella per la Lombardia e l’Emilia-Romagna, le regioni che da subito sembrarono più coinvolte.

A quasi due mesi dall’inizio ufficiale dell’epidemia la situazione in Veneto rimane seria, ma i dati mostrano che il coronavirus ha fatto molti meno danni che altrove, comprese regioni dove il grosso dei contagi è arrivato con giorni o settimane di ritardo. Nonostante il Veneto sia la quarta regione per morti accertati di COVID-19, con 940 decessi, ci sono altre regioni – Liguria e Marche – che ne contano soltanto poche decine in meno. La differenza è che il Veneto, per come ha testato la popolazione, può contare su dati più affidabili per avere una rappresentazione della reale estensione del contagio e dei decessi, cosa che non si può dire per la maggior parte delle altre regioni.

Questo risultato è stato possibile grazie ad alcune decisioni tempestive dopo la scoperta dei primi casi, ma anche ad altre prese per prudenza prima che il coronavirus fosse scoperto in Italia. Dietro ad alcune delle decisioni più importanti prese dal Veneto c’è stato Andrea Crisanti, microbiologo dell’Università di Padova che dirige uno dei più importanti e rispettati laboratori di microbiologia d’Italia. Ancor prima della scoperta del coronavirus in Italia, infatti, su suggerimento di Crisanti e degli altri consiglieri scientifici, la regione decise che avrebbe investito soldi e risorse per garantirsi la possibilità di fare test per rilevare il coronavirus. Quella decisione, insieme ad alcune altre altrettanto importanti, è alla base di quello che oggi viene definito “modello veneto”.

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Zona rossa
Sabato 22 febbraio, il giorno dopo il primo decesso per COVID-19 accertato in Italia, il governo firmò un decreto per rendere Vo’ e Codogno “zone rosse”, impedendo l’entrata e l’uscita delle persone. L’ospedale di Schiavonia, in provincia di Padova, dove avvenne la prima morte, era stato chiuso la sera precedente. La mancata dichiarazione della zona rossa a Bergamo, così come la riapertura dell’ospedale di Alzano Lombardo poche ore dopo la scoperta dei pazienti infetti, sono considerate oggi tra gli errori principali che hanno portato al disastro della Val Seriana.

Un militare dell’esercito a un posto di blocco fuori Vo’, il 24 febbraio (ANSA/NICOLA FOSSELLA)

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Test
Ma la preparazione del Veneto al coronavirus era cominciata in realtà molto prima. Il 20 gennaio, cioè pochi giorni dopo che l’OMS aveva diffuso i primi protocolli per i test per rilevare il SARS-CoV-2, registrato fino a quel momento soltanto in Cina, Crisanti informò la direzione sanitaria della regione che avrebbe fatto un acquisto per assicurarsi i reagenti sufficienti per analizzare circa 500mila tamponi per il coronavirus.

«Era il nostro compito istituzionale, visto che siamo un riferimento in Italia», ha spiegato Crisanti al Post. Il vantaggio del laboratorio di Padova fu che aveva le certificazioni e gli strumenti necessari per produrre autonomamente quei reagenti, gli stessi che oggi scarseggiano in Italia e che limitano fortemente la capacità di analisi di test dei laboratori. Nonostante l’approvvigionamento con largo anticipo, e nonostante l’autoproduzione, a un certo punto dell’epidemia il Veneto è stato comunque a corto di reagenti, accumulando un certo ritardo nell’analisi dei tamponi ma riuscendo poi a risolverlo. 

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«All’inizio abbiamo usato le macchine in laboratorio, che bastavano per 200-300 test al giorno», ha spiegato Crisanti. «Poi vista la richiesta abbiamo aumentato, all’inizio con i turni per coprire 24 ore, poi aprendo un’altra linea arrivando a una media l’altra settimana di 2.500 tamponi al giorno». Ma gli sforzi dell’amministrazione regionale per aumentare la capacità di test al laboratorio di Padova non finirono lì: Crisanti dice che alla fine di marzo il suo laboratorio è riuscito ad acquistare una macchina di produzione statunitense in grado di analizzare fino a 9.000 tamponi al giorno, cioè più o meno quanti ne elabora l’intero sistema di laboratori lombardi nello stesso arco di tempo. 

«L’abbiamo ordinata ed è arrivata in 2 o 3 giorni, e poi una settimana dopo sono arrivati i supporti di plastica necessari per le analisi», ha detto Crisanti. La macchina permette di risparmiare quattro quinti dei reagenti normalmente necessari, permettendo anche una riduzione dei tempi. 

Oggi il Veneto ha analizzato oltre 216mila tamponi per il coronavirus, poche migliaia in meno di quelli della Lombardia. Nell’ultima settimana la media è stata di circa 7.900 tamponi al giorno, più o meno la stessa della Lombardia. La differenza è che il Veneto ha meno di cinque milioni di abitanti, la Lombardia più di dieci. E soprattutto, il Veneto ha scoperto meno di 15mila contagi e registrato 940 morti, la Lombardia oltre 62mila contagi e oltre 11mila morti. Per ogni caso scoperto, il Veneto ha fatto 14,8 tamponi, la Lombardia 3,6, l’Emilia-Romagna 5, il Piemonte 4,2. Il Veneto sta quindi testando una percentuale molto più estesa della sua popolazione, “scoprendo” molti più malati di quanto accada in Lombardia.

Da settimane i racconti raccolti sulla stampa descrivono una situazione in cui, verosimilmente, ci sono nel Nord Italia migliaia e migliaia di persone con sintomi acuti e sospetti che non vengono sottoposti a tampone. In Veneto questo succede molto più raramente: «Li facciamo a tutte le persone che hanno anche solo sintomi leggerissimi, ai familiari e ai contatti certi dei positivi», assicura Crisanti.

I test sugli abitanti di Vo’, il 23 febbraio (ANSA / NICOLA FOSSELLA)

I test in Veneto non sono stati propriamente “a tappeto”, tranne che per alcune zone: come Vo’, dove l’amministrazione regionale guidata dal leghista Luca Zaia accolse la proposta di Crisanti di testare l’intera popolazione subito dopo la scoperta del primo caso. Da quell’analisi risultò che 89 abitanti su circa 3.300 erano positivi, il 3,1 per cento. Quasi la metà erano asintomatici. «I dati di Vo’ erano sotto gli occhi di tutti e non ci si è resi conto che il 3 per cento per un’infezione virale senza nessuna misura di contenimento è come avere una bomba innescata», ha detto Crisanti in un’intervista su YouTube. Per tutti i contagiati di Vo’ le autorità sanitarie registrarono la storia clinica e i contatti, realizzando un accurato studio epidemiologico su uno dei primi episodi di diffusione del coronavirus in Italia, rilevando peraltro che gli asintomatici potevano trasmetterlo tanto quanto i sintomatici.

Negli stessi giorni dei tamponi a Vo’, il consulente del governo ed ex presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi diceva al Corriere della Sera che «la strategia del Veneto non è stata corretta perché ha derogato all’evidenza scientifica» estendendo i test anche agli asintomatici, e creando per questo «confusione e allarme sociale».

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Reagenti autoprodotti
C’è chi ha messo in dubbio l’affidabilità dei reagenti autoprodotti, cioè quelli che stanno rendendo possibili così tanti test in Veneto, rispetto a quelli venduti dalle aziende che producono anche i macchinari che elaborano i tamponi. È quanto detto al Post, per esempio, dal virologo dell’ospedale Niguarda di Milano Federico Perno: «Dare un tampone negativo a un paziente significa cambiare la sua storia diagnostica. Se il reagente autoprodotto non è di qualità, si rischia di inficiare la diagnosi. La qualità è importantissima: nella scienza non avere un risultato è meglio di avere un risultato sbagliato».

Crisanti ritiene invece che spesso questi reagenti possano essere anche di qualità superiore rispetto a quelli delle aziende. Ma soprattutto, «se c’è uno sbaglio di uno ogni mille, in un’epidemia quello che conta sono i numeri: che qualcuno sfugga sta nella logica dei grandi numeri. Se non si fanno i tamponi perché non si accetta un errore dell’1 per mille si è sbagliato strategia». A Padova, in ogni caso, il laboratorio aveva organizzato sotto la lunga direzione precedente del virologo Giorgio Palù un sistema di certificazione interna per i reagenti autoprodotti, accreditata anche dagli enti europei: un processo che richiede tempo e che, nel caso di Padova, era avvenuto molto prima dell’epidemia.

Conformazioni diverse
A giocare un ruolo importante nel successo veneto nel contenimento dell’epidemia hanno contribuito anche fattori socio-morfologici: cioè un territorio più rurale e meno urbano della Lombardia, caratterizzata da città medio-grandi e alta densità abitativa. La Val Seriana, con i suoi chilometri ininterrotti di capannoni e il suo intenso traffico commerciale, è stata non a caso una delle aree dove il coronavirus si è diffuso più estesamente. «Codogno e Lodi sono città dove si vive in condominio, Vo’ è un paesino sui Colli Euganei», ha spiegato al Corriere della Sera Palù,  che è stato per decenni a capo del laboratorio di microbiologia di Padova prima che l’anno scorso gli succedesse Crisanti.

Venezia il 9 marzo (Marco Di Lauro/Getty Images)

Ricoveri
Un’altra caratteristica fondamentale della gestione veneta dell’epidemia è stato l’approccio ai ricoveri ospedalieri. Il Veneto, come tutte le regioni, ha ampliato i reparti di terapia intensiva con diverse centinaia di posti letto, dai circa 500 iniziali. «Ma abbiamo ricoverato meno, perché la politica è stata di ricoverare solo chi aveva bisogno, senza intasare gli ospedali», ha spiegato Crisanti. «Questa battaglia si vince nel territorio e non nelle corsie: ricoverare le persone che potevano essere gestite a casa era dannoso per l’ospedale stesso».

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Daniele Donato, direttore sanitario dell’Azienda ospedaliera di Padova, ha spiegato al Post che già da domenica 23 febbraio nel suo ospedale – uno dei più grandi d’Italia – furono impartite rigide misure comportamentali per proteggere il personale e assicurarsi coi tamponi che nessun paziente malato di COVID-19 entrasse in contatto con gli operatori e gli altri pazienti. La sorveglianza del personale, che complessivamente è composto da circa 7.200 persone, è proseguita fino a oggi: finora sono risultati positivi soltanto 72 operatori, di cui peraltro 28 erano asintomatici, ha detto Donato.

A oggi il personale che ha a che fare con i malati di COVID-19 viene testato una volta ogni 10 giorni, il resto una volta ogni 20 giorni. Queste precauzioni «hanno permesso di essere un po’ più sicuri che i nostri operatori non abbiano trasmesso la malattia ai pazienti», ha detto Donato. «Non abbiamo avuto focolai negli ospedali, almeno fino ad adesso». Oltre a quelli sul personale, comunque, secondo Donato sono stati fondamentali i tamponi sulla popolazione: «Quando si fa il medico, per prima cosa bisogna fare la diagnosi. Senza tampone si rinuncia alla diagnosi, e si curano solo i sintomi».

Ancora oggi solo il 15 per cento dei pazienti attualmente positivi accertati in Veneto è ricoverato in ospedale, contro il 40 per cento della Lombardia, il 29 per cento del Piemonte e il 27 per cento dell’Emilia-Romagna. Vuol dire che l’85 per cento dei casi attualmente positivi in Veneto è in isolamento domiciliare, mentre in Lombardia la percentuale è del 60 per cento. Analizzando questi dati non va dimenticato che avendo fatto molti più test, il Veneto ha scoperto in proporzione molti più contagi: e quindi le percentuali di ricoverati delle altre regioni si abbasserebbero certamente, se facessero più test.

Nelle fasi iniziali dell’epidemia, però, la differenza tra i ricoverati in proporzione ai casi scoperti era stata ancora maggiore: l’8 marzo la Lombardia arrivò ad avere in ospedale il 78 per cento dei casi di contagio allora accertati; lo stesso giorno il Veneto era al 31 per cento (anche in questo caso va ovviamente tenuta in considerazione la differenza, in proporzione, di tamponi fatti).

Le tende per il pre-triage dei pazienti allestite fuori dall’ospedale di Padova (Cheng Tingting/Xinhua via ZUMA Wire)

Territorio
La sanità contemporanea occidentale da decenni va nella direzione di accentrare le risorse dal territorio – ospedali più piccoli, aziende sanitarie periferiche e soprattutto medici di famiglia – verso le strutture ospedaliere centrali, più grandi, efficienti e competenti. In Italia questa tendenza ha avuto la sua espressione più evidente nella Lombardia, che è diventata un’eccellenza a livello nazionale per le cure specialistiche e per i grandi ospedali. Il Veneto, pur influenzato da questa tendenza, ha mantenuto un maggiore equilibrio tra l’offerta degli ospedali e quella “sul territorio”.

«Il Veneto ha servizi territoriali diffusi, ha presidi territoriali, sistemi epidemici regionali, una rete informatica per i medici di base e i direttori generali dei centri di Igiene Pubblica delle ASL», ha spiegato al Post Palù. «Ha una sanità pubblica al 95 per cento e ha affrontato questo problema dal punto di vista della salute pubblica e non come problema clinico assistenziale». Ha giocato un ruolo importante anche una maggiore tradizione e attenzione della sanità veneta alle epidemie, secondo Palù, che ricorda tra le altre cose che fu la Repubblica di Venezia ad allestire il primo lazzaretto del mondo nel Quattrocento.

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«Quando un evento del genere coglie un sistema sanitario il modo in cui è organizzato influenza moltissimo la risposta: in Lombardia tutto è basato sull’eccellenza di terapie e sulla ospedalizzazione, sulle diagnosi avanzate, ed è molto privatizzato», ha spiegato Crisanti. «Questo sistema peraltro lo abbiamo voluto, e ne eravamo tutti orgogliosi. Ma aveva trascurato la medicina sul territorio e in un’epidemia queste cose si vedono. Solo che un’epidemia non era mai capitata, finora».

Piazza delle Erbe a Verona il 29 marzo. (ANSA / FILIPPO VENEZIA)

«Non è il paese dei balocchi»
La situazione “sul territorio” è quella che devono gestire da quasi due mesi i medici di famiglia di tutta Italia, con grandi difficoltà. Quelli veneti, nonostante la maggiore efficienza da questo punto di vista del sistema regionale, «sono stati maltrattati come tutti gli altri», ha spiegato Domenico Crisarà, rappresentante della sezione regionale della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale. In certe province i medici hanno fatto il tampone con grande ritardo o non lo hanno fatto tuttora, dalle ASL sono arrivate istruzioni difficili da capire o contraddittorie, e in generale non hanno ricevuto nessuna fornitura di dispositivi di protezione, come mascherine e camici, ottenuti grazie alle donazioni private e all’iniziativa personale.

«Non è stato il paese dei balocchi», ha detto Crisarà, secondo cui anche in Veneto è successo che i medici non riuscissero a far fare il tampone ai propri pazienti sospetti. La differenza, secondo Crisarà, è stata che «i colleghi lombardi sono stati lasciati a sé stessi», mentre in Veneto «siamo stati coinvolti fin dal primo momento». Nella regione il rapporto tra i medici di famiglia e le ULSS (le ASL del Veneto) è storicamente piuttosto efficiente, ha spiegato Crisarà. Questo perché i medici hanno rapporti e canali di comunicazione con i singoli distretti sociosanitari, strutture che presero il posto delle ASL locali quando vennero accorpate nel 2017, passando da 21 a 9.

Quella che in gergo medico viene chiamata “continuità assistenziale” tra ospedale e territorio, cioè il sistema che si occupa del paziente in tutte le fasi fuori dall’ospedale, è regolata in Veneto da una Centrale Operativa Territoriale in seno a ogni ULSS, e che nell’emergenza della COVID-19 ha messo a disposizione delle mail a cui i medici potevano richiedere il tampone, ha spiegato Crisarà. «Se si riteneva che un tampone dovesse essere fatto, avevamo i canali per chiederlo anche senza seguire le vie burocratiche. Questo lavoro, insieme alla fiducia che ci accordano i pazienti, ha consentito di tenere a casa la gente senza mandarla in ospedale».