«Ci aspettavamo l’alta marea, è arrivato uno tsunami»

Come l'arrivo del coronavirus ha travolto gli ospedali della Lombardia, e creato un'emergenza che nessuno un mese fa nemmeno ipotizzava

Reparto di terapia intensiva di Brescia (Claudio Furlan - LaPresse)
Reparto di terapia intensiva di Brescia (Claudio Furlan - LaPresse)

Fino alla notte tra il 21 e il 22 febbraio all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo non c’era stato alcun caso accertato di coronavirus. In Italia la prima persona risultata positiva al test era stata ricoverata il giorno prima a Codogno, in provincia di Lodi: era il cosiddetto “paziente 1”.

I medici di Bergamo, così come quelli della stragrande maggioranza degli ospedali lombardi, erano stati avvisati della possibilità dell’arrivo di persone infette. Per individuarle, le direzioni sanitarie avevano stabilito alcuni criteri: il paziente doveva mostrare particolari sintomi, come febbre e difficoltà respiratorie, e doveva avere fatto di recente un viaggio in Cina, o avere avuto contatti con qualcuno tornato da poco dalla Cina. L’ipotesi di un focolaio italiano ancora non c’era, e quella di un’epidemia non era presa sul serio praticamente da nessuno.

All’ospedale di Bergamo i primi due pazienti poi risultati positivi al tampone del coronavirus sono entrati in pronto soccorso a poche ore di distanza l’uno dall’altro, tra il 21 e il 22 febbraio.

Il primo paziente, arrivato nella notte, è rimasto in pronto soccorso per diverse ore. È entrato in contatto con medici e infermieri di due turni diversi che non indossavano alcun tipo di protezione specifica, quando ancora non erano stati predisposti reparti appositi per i pazienti affetti da COVID-19, la malattia causata dal coronavirus. L’idea prevalente era che, anche se fossero arrivati casi positivi, la situazione sarebbe rimasta sotto controllo.

Le cose però sono andate diversamente. «Tutti noi all’inizio abbiamo pensato che potesse essere un allarme transitorio», ha detto il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, in un videomessaggio dell’8 marzo in cui riconosceva il collasso delle strutture sanitarie della città: «Dobbiamo pensare che la nostra vita sia cambiata da oggi, almeno per qualche settimana».

Per l’ospedale di Bergamo l’emergenza causata dal coronavirus è iniziata il 22 febbraio. È passato un mese, e da allora le cose sono solo peggiorate.

Murale su una parete dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo (Claudio Furlan/LaPresse)


All’ospedale di Bergamo, così come negli ospedali di Lodi, Cremona, Crema, San Donato, Brescia, tra gli altri, l’arrivo di pazienti sospetti positivi o risultati positivi al coronavirus ha cambiato tutto.

Interi reparti – interi piani in alcuni casi – sono stati “convertiti” a spazi destinati ai pazienti positivi, dopo avere trasferito altrove gli altri malati. I posti di terapia intensiva, quelli riservati ai pazienti più gravi, sono stati raddoppiati, triplicati, quadruplicati, o più. Medici di altre specialità – dermatologi, urologi, cardiologi, per dirne alcuni – sono stati spostati a seguire i pazienti con la COVID-19 meno gravi, quelli sottoposti a ventilazione non invasiva (non intubati), dopo avere seguito corsi di formazione messi in piedi in fretta e furia dalle direzioni sanitarie. Infermieri di altri reparti hanno dovuto imparare un mestiere diverso dal proprio, ed è peggiorata radicalmente anche la condizione dei pazienti, isolati senza la possibilità di ricevere visite dei familiari.

«Ci aspettavamo l’alta marea, è arrivato uno tsunami», ha detto Luca Di Girolamo, 32 anni, anestesista rianimatore di San Donato Milanese (sud di Milano), descrivendo l’impatto dell’arrivo dei pazienti positivi nel suo ospedale. È successo a San Donato, ma anche in molti altri ospedali della regione, travolti da un giorno all’altro dalla peggiore emergenza sanitaria dell’Italia repubblicana.

Il Post ha parlato con sei medici anestesisti di altrettanti ospedali lombardi e con infermieri e medici di specialità diverse da quella di anestesia e rianimazione. Quasi tutti hanno chiesto di rimanere anonimi a causa delle politiche molto restrittive imposte dalle singole direzioni sanitarie, che hanno ordinato al loro personale di ridurre al minimo i contatti diretti con la stampa.


Fin dai primi giorni dell’epidemia, i medici e gli infermieri di turno al pronto soccorso dei loro ospedali si sono trovati di fronte molte persone che presentavano sintomi simili, tra cui febbre e difficoltà respiratorie. Il primo problema è stato riuscire a garantire a tutti assistenza medica creando nuovi spazi completamente isolati all’interno degli ospedali, in modo da impedire il contatto tra pazienti con e senza coronavirus. Il secondo è stato riuscire a fare tutto questo molto, molto in fretta.

Alcuni reparti, tra cui quelli di terapia intensiva, sub-intensiva e malattie infettive, sono stati subito individuati per farsi carico dell’arrivo dei nuovi pazienti.

I medici anestesisti sentiti dal Post hanno raccontato che i piani iniziali per i pazienti con coronavirus prevedevano di liberare solo pochi posti letto nelle terapie intensive. Nessuno pensava a un’emergenza.

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Tutti i piani iniziali si sono rivelati inadeguati nel giro di pochi giorni, a volte di poche ore. «Il primo giorno è stato fatto un piano per liberare alcuni posti letto. Non c’è stato nemmeno il tempo di applicarlo, quel piano, che è stato superato da un secondo, e poi da un terzo, e così via», ha raccontato Di Girolamo, riferendosi a quello che è successo all’ospedale di San Donato Milanese, dove pure l’emergenza è cominciata solo all’inizio di marzo.

Con l’arrivo di pazienti positivi, la struttura e l’organizzazione del lavoro di diversi ospedali delle province più colpite sono state completamente ribaltate. Una a una, le terapie intensive sono state svuotate dai malati precedentemente ricoverati e dedicate esclusivamente al coronavirus, così come le sale operatorie, i saloni di pronto soccorso, gli spazi per unità specializzate e diversi altri reparti.

Stefania Bonaldi, sindaca di Crema, ha raccontato come l’epidemia di coronavirus abbia preso alla sprovvista anche le autorità sanitarie locali, che per diversi giorni avevano cercato di minimizzare quello che stava succedendo per evitare di provocare il panico. Ancora il 23 febbraio, due giorni dopo l’inizio dell’emergenza in città, Bonaldi aveva chiesto alle autorità sanitarie se fosse consigliabile cancellare la sfilata che si tiene tutti gli anni in centro in occasione del Carnevale, alla quale assistono migliaia di persone. Le era stato detto di no. Bonaldi, contro il loro parere, aveva comunque deciso di cancellare l’evento.

L’impressione, hanno raccontato medici e infermieri coinvolti, è stata di essere investiti dall’emergenza: di essersi trovati impreparati, ogni giorno alla ricerca di nuovi posti letto, nuovi spazi, nuovi ventilatori e nuove energie. Sempre in rincorsa.

Oggi a Bergamo tutte le terapie intensive dell’ospedale sono destinate ai pazienti più gravi positivi al coronavirus: i pazienti intubati sono più di 80, un numero altissimo. In ospedale a Crema, ha raccontato la sindaca Bonaldi, ci sono quasi esclusivamente pazienti con COVID-19, e i posti non bastano. Da qualche giorno sono arrivati 53 tra medici e infermieri cubani a dare una mano, accolti come salvatori. A Brescia due delle tre strutture dell’azienda Spedali Civili, quella di Montichiari e quella di Gardone Val Trompia, sono state destinate ai soli pazienti con coronavirus – si parla di circa 250 posti letto – mentre l’ospedale di Brescia città, il più grande, è arrivato ad avere oltre 50 posti di terapia intensiva per pazienti intubati. Sono numeri mai visti in tempi “di pace”.

Medici cubani prima di partire per l’Italia a L’Avana, 21 marzo 2020 (EPA/ARIEL LEY ROYERO)

Altri ospedali erano già al collasso, come Lodi e Cremona. E anche in quelli dove l’emergenza deve ancora arrivare sono state prese misure straordinarie e urgenti. Per esempio al Policlinico di Milano, che finora ha ricevuto per lo più pazienti trasferiti da altre strutture, è stata riconvertita in tempi brevissimi la palazzina De Palo, un grande container che da cinque anni ospitava il centro per le malattie rare: oggi è destinata ai pazienti con COVID-19.

A cambiare radicalmente non è stata però solo l’organizzazione degli spazi negli ospedali. È cambiato anche il lavoro di molti anestesisti, che oggi, in tempi straordinari, sono costretti a prendere decisioni straordinarie.


A San Donato, dove lavora Di Girolamo, c’è un turno che nessun anestesista vuole fare. È quello dell'”explorer”, come lo hanno soprannominato alcuni medici dell’ospedale, e consiste nel girare nei reparti pieni di pazienti positivi al coronavirus per controllare le loro condizioni di salute, e in alcuni casi stabilire chi ha necessità di essere intubato nel caso si liberi un letto in terapia intensiva. È un lavoro complicato – «il più complicato», dice Di Girolamo – anche dal punto di vista umano, che gli anestesisti di San Donato cercano di affidare per lo più a medici con esperienza.

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Questo tipo di lavoro, hanno detto alcuni anestesisti sentiti dal Post, è ugualmente temuto anche in altri ospedali, dove le terapie intensive sono occupate da pazienti intubati e i reparti ospitano decine – a volte centinaia – di persone assistite da ventilazione non invasiva; alcune delle quali avrebbero bisogno di un posto in terapia intensiva, di essere intubate: ma il posto per tutti non c’è.

Vale la pena ribadirlo: il posto per tutti non c’è.

Questo è un grafico di Matteo Villa, analista dell’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale), che dall’inizio dell’epidemia sta seguendo con attenzione il problema delle terapie intensive della Lombardia. Il 21 marzo, due giorni fa, i posti letto rimasti liberi in tutta la regione erano tre.

Nelle ultime settimane i direttori dei reparti di terapia intensiva, anche quelli degli ospedali più colpiti, hanno smentito in maniera netta le ricostruzioni che dicevano che i medici sono costretti a decidere “chi vive e chi muore”, quella cosa che in modo un po’ spiccio viene definita “triage“. Da questo punto di vista, aveva fatto molto discutere un tweet del sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, che il 10 marzo aveva scritto che «non ci sono più posti» in terapia intensiva e che «i pazienti che non possono essere trattati sono lasciati morire».

I medici sentiti dal Post che lavorano in alcuni degli ospedali più colpiti hanno parlato di una situazione in continua evoluzione, e molto più complessa di come la descrivono pubblicamente i direttori di anestesia.

La maggior parte delle decisioni che i rianimatori hanno preso nelle ultime settimane non sono poi così diverse da quelle prese in tempi normali. Di solito il ricovero in terapia intensiva implica trattamenti invasivi e molto debilitanti, che non tutti i pazienti possono sopportare: in alcuni casi particolari, per esempio con pazienti anziani o fragili, per il bene del paziente e in accordo con i principi etici della professione, il rianimatore decide di non procedere al ricovero.

Nella situazione attuale di emergenza il principio è lo stesso ma la sua applicazione è più estrema, a causa dell’enorme pressione per la mancanza di posti letto e di risorse.

In alcuni casi i rianimatori si sono trovati a decidere chi trattare tra pazienti che in condizioni normali sarebbero stati tutti adatti alla terapia intensiva. La priorità a ricevere il trattamento invasivo, quello che richiede l’intubazione, è stata data quindi ai più giovani e a chi aveva più probabilità di sopravvivenza. Alcune volte non c’è stato nemmeno il tempo per prendere le decisioni, perché quando non hai anestesisti a sufficienza, o ventilatori a sufficienza, e ritardi l’intervento di qualche ora, il paziente peggiora: e con le polmoniti più gravi provocate dal coronavirus peggiora molto rapidamente, fino a non poter essere più rianimato.

«La differenza è che in tempi normali per alcuni pazienti uno dice “ci provo”. Oggi non si può più fare, non ci sono le possibilità», ha detto al Post un anestesista che lavora in un ospedale della provincia di Milano, dove la situazione è precipitata quando ai pazienti trasferiti da altri ospedali si sono aggiunti i positivi da coronavirus della zona.

«Devi adattare le risorse che hai alla realtà, e rispetto a quello che si fa di solito nel nostro paese i criteri sono un po’ cambiati, almeno nel nostro ospedale», ha detto un’anestesista rianimatrice che lavora in provincia di Bergamo: «Se hai un paziente con insufficienza respiratoria che sta peggiorando molto, nella situazione in cui siamo ora non puoi giocare d’anticipo e intubarlo precocemente, per evitare un ulteriore peggioramento. Devi aspettare, perché magari in quel momento c’è un altro paziente che ha la priorità. E aspettare troppo tempo può peggiorare ancora di più le condizioni del polmone e ridurre le possibilità di sopravvivenza».


A subire gli effetti dell’emergenza coronavirus, però, non sono stati solo gli anestesisti e i rianimatori, ma anche gli infermieri e diverse altre categorie di medici, che in alcuni ospedali – come Crema, Cremona, Bergamo e Brescia – si sono trovati costretti a imparare una montagna di cose nuove in pochissimo tempo.

Salone allestito per il pre-triage agli Spedali Civili di Brescia (Furlan/Lapresse)

Gli infermieri che lavorano in terapia intensiva, così come succede con gli anestesisti, quando entrano negli stanzoni dedicati ai pazienti con coronavirus devono mettersi protezioni apposite per evitare il contagio: un paio di sovrascarpe, una cuffietta di plastica, un paio di guanti, occhiali protettivi, mascherina specifica, e un sovracamice da indossare sopra a quello abituale. Fanno turni di 8 ore, ma arrivano anche a 12, e fanno le notti senza potersi mai sdraiare. Si danno la regola di uscire una volta a turno per mangiare qualcosa, andare in bagno o semplicemente togliersi la maschera: una sola volta, perché quando rientrano devono cambiare di nuovo tutto e di mascherine c’è carenza; potrebbero non essercene più per il turno successivo.

«I macchinari sono diversi, le priorità da tenere a mente sono diverse, e sono diversi i parametri da guardare sui pazienti», ha raccontato al Post un’infermiera specializzata nella terapia intensiva di neurologia di un ospedale lombardo, e spostata insieme a tutto il suo gruppo a occuparsi dei pazienti intubati con la COVID-19. «A noi il lavoro lo stanno insegnando gli anestesisti formati nelle insufficienze respiratorie. È complicato, e lo è anche per i medici che sono specializzati in tutt’altro».

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I medici specializzati in tutt’altro sono dermatologi, urologi, ortopedici, cardiologi, radiologi, che in alcuni ospedali sono stati spostati nei reparti a seguire i pazienti con coronavirus non intubati, ma comunque con insufficienza respiratoria moderata, che hanno bisogno di ossigeno in modo costante, o addirittura di caschi CPAP: cioè a fare un lavoro che non è il loro, che porta con sé frustrazioni e tensioni che si aggiungono alla paura di venire contagiati, o di contagiare i propri familiari una volta tornati a casa.

Non è facile fare questo lavoro, anche perché la ventilazione assistita viene applicata per fornire aiuto – o sostituirsi, nei casi più gravi – al sistema respiratorio del malato, che non funziona più come dovrebbe; ma allo stesso tempo provoca traumi ai polmoni, che si aggiungono ai danni già provocati dalla malattia. Serve a prendere tempo, non a curare, e se si sbaglia qualcosa si rischia di fare ancora più danni. Per limitarli bisogna sapere usare gli strumenti e sistemare i parametri sulla base delle esigenze del paziente.

È come avere per le mani un mixer, e regolare i canali per ottenere esattamente il suono che si vuole. E se non si sa usare un mixer? Ecco, diventa tutto più difficile.


La parte più drammatica di quello che sta succedendo, hanno detto tutti i medici e gli infermieri sentiti dal Post, è l’isolamento forzato dei pazienti dai loro familiari.

Nei reparti destinati ai pazienti col coronavirus – sia dentro che fuori dalle terapie intensive – le visite sono completamente vietate: non entra nessuno, per evidenti motivi di sicurezza pubblica. I pazienti ricoverati possono passare giorni, a volte settimane, senza vedere familiari o amici, circondati solo da altri malati e da personale sanitario quasi irriconoscibile, completamente coperto dalle protezioni sanitarie. Tra le altre cose, questo significa che le comunicazioni che solitamente avvengono di persona, soprattutto quelle per informare del peggioramento o della morte di un paziente, ora avvengono per telefono.

«Dare comunicazioni di vita o di morte al telefono è un’esperienza tragica per i parenti, e orribile per noi», ha detto Di Girolamo. «I parenti li hanno visti vivi l’ultima volta, e a volte li ritrovano morti. Da un punto di vista psicologico, le famiglie sono molto più impreparate degli operatori sanitari», ha detto l’anestesista rianimatrice che lavora in provincia di Bergamo.

In situazioni normali non funziona così. Nelle terapie intensive, dove sono ricoverati i pazienti più gravi, i medici hanno particolare attenzione verso i parenti, soprattutto quando il loro familiare sta morendo. I rianimatori si prendono del tempo per spiegare quello che sta succedendo, e perché siano state prese certe decisioni. In molti casi viene permesso ai familiari di rimanere accanto al loro caro fino alla fine – per pregare, raccontare aneddoti, abbracciarsi – un modo per condividere il dolore e renderlo più sopportabile. Oggi non accade più niente di tutto questo.

Per cercare di alleviare l’esperienza in ospedale per pazienti e parenti, i medici e gli infermieri fanno qualche eccezione, dove possibile e solo quando la sicurezza è garantita per tutti.

In alcuni casi, per esempio, è stato permesso a un parente di stare accanto al proprio familiare ricoverato in una terapia intensiva in condizioni gravissime. Riguardo al caso di cui è venuto a sapere il Post, il parente è stato fatto vestire con tutte le protezioni usate anche dai medici ed è stato lasciato per poco meno di un’ora a fianco del suo familiare. Poco dopo, il paziente è morto. «L’uomo», ha detto l’anestesista che ha seguito tutta la procedura, «ha trovato un po’ di sollievo dal fatto di essere lì: sia per avere parlato faccia a faccia con un medico, sia per avere avuto modo di salutare il suo familiare».

In alcune province della Lombardia l’emergenza è iniziata un mese fa, in altre una settimana dopo, in altre ancora – tra cui Milano – potrebbe iniziare presto. Per i medici e gli infermieri, ma anche per molti pazienti, l’emergenza durerà ancora parecchio, continuerà anche quando i numeri dei contagi quotidiani cominceranno a ridursi.

Nessuno sa dire quando le cose torneranno alla normalità, e comunque non sono tanti a chiederselo, tra chi lavora negli ospedali: il tempo per pensarci è poco, le cose da fare sono troppe.