Chi prende le decisioni sui malati di coronavirus

E perché le regioni hanno il ruolo importante che hanno, a livello di gestione oltre che mediatico

Una tenda davanti al Pronto Soccorso dell'ospedale di Piacenza, il 27 febbraio 2020 (Claudio Furlan - LaPresse)
Una tenda davanti al Pronto Soccorso dell'ospedale di Piacenza, il 27 febbraio 2020 (Claudio Furlan - LaPresse)

La diffusione del coronavirus (SARS-CoV-2) in Italia sta mettendo a durissima prova gli ospedali delle regioni con il maggior numero di casi, in particolare quelli della Lombardia, dove si trova più della metà degli oltre cinquemila contagiati e oltre 350 persone sono ricoverate in terapia intensiva perché in condizioni gravi. Il numero di posti nei reparti di terapia intensiva è limitato per ragioni di spazio e risorse (ci dovrebbero essere in media almeno un infermiere e un medico per ogni due pazienti, ma da quando è iniziata l’emergenza questo rapporto non è praticamente mai stato rispettato) e bisogna tenere isolati i pazienti affetti da COVID-19 dalle altre persone ricoverate.

Per questo in Lombardia molti ospedali hanno attrezzato i cosiddetti “blocchi COVID-19” all’interno delle terapie intensive, ed esiste un sistema di smistamento per distribuire i casi gravi nelle strutture che possono accoglierli e accettano di farlo.

Gli ospedali possono decidere autonomamente come gestire i propri reparti di terapia intensiva, ed entro certi limiti anche quali pazienti gravi rifiutare. Questo per via dell’autonomia delle strutture ospedaliere, il cui coordinamento, per come funziona il Servizio sanitario nazionale, avviene a livello regionale. Le autonomie a livello sanitario sono poi la principale ragione per cui l’emergenza legata al coronavirus è gestita in gran parte dalle regioni, operativamente e mediaticamente.

Le autonomie sanitarie e il coronavirus
Il sistema sanitario italiano dipende dal ministero della Salute, che stabilisce i servizi sanitari minimi che devono essere finanziati dai soldi pubblici, ma sono le regioni che devono occuparsi nella pratica di fornire questi servizi. Lo fanno attraverso le aziende sanitarie locali (molto spesso chiamate ASL) e le aziende ospedaliere, cioè gli ospedali indipendenti dalle ASL.

Le aziende sanitarie locali e le aziende ospedaliere, come indica la parola “azienda” nel loro nome tecnico, sono autonome in modo simile alle società private: hanno direttori e un collegio che le gestiscono in modo simile all’amministratore delegato e al consiglio d’amministrazione di una società, e le leggi che ne regolano il funzionamento sono quelle del diritto privato.

Ci sono vincoli che ASL e ospedali devono rispettare (criteri di efficienza e vincoli di bilancio), e devono rispondere alle decisioni regionali in fatto di sanità: in genere sono comunque enti piuttosto autonomi.

Il ministero e le regioni fanno arrivare alle ASL e agli ospedali protocolli a cui attenersi, e nelle ASL e negli ospedali ci si riunisce per discuterne l’applicazione. Le indicazioni del ministero sono generali, perché pensate per adattarsi a diversi contesti: per questo vengono applicate in ciascuna ASL e in ciascun ospedale in modi leggermente diversi a seconda delle risorse e della logistica.

Le indicazioni regionali, invece, possono essere più specifiche: spesso anzi le direttive ministeriali lasciano spazio a precisazioni da parte delle regioni, che quando arriva una circolare dal ministero la recepiscono e poi fanno opportune lievi modifiche prima di girarle alle ASL e agli ospedali.

In alcuni casi sono direttamente le regioni a dare indicazioni operative, per ragioni di tempestività e sulla base della situazione locale: è capitato per esempio nello stabilire chi dovesse essere sottoposto ai test per trovare il virus. Può capitare che ci siano lievi differenze tra le indicazioni del ministero e quelle regionali, e in quel caso le ASL e gli ospedali possono decidere come adattarsi.

Regole, protocolli e adattamenti
Un esempio: in questi giorni il personale sanitario che lavora con le persone positive al coronavirus usa due tipi di mascherine per il volto con filtri.

I filtri per le mascherine sono di diversi tipi: a seconda della loro capacità di filtraggio, l’Unione Europea le classifica come FFP1, FFP2 e FFP3. In questo periodo a medici e infermieri è stato detto di usare le FFP2 o le FFP3, ed è capitato che le diverse indicazioni su quale delle due preferire non fossero univoche: ogni ASL e ospedale però sa quante mascherine di un tipo o dell’altro ha in dotazione e sulla base di questi dati può aver fatto scelte leggermente diverse.

Anche le scelte su come gestire i reparti di terapia intensiva e quando istituire nuovi “blocchi COVID-19” spettano alle amministrazioni ospedaliere: gli ospedali sono strutture complesse ed è necessario conoscere bene la situazione interna per prendere decisioni di questo genere.

Ci sono reparti che si possono facilmente attrezzare per essere isolati dal resto dell’ospedale in cui si trovano – in modo che le persone ricoverate per problemi diversi dalla COVID-19 non siano contagiate dal coronavirus – mentre in alcuni casi può essere più difficile fare certi cambiamenti. Gli ospedali in Lombardia hanno rimandato tutti gli interventi chirurgici programmati che potevano essere rinviati per fare maggior spazio per i pazienti malati di COVID-19, ma ovviamente continuano a esserci persone ricoverate per altre ragioni e ogni ospedale ha i suoi casi specifici.

In Lombardia lo smistamento dei casi gravi da COVID-19 è gestito dall’Unità di crisi per le terapie intensive che lavora a livello regionale. In linea di massima, un paziente con sintomi gravi da COVID-19 viene visitato nella struttura ospedaliera dove è stato trasportato (di solito nell’area di medicina d’urgenza) e a diagnosi completata viene poi trasferito in un reparto di terapia intensiva, o subintensiva se meno grave; nei casi in cui questi due reparti sono pieni, può essere trasferito in altri reparti dell’ospedale.

Il centro di smistamento si occupa di affidare il caso a uno degli ospedali con posti letto disponibili in terapia intensiva. Nell’ambito dell’autonomia delle strutture ospedaliere, ogni ospedale può comunque valutare le singole richieste e – entro certi limiti – rifiutare la richiesta di ricovero portando chiare motivazioni.

Un’altra questione che negli ospedali si deve tener presente è che non tutto il personale è formato per lavorare usando certi dispositivi, come i caschi respiratori CPAP (da Continuous Positive Airway Pressure, cioè ventilazione a pressione positiva continua) che servono per aiutare le persone con difficoltà respiratorie che non sono in condizioni così gravi da richiedere un’intubazione. Questi caschi si possono usare anche nei reparti sub-intensivi e quindi dovrebbero permettere di ridurre l’affollamento delle terapie intensive, ma è necessario che gli infermieri e i medici siano capaci di metterli ai pazienti e monitorarli.

C’è poi da ricordare un ultimo elemento: ogni giorno le autorità possono dare nuove e diverse indicazioni alle aziende sanitarie locali e agli ospedali sulla base dei nuovi studi epidemiologici fatti sulla diffusione del coronavirus. L’aggiornamento è indispensabile in una fase in piena evoluzione come quella che riguarda un’epidemia in corso.

Agli aggiornamenti si aggiungono poi gli imprevisti che richiedono tempestive decisioni delle direzioni degli ospedali: per esempio al Sant’Orsola di Bologna giovedì si è dovuto isolare il reparto di urologia dove un uomo poi risultato positivo al SARS-CoV-2 era stato operato; alle Molinette di Torino è stato chiuso un reparto di medicina interna da una trentina di letti dopo che una coppia di anziani ricoverata (e passata anche per il pronto soccorso) era risultata positiva al coronavirus.