Cosa ha complicato la gestione dell’emergenza da coronavirus in Lombardia

Lo racconta Irene Dominioni su Linkiesta: c'entrano due protocolli sanitari molto diversi, uno della regione e uno del governo

Infermieri con tute e mascherine al check point sanitario accanto al Pronto Soccorso degli Spedali Civili di Brescia (Ansa/Filippo Venezia)
Infermieri con tute e mascherine al check point sanitario accanto al Pronto Soccorso degli Spedali Civili di Brescia (Ansa/Filippo Venezia)

La giornalista Irene Dominioni ha ricostruito su Linkiesta uno degli aspetti finora poco raccontati della gestione dell’epidemia di coronavirus (SARS-CoV-2) negli ospedali della Lombardia: la presenza di due protocolli sanitari diversi – uno del ministero della Salute e l’altro della regione Lombardia – contenenti le regole da applicare per realizzare i tamponi e rilevare le positività al virus.

Fin dal principio il ministero della Salute aveva indicato le proprie linee guida sul coronavirus tramite una circolare diretta a tutti gli ospedali: sarebbero state sottoposte al test solamente le persone che rispondevano a requisiti molto severi, come avere un’infezione respiratoria acuta e avere avuto contatti con persone potenzialmente infette (cioè quello che in medicina viene chiamato “link epidemiologico”). Le indicazioni della regione erano state praticamente da subito diverse: una persona doveva essere sottoposta al tampone anche senza avere avuto contatti con ambienti o persone potenzialmente infette (quindi anche senza “link epidemiologico”).

L’esistenza di due protocolli così diversi ha creato confusione nella gestione dell’emergenza e ha spinto molti ospedali lombardi a seguire le indicazioni della Regione e a compiere moltissimi tamponi, nei primi giorni risultati quasi tutti negativi. Ha inoltre complicato l’applicazione di regole uniche su tutto il territorio nazionale, rendendo più difficile da capire se una certa strategia adottata – come quella dell’isolamento di città e della chiusura di esercizi pubblici – possa essere efficace nel tempo per il caso italiano.

Tutto inizia il 5 febbraio, quando i governatori leghisti del Nord scrivono una lettera per chiedere due settimane di quarantena ai bambini di ritorno dalle aree affette in Cina, introducendo «un elemento di polemica politica non necessaria. L’essenziale era ed è litigare in privato e poi esprimersi ad una sola voce», dice Usuelli. Ma nei giorni direttamente successivi, anche quando i due turisti cinesi vengono ricoverati allo Spallanzani di Roma e l’italiano affetto rientra dalla Cina, la situazione non è allarmistica e tutto sembra essere sotto controllo.

Il 22 febbraio, subito dopo che emerge il focolaio nella bassa Lombardia, arriva la circolare del ministero della Salute con le prime indicazioni per il personale sanitario. «Sono le più importanti, perché quando si tratta un’epidemia, la prima cosa da fare è stabilire chi deve fare cosa nella filiera sanitaria, oltre che chi debba sottoporsi al tampone», spiega Usuelli.

Il criterio scelto dal governo è che devono fare il test le persone con infezione respiratoria acuta (cioè tosse, ndr), che hanno richiesto o meno il ricovero in ospedale e nei 14 giorni precedenti hanno soddisfatto almeno una delle seguenti condizioni: viaggi in Cina, o un contatto stretto con un caso probabile o confermato di coronavirus, o aver frequentato una struttura sanitaria dove sono stati ricoverati pazienti positivi. Queste indicazioni sono quelle che in gergo medico si definiscono “link epidemiologico”, ovvero il collegamento con altre persone potenzialmente malate, che aumenta la probabilità di essere malati a propria volta.

Inizialmente, Regione Lombardia e gli ospedali si preparano per seguire le direttive ministeriali. Ma la sera del 24 febbraio, in una riunione con i direttori sanitari degli ospedali, i dirigenti regionali – «con una semplice diapositiva di presentazione», spiega Usuelli – si discostano improvvisamente dalle indicazioni del ministero. Prescrivendo che debba essere testato chiunque arrivi in pronto soccorso con una sintomatologia respiratoria (cioè la tosse), leggera o grave che sia. Dunque senza prendere in considerazione la presenza di un link epidemiologico, e di fatto allargando di gran lunga lo spettro di persone da testare.

In breve, Regione Lombardia dà indicazioni diverse rispetto al ministero su come trattare l’epidemia e modificando il criterio di chi debba fare il test, anche se non è chiaro sulla base di quale principio. I medici negli ospedali, dunque, si ritroveranno ad aver ricevuto due direttive molto diverse tra loro, senza sapere quale delle due debbano applicare, posto che sono entrambe ufficialmente valide.

Secondo passaggio. Il 25 febbraio, ventiquattr’ore dopo la riunione, Regione Lombardia invia per email ai direttori sanitari una circolare non protocollata («un semplice pdf senza il logo della Regione, né una firma», spiega il consigliere) cambiando ancora versione: deve essere testato chi si presenta al pronto soccorso con sintomi di tosse gravi e necessita di essere ricoverato. Di nuovo, senza bisogno di valutare se ci sia un link epidemiologico, e di nuovo in difformità con le disposizioni del ministero. «Si tratta di un’altra indicazione completamente diversa», precisa Usuelli, «che comporta che al medico venga impedito di poter fare un buon lavoro, che si crei incertezza e che si impedisca che gli ospedali si muovano tutti sulla stessa linea». Così facendo, infatti, «ciascun direttore di ospedale, primario e dirigente medico deve per forza operare una scelta tra le due, e farla a titolo discrezionale. Oppure, ancora peggio, finisce a fare un miscuglio tra le due cose».

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