Ci si può ammalare più di una volta di COVID-19?

Il caso di una paziente giapponese apparentemente guarita che ha manifestato nuovamente i sintomi dopo settimane sta facendo sorgere qualche dubbio

(Marco Di Lauro/Getty Images)
(Marco Di Lauro/Getty Images)

La scorsa settimana, le autorità sanitarie del Giappone hanno segnalato il caso di una donna a Osaka risultata positiva al coronavirus (SARS-Cov-2) per una seconda volta, settimane dopo essersi ripresa da una precedente infezione ed essere stata dimessa dall’ospedale. La notizia è circolata molto perché potrebbe indicare una caratteristica che ancora non conosciamo del nuovo virus, ma diversi ricercatori sono molto cauti e ritengono improbabile che si possa contrarre il coronavirus due volte in così poco tempo. Comprendere meglio queste dinamiche è comunque essenziale per ridurre il rischio di nuovi contagi e per studiare nuovi trattamenti, farmaci e vaccini.

Stando alle informazioni fornite dai media giapponesi, la paziente aveva manifestato sintomi lievi da COVID-19 – la malattia causa dal coronavirus – all’inizio dello scorso gennaio. Dopo un breve ricovero, era stata dimessa dall’ospedale il primo febbraio, quando i sintomi erano scomparsi e sembrava essere guarita. Mercoledì 26 febbraio è risultata nuovamente positiva al coronavirus, dopo essersi presentata in ospedale per un forte mal di gola e dolori al petto (nei casi più gravi la COVID-19 causa una polmonite atipica).

Marc Lipsitch, epidemiologo statunitense direttore del Centro per le dinamiche sulle malattie trasmissibili (Università di Harvard, Stati Uniti), ha spiegato al New York Times che il caso della donna giapponese è interessante, ma che non ci sono molti elementi – né conoscenze sul coronavirus – per determinare se si sia trattato di una nuova infezione o, più probabilmente, di una recidiva. Altri casi simili erano stati segnalati in Cina nelle settimane scorse, sempre senza elementi per trarre conclusioni certe.

Anche se non li studiamo da molto, i coronavirus sono da tempo nostri ospiti indesiderati: quattro dei sette tipi conosciuti che interessano gli esseri umani causano infezioni respiratorie lievi, quelle che chiamiamo “raffreddore” (sotto questa indicazione ricadono anche gli effetti di diversi altri virus, come i rhinovirus). A differenza di cosa fa con altri virus, il nostro sistema immunitario non sembra serbare a lungo il ricordo di quelli che causano il raffreddore, e questo è uno dei motivi per cui ci raffreddiamo decine di volte nel corso della nostra vita. Non sappiamo ancora se lo stesso avvenga, e in quale misura, per l’attuale coronavirus.

Dopo un’infezione virale, la memoria nel sistema immunitario rimane comunque per qualche tempo, e per questo i virologi ritengono che sia improbabile che fosse già svanita nella paziente giapponese. L’ipotesi è che fosse stata dimessa quando non era ancora completamente guarita, con una riserva del virus che qualche settimana dopo ha ripreso a moltiplicarsi, determinando una ricaduta.

Una ricerca pubblicata la settimana scorsa sulla rivista scientifica JAMA ha fornito elementi, per quanto preliminari, sul fatto che una persona possa risultare positiva al coronavirus per diverso tempo dopo essere guarita. Nel caso di quattro medici cinesi, il test per rilevare la presenza di materiale genetico del coronavirus è risultato ancora positivo a quasi due settimane dalla scomparsa dei sintomi. Il test è del resto molto sensibile e in alcune circostanze può rilevare la presenza del virus anche in un individuo con bassa carica virale (semplificando molto, la “quantità” del virus presente nell’organismo).

Ci sono però circostanze in cui il test dà esito negativo anche se la persona analizzata è ancora infetta. Questo può dipendere dal modo in cui è stato prelevato il campione da analizzare, tramite il tampone, o dalla qualità stessa del campione su cui viene seguita l’analisi. Un’ipotesi è che la paziente giapponese fosse risultata negativa al test, anche se in realtà era ancora infetta.

Per rendere l’idea, l’epidemiologo statunitense Marc Lipsitch ha fornito un’efficace analogia, spiegando che è come quando si toglie la muffa da un barattolo di marmellata: dopo, la superficie sembra essere priva di muffe, ma non si può escludere che ce ne siano ancora nel barattolo e che ricomincino a crescere. “Il test per il coronavirus è positivo se il virus è presente in quantità sufficienti nel momento in cui fai il tampone. Un test negativo non dice in modo definitivo che non ci sia più il virus in quella persona” ha poi chiarito Lipsitch.

Siamo a conoscenza di questo coronavirus da poco più di due mesi, quindi è comprensibile che non ci siano ancora risposte scientifiche definitive a molte domande, soprattutto su come sia il recupero nel medio-lungo periodo dei pazienti, e il loro livello di immunizzazione. Alcune ricerche preliminari sugli anticorpi sviluppati da chi si ammala indicano la possibilità che il sistema immunitario serbi memoria dell’infezione, prevenendo quindi la possibilità di ammalarsi nuovamente. Non è però ancora chiaro per quanto tempo e a quali condizioni, considerato che ogni paziente reagisce in modo diverso.

Il nuovo coronavirus ha diverse cose in comune con il coronavirus della SARS e, seppure più limitatamente, con quello della MERS. La SARS è nota ormai da 17 anni e non ci sono in letteratura scientifica casi significativi di persone che hanno contratto due volte la malattia. Occorre anche considerare che il coronavirus della SARS si diffuse relativamente poco, rendendo quindi meno probabili nuovi contagi.

Capire il livello di immunizzazione tra i guariti da COVID-19 sarà essenziale soprattutto per capire come gestire le campagne vaccinali, quando sarà disponibile un vaccino contro la malattia.