Sapevamo che sarebbe arrivato un nuovo virus

Nel 2018 l'OMS parlò del rischio globale di una "malattia X" causata da un virus all'epoca ancora sconosciuto: la COVID-19 corrisponde alla descrizione

(Lauren DeCicca/Getty Images)
(Lauren DeCicca/Getty Images)

All’inizio del 2018 un gruppo di ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ideò il termine “malattia X” per indicare: “La consapevolezza che una grave epidemia internazionale potrebbe essere causata da un patogeno che attualmente non è noto per causare malattie negli esseri umani”. A distanza di due anni, il coronavirus (SARS-CoV-2) sembra avere tutti i requisiti per corrispondere a questa descrizione. Tra i numerosi virologi ed epidemiologi che lo pensano c’è anche Peter Daszak, che fa parte del gruppo di esperti “R&D Blueprint” che definì la “malattia X”.

Il rapporto pubblicato nel 2018 indicava le malattie conosciute che potrebbero causare rischiose epidemie, come ebola e la febbre emorragica Congro-Crimea (CCHF). Il documento invitava la comunità scientifica a concentrare le ricerche nello sviluppo di nuovi vaccini e farmaci per tenerle sotto controllo, nel caso di una loro rapida diffusione. Nell’elenco, in ultima posizione, era indicata anche una “malattia X”, per ricordare che l’emergenza sanitaria sarebbe potuta derivare da qualcosa di ancora ignoto.

In un articolo pubblicato sul New York Times, Daszak scrive che la malattia causata dal coronavirus (COVID-19) corrisponde alla descrizione fatta un paio di anni fa:

La malattia X, dicemmo all’epoca, sarebbe stata causata da un virus nato negli animali e sarebbe emersa da qualche parte nel pianeta, in un posto dove le condizioni economiche fanno sì che le persone vivano a contatto con specie selvatiche. La malattia X sarebbe stata probabilmente confusa con altre malattie nelle prime fasi dell’epidemia, e si sarebbe diffusa rapidamente e senza farsi notare; sfruttando il modo in cui le persone si spostano e fanno commerci, avrebbe raggiunto più paesi ed eluso il contenimento. La malattia X avrebbe avuto un tasso di letalità più alto dell’influenza stagionale, ma si sarebbe diffusa facilmente come l’influenza. Avrebbe messo in crisi i mercati finanziari ancora prima di diventare una pandemia.
In parole povere, la COVID-19 è la malattia X.

Come abbiamo potuto constatare direttamente in Italia, nelle ultime settimane il coronavirus si è ampiamente diffuso oltre i confini della Cina, dove era emerso a fine 2019 nella città di Wuhan. Gli ultimi dati sembrano indicare un rallentamento di nuovi casi in Cina, anche se la raccolta di informazioni affidabili è talvolta difficoltosa, ma nel frattempo il coronavirus ha iniziato a contagiare migliaia di persone in altre parti del mondo.

I casi positivi in Corea del Sud, Giappone, Italia e Iran sono quelli che destano maggiore attenzione da parte dell’OMS, che osserva giorno dopo giorno l’andamento della COVID-19 e la sua diffusione globale. Le prime notizie sui contagi negli Stati Uniti hanno aggiunto elementi per ipotizzare che la malattia sia ormai ampiamente diffusa e difficilmente contenibile.

Quando l’OMS definì per la prima volta la malattia X nel 2018, non poteva certo immaginare l’attuale epidemia da coronavirus, ma i suoi esperti e molti altri ricercatori in giro per il mondo avevano comunque già le idee chiare su un aspetto: i casi di contagio da animali selvatici a esseri umani erano in crescita, con un aumentato rischio per la salute di tutti. Gli andamenti degli anni precedenti avevano del resto evidenziato un aumento delle pandemie, e la necessità di fermare i processi che le determinano.

Le epidemie ci fanno compagnia da millenni e a ben vedere sono favorite dal modo in cui viviamo, viaggiamo e gestiamo i rapporti commerciali. La peste nera a metà del XIV secolo, che provocò probabilmente la morte di 20 milioni di persone solo in Europa, arrivò nel nostro continente attraverso la Via della Seta, l’importante rete commerciale sulla quale si snodavano gli affari tra Asia ed Europa. Il coronavirus dei giorni nostri si è diffuso dalla Cina al resto del mondo con meccanismi analoghi, accelerati dai trasporti aerei che sette secoli fa non esistevano.

Un altro fattore che determina la comparsa di queste epidemie ad alto rischio per la popolazione mondiale è legato alla convivenza con specie selvatiche. Il cosiddetto “spillover”, cioè il passaggio di un virus (o di un altro patogeno) da una specie all’altra, avviene con più probabilità nei paesi dove la popolazione vive in stretto contatto con animali selvatici: è sufficiente che per puro caso un virus muti quel tanto che basta per riuscire a sopravvivere in una specie diversa, rispetto a quella che colonizza di solito, per portare alla nascita di una nuova malattia che interessa il genere umano (lo abbiamo raccontato più estesamente qui).

Le cose andarono in questo modo probabilmente più di 40 anni fa con Ebola, e molto più di recente con sindromi che hanno elementi in comune come SARS, MERS e ora COVID-19. Scrive Daszak:

Questi spillover stanno aumentando enormemente perché la nostra espansione negli ecosistemi ci porta più vicini alle specie selvatiche, che vivono in aree remote; il commercio di queste specie fa sì che siano disponibili anche nei centri urbani. La costruzione senza precedenti di strade, la deforestazione, i terreni spianati per lo sviluppo agricolo, così come un sistema sempre più globalizzato di viaggi e commerci, ci rendono estremamente suscettibili ai patogeni come i coronavirus.

L’OMS aveva pubblicato il suo documento nel 2018 per incentivare risposte più adeguate da parte dei governi, volte soprattutto a gestire il problema delle pandemie con la prevenzione e non con risposte sul momento contro le singole emergenze. Il consiglio sembra essere rimasto ampiamente inascoltato, e i governi hanno mantenuto un approccio che trascura la prevenzione: attendere che emerga una crisi, affrontarla come si riesce e confidare che in tempi ragionevoli siano sviluppati vaccini e farmaci per ridurre contagi e numero dei morti.

La COVID-19 è stata scoperta da un paio di mesi ed è quindi normale che non esista ancora un vaccino, per quanto diversi centri di ricerca siano al lavoro per svilupparne prime versioni sperimentali. Se però osserviamo altre malattie contagiose, come SARS e Zika emerse negli scorsi anni, ci rendiamo conto che neanche contro queste patologie esistono vaccini. Entrambe sono state contenute in pochi mesi, riducendo il senso di urgenza e di conseguenza gli investimenti per sviluppare vaccini o per fare prevenzione per evitare il loro riemergere.

Non è quindi un caso che nella lista diffusa nel 2018 dall’OMS ci fossero SARS, MERS, Ebola e Zika, con l’esplicita segnalazione sulla mancanza di vaccini per prevenirle e di farmaci efficaci per trattarle. La presenza nella lista della malattia X serviva, invece, per ricordare che la prevenzione sarebbe dovuta passare per politiche volte a non sottovalutare i rischi connessi a una malattia ancora sconosciuta, ma che avrebbe potuto causare una pandemia.

Secondo i modelli dei virologi e degli epidemiologi, esistono fino a 1,7 milioni di virus ancora sconosciuti con caratteristiche simili a quelli che causano le infezioni note negli esseri umani. La priorità dovrebbe essere scoprirli e analizzarli, in modo da non farsi cogliere di sorpresa quando ne emerge uno nuovo in una porzione significativa della popolazione.

La SARS, emersa tra il 2002 e il 2003, ha per esempio insegnato ai ricercatori che ci sono decine di coronavirus che infestano i pipistrelli, e che diversi di questi hanno il potenziale per passare a specie diverse, come gli esseri umani. Non è un’informazione da poco perché ha permesso di orientare parte della ricerca verso lo sviluppo di vaccini ad ampio spettro, che un giorno potrebbero consentire di proteggere la popolazione da tipi diversi di coronavirus.

Una migliore conoscenza dei virus deve essere accompagnata da maggiori investimenti sanitari nelle aree a rischio, dove gli individui vivono a più stretto contatto con gli animali selvatici. Daszak lo spiega con un’efficace analogia:

Le pandemie sono come gli attacchi terroristici: sappiamo grossomodo dove hanno origine e chi ne è responsabile, ma non sappiamo di preciso dove accadrà il prossimo. Dobbiamo trattarle allo stesso modo, identificando tutte le possibili fonti e smantellandole prima che possano fare danni.