• Mondo
  • Domenica 5 gennaio 2020

La storia dietro all’uccisione di Qassem Suleimani

Quando e come è stato deciso l'attacco contro il potente generale iraniano, passo per passo

di Elena Zacchetti

Donald Trump alla residenza di Mar-a-Lago, in Florida (AP Photo/Andrew Harnik)
Donald Trump alla residenza di Mar-a-Lago, in Florida (AP Photo/Andrew Harnik)

Giovedì 2 gennaio del 2020 il presidente statunitense Donald Trump si trovava nella sua residenza di Mar-a-Lago a Palm Beach, in Florida, per giocare a golf e trascorrere insieme a un pezzo di famiglia le vacanze natalizie. Trump era arrivato due settimane prima, ma era rimasto in contatto costante con i suoi collaboratori per organizzare la campagna elettorale in vista delle presidenziali di novembre. Poco prima delle 17 di giovedì, mentre era in riunione con alcuni suoi consiglieri, Trump è stato interrotto e chiamato a partecipare a un incontro molto ristretto e riservato. È tornato poco dopo, senza dare alcuna indicazione su cosa fosse successo.

In quei pochi minuti, ha scritto il New York Times citando diverse sue fonti, Trump «ha preso una delle decisioni più importanti di politica estera della sua presidenza»: ha dato la definitiva approvazione per l’attacco aereo che nel giro di poche ore avrebbe ucciso a Baghdad il generale iraniano Qassem Suleimani, uno dei più grandi nemici degli Stati Uniti degli ultimi anni e uno dei personaggi più potenti di tutto il Medio Oriente.

Leggi anche: Cosa succede dopo l’uccisione di Suleimani?

Quella breve riunione di giovedì, di cui era a conoscenza un ristrettissimo numero di persone, non era la prima in cui si parlava di Suleimani da quando Trump era arrivato a Mar-a-Lago. Nei giorni precedenti la situazione in Iraq era diventata sempre più tesa ed erano successe due cose che avevano spinto consiglieri e militari americani a proporre a Trump un’operazione così rischiosa.

Donald e Melania Trump a Mar-a-Lago il 31 dicembre 2019 (AP Photo/ Evan Vucci)

Anzitutto il venerdì precedente c’era stato un attacco piuttosto grave a una base militare condivisa da statunitensi e iracheni nella periferia sud della città irachena di Kirkuk. Erano stati sparati una trentina di missili che avevano ferito cinque persone e avevano ucciso un interprete statunitense, la cui identità non è stata resa pubblica. Attacchi simili erano piuttosto frequenti negli anni successivi all’invasione americana in Iraq, nel 2003, ma da tempo erano diventati rari. Il governo americano aveva accusato dell’attacco Kataib Hezbollah, una milizia irachena sciita considerata molto vicina alle Guardie rivoluzionarie iraniane, il corpo militare a cui apparteneva Suleimani, e aveva iniziato a progettare una risposta militare.

La seconda cosa importante successa in Iraq era stato l’assedio dell’ambasciata americana a Baghdad, martedì e mercoledì di questa settimana. Migliaia di membri delle milizie irachene sciite appoggiate dall’Iran erano entrate nella cosiddetta “Zona verde” della capitale con il tacito consenso del governo iracheno, come reazione a un precedente attacco missilistico compiuto dagli Stati Uniti contro Kataib Hezbollah, a sua volta ritorsione per il bombardamento sulla base militare vicino a Kirkuk.

Per Trump, da sempre ossessionato dall’assalto al consolato americano a Bengasi nel 2012, l’Iran aveva superato il limite. Secondo le ricostruzioni di diversi giornali americani, che hanno usato fonti proprie vicine al governo americano, la decisione definitiva di uccidere Suleimani sarebbe maturata nei giorni tra l’uccisione dell’interprete statunitense e l’attacco all’ambasciata di Baghdad.

Qassem Suleimani a Teheran, il 18 settembre 2016 (Office of the Iranian Supreme Leader via AP, File)

Non è chiaro quale sia stata la cronologia esatta dell’intero processo decisionale. Un funzionario del dipartimento della Difesa americano che ha voluto rimanere anonimo ha detto a Politico che i leader militari americani avevano ottenuto l’autorizzazione da Trump di uccidere Suleimani «alla prima occasione utile», quando si sarebbe presentata l’opportunità: il funzionario non ha specificato se questa autorizzazione fosse arrivata ore, giorni, settimane o mesi prima dell’attacco.

Secondo la ricostruzione di Bloomberg, Trump avrebbe ordinato ai suoi consiglieri più esperti di iniziare a pianificare l’attacco contro Suleimani subito dopo l’uccisione dell’interprete statunitense.

Il New York Times ha riportato però una versione diversa. Ha scritto che i funzionari del dipartimento della Difesa avevano presentato a Trump diverse opzioni, tra cui l’uccisione di Suleimani, ma non pensavano che il presidente avrebbe scelto quella: «nelle guerre intraprese dagli attacchi dell’11 settembre 2001, il dipartimento della Difesa ha sempre offerto improbabili opzioni ai presidenti per rendere le altre possibilità proposte più accettabili». Dopo avere preferito inizialmente rispondere all’uccisione dell’interprete americano con gli attacchi aerei contro Kataib Hezbollah, Trump aveva cambiato idea guardando le immagini in televisione dell’assalto all’ambasciata statunitense a Baghdad: «I funzionari della Difesa erano sbalorditi», ha scritto il New York Times. Non è chiaro se Mark A. Milley, capo di Stato maggiore dell’esercito americano, e Mark Esper, segretario della Difesa, abbiano provato a dissuadere il presidente.

Al di là di come siano andate le cose, ha ricostruito il Washington Post, è certo che l’opzione di uccidere Suleimani era stata il tema principale di una riunione avvenuta domenica 29 dicembre a Mar-a-Lago a cui avevano partecipato Trump e diversi suoi consiglieri esperti di sicurezza.

A partire da quel giorno, il vicepresidente Mike Pence aveva mantenuto frequenti contatti con un numero molto ristretto di membri del governo incaricati di discutere dell’attacco contro Suleimani. I contatti erano avvenuti usando linee di comunicazione sicure, visto che molte delle persone coinvolte si trovavano in città americane diverse per via delle feste di Natale (il capo dello staff ad interim Mick Mulvaney era a Key West, in Florida; il consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien era in California; il segretario di Stato Mike Pompeo era a Washington, dopo avere cancellato una visita ufficiale in Ucraina; il vicepresidente Pence era prima ad Annapolis, in Maryland, e poi a Sanibel Island, in Florida).

Il segretario di Stato Mike Pompeo, a sinistra, e il segretario della Difesa Mark Esper, a Mar-a-Lago, il 29 dicembre 2019 (AP Photo/ Evan Vucci)

Secondo il Washington Post, sono state tre le ragioni che in quei giorni hanno spinto Trump a dare l’approvazione definitiva all’attacco contro Suleimani.

Prima. I consiglieri di Trump favorevoli a un attacco hanno ricordato al presidente che nei mesi precedenti gli Stati Uniti non avevano risposto a nessuno degli attacchi compiuti dall’Iran – né agli assalti alle navi straniere nel Golfo Persico, né all’abbattimento di un drone americano, né ai bombardamenti contro due importanti stabilimenti petroliferi sauditi. Se non avessero risposto nemmeno ai due attacchi più recenti, «loro [gli iraniani] penseranno di poter fare qualsiasi cosa cavandosela sempre», ha detto un funzionario della Casa Bianca.

Seconda. Trump non voleva che si ripetesse quello che era successo dopo che aveva annullato all’ultimo minuto un lancio di missili come ritorsione per l’abbattimento del drone americano da parte dell’Iran. In quell’occasione la stampa americana aveva accusato il presidente di avere tentennato, di essersi mosso senza una strategia precisa e di avere indebolito la credibilità degli Stati Uniti.

Terza. Trump voleva uscire da tutta questa storia meglio di come era uscita l’amministrazione di Barack Obama durante l’assalto al consolato americano a Bengasi avvenuto nel settembre 2012, durante il quale era stato ucciso l’ambasciatore statunitense Christopher Stevens.

Dalle ultime informazioni, sembra inoltre che gli Stati Uniti fossero venuti a conoscenza del fatto che Suleimani stava preparando una serie di attacchi contro obiettivi militari e diplomatici statunitensi. Per il momento il governo americano non ha fornito alcuna prova a sostegno di questa ipotesi, che ha incontrato lo scetticismo di qualche analista e giornalista.

Leggi anche: Cosa diavolo vuole fare Trump con l’Iran?

Dopo la decisione di Trump di approvare l’operazione, l’intelligence statunitense aveva cominciato le ricerche per localizzare Suleimani e capire il momento opportuno per colpirlo. La scelta era caduta sull’aeroporto di Baghdad, giovedì sera.

Della decisione, ha scritto Politico, erano stati informati solo i più stretti alleati di Trump nel Congresso, mossa poi molto criticata soprattutto dai Democratici. Giovedì, il giorno dell’attacco, funzionari del dipartimento di Stato avevano convocato l’ambasciatore iracheno negli Stati Uniti per un incontro, ma non è chiaro se si sia discusso anche di Suleimani. È possibile inoltre che il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, avesse avvisato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, anche se non è arrivata la conferma da nessuna delle due parti.

Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, tra cui quella della giornalista Suadad al Salhy sul sito Middle East Eye, giovedì Suleimani aveva in programma diversi spostamenti, che avevano come tappa finale proprio Baghdad.

Suleimani, ha scritto al Salhy, era arrivato da Teheran a Damasco, la capitale siriana, giovedì mattina. Sarebbe salito direttamente su un’auto che lo avrebbe portato fino a Beirut, in Libano, dove avrebbe incontrato Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, gruppo radicale sciita libanese molto potente e molto vicino all’Iran. Una volta terminato l’incontro, Suleimani si sarebbe fatto riportare all’aeroporto di Damasco, dove avrebbe preso un aereo per Baghdad. Il volo, in ritardo, sarebbe atterrato nella capitale irachena alle 00.32 ora locale (alle 22.32 ora italiana).

L’incontro con Nasrallah non è stato confermato da altre fonti e in generale le informazioni sugli spostamenti di Suleimani prima dell’attacco sono ancora poche e confuse. Nasrallah, comunque, ha confermato domenica che l’aereo che aveva portato Suleimani a Baghdad proveniva da Damasco.

All’aeroporto di Baghdad ad aspettarlo c’era Abu Mahdi al Muhandis, vice capo delle Forze di mobilitazione popolare, insieme di milizie irachene principalmente sciite molto legate all’Iran, e dal 2018 inquadrate all’interno dell’esercito iracheno. Muhandis, che era anche il leader della milizia sciita Kataib Hezbollah, era arrivato al terminal con due auto: doveva recuperare Suleimani e poi andare nella sua casa all’interno della “Zona verde”, dove si fermava spesso il generale iraniano durante i suoi soggiorni a Baghdad.

Abu Mahdi al Muhandis (AP Photo/Khalid Mohammed)

Dal 2003, anno dell’invasione statunitense in Iraq e della destituzione del regime di Saddam Hussein, l’aeroporto internazionale di Baghdad è soggetto a rigidi controlli. La sicurezza del complesso è garantita da una società britannica privata, la G4S, sotto la supervisione dell’intelligence irachena, mentre quella del perimetro dell’aeroporto e del suo spazio aereo è competenza dell’antiterrorismo iracheno in collaborazione con gli Stati Uniti.

Secondo la giornalista al Salhy, anche grazie al sistema di sorveglianza dell’aeroporto gli americani sapevano che insieme a Suleimani ci sarebbe stato Muhandis. Se al suo posto si fossero presentati membri del governo iracheno, alleato con gli americani, gli Stati Uniti avrebbero fermato tutto.

L’attacco è avvenuto poco dopo l’atterraggio dell’aereo su cui si trovava Suleimani, sulla strada per uscire dal complesso dell’aeroporto. Il governo americano ha detto che nel bombardamento è stato impiegato un drone, senza dare ulteriori informazioni, ma diverse ricostruzioni giornalistiche hanno parlato di un Reaper MQ-9, prodotto dalla società californiana General Atomics e usato dall’esercito statunitense dal luglio 2017. I missili lanciati dal drone, forse tre, hanno colpito le due auto su cui erano a bordo Suleimani e Muhandis e che viaggiavano a una distanza di 100-120 metri, ha scritto al Salhy. Sia Suleimani che Muhandis sono morti nell’impatto. Le autorità irachene hanno avuto bisogno di diverse ore per identificare le vittime, alcune delle quali erano completamente irriconoscibili.

Per tutto il tempo dell’operazione, Trump era rimasto a Mar-a-Lago. Howie Carr, conduttore radiofonico conservatore che giovedì scorso si trovava insieme al presidente in Florida, ha detto che Trump si era mantenuto «calmo, freddo e controllato» e ha aggiunto di non essersi accorto di nulla fino a che la notizia non era stata resa pubblica. Kevin McCarthy, Repubblicano e leader di minoranza della Camera statunitense, ha pubblicato sul suo account Instagram una foto insieme a Trump, con scritto: «Una serata memorabile e storica alla “Winter White House” [cioè la residenza di Mar-a-Lago]. Orgoglioso del nostro presidente!».

Alle 3.32 italiane della notte tra giovedì e venerdì Trump ha twittato una bandiera statunitense, senza commento. Il governo americano ha confermato l’uccisione di Suleimani alle 3.46, 14 minuti dopo.