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  • Lunedì 17 giugno 2019

Le trattative per le nomine europee entrano nel vivo

Nelle prossime settimane si decideranno tutte le presidenze che contano, dalla Commissione al Parlamento: l'Italia continua ad avere un ruolo piuttosto marginale

(Sean Gallup/Getty Images)
(Sean Gallup/Getty Images)

Questa settimana entreranno nel vivo le trattative per rinnovare le principali cariche istituzionali dell’Unione Europea, iniziate nei giorni successivi alle elezioni europee. Finora sui negoziati sono trapelate pochissime informazioni, e sui quotidiani sono circolati molti nomi diversi. Nei prossimi giorni però qualcuno dovrà uscire allo scoperto: giovedì 20 si terrà la riunione del Consiglio Europeo, cioè l’organo che raduna tutti i capi di governo e di stato dell’UE, che all’ordine del giorno avrà proprio le nuove nomine europee, mentre nella plenaria del Parlamento Europeo che si terrà il 2 luglio dovrà essere nominato il nuovo presidente dell’aula.

Le principali cariche che andranno rinnovate sono quattro, e verranno assegnate alla fine di un complesso gioco di incastri che le riguarda tutte e quattro. Da qui all’autunno verranno rinnovati il presidente della Commissione (cioè il governo dell’UE), del Consiglio Europeo, da non confondersi col Consiglio dell’Unione Europea, del Parlamento e della Banca Centrale. Le nomine verranno decise dalla maggioranza che governerà i lavori della prossima legislatura, e che quasi sicuramente comprenderà Popolari, Socialisti, Liberali e Verdi. Alla difficoltà di mettere d’accordo quattro famiglie politiche diverse, si aggiunge il fatto che le nomine dovranno anche rispettare criteri geografici – bisogna cercare di non scontentare nessuno dei paesi più importanti, né i blocchi di paesi che si muovono in maniera coordinata – e di genere.

La carica più importante e delicata è certamente quella di presidente della Commissione Europea, il cui mandato dura cinque anni. Al momento i Popolari, che nel nuovo Parlamento controllano la maggioranza relativa col 23,8 per cento dei seggi, continuano a proporre Manfred Weber, ex capogruppo al Parlamento Europeo nonché candidato alla presidenza della Commissione (cioè spitzenkandidat) proposto dal partito alle ultime elezioni.

Il problema è che il sistema informale dello spitzenkandidat, che è stato istituito nel 2014 e prevede che il partito europeo che ha ottenuto più seggi possa indicare il presidente della Commissione Europea, viene dato praticamente per morto: sia perché diversi leader europei non hanno intenzione di lasciare in mano a un organo poco controllabile come il Parlamento Europeo una decisione così delicata – su tutti, Emmanuel Macron – sia perché in fondo il Partito Popolare ha preso meno di un quarto dei voti e difficilmente potrà pretendere di scegliere da solo il nuovo presidente.

Di conseguenza in queste settimane si è parlato spesso di alcuni nomi di compromesso. Su tutti quello di Margrethe Vestager, la commissaria alla Concorrenza uscente: che però fa parte dei Liberali, che al Parlamento controllano poco più di un centinaio di seggi. Molti ritengono che alla fine il presidente dovrà essere in qualche modo espressione dei Popolari, se non il loro candidato ufficiale: si fa il nome di Michel Barnier, capo dei negoziatori europei di Brexit e appartenente all’ala più centrista del partito, oppure di Kristalina Georgieva, economista bulgara ex vicepresidente della Commissione fra il 2014 2016 e oggi direttrice generale della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo.

Qualche settimana fa David Carretta, corrispondente di Radio Radicale dalle istituzioni europee, aveva scritto che Georgieva «riempie molte delle caselle necessarie per trovare un punto di equilibrio nella nomina del successore di Juncker»: «Donna, europeista entusiasta e ottimista, proveniente da un paese dell’est, con una solida esperienza internazionale, indipendente ma considerata vicina al Partito popolare europeo».

Se la presidenza della Commissione andrà davvero ai Popolari, quasi sicuramente i Socialisti e i Liberali si spartiranno le altre due principali cariche politiche in ballo: la presidenza del Parlamento e quella del Consiglio.

Sulla prima, pare ci sia una specie di pre-accordo fra Popolari e Liberali per eleggere un Popolare alla Commissione Europea e un Liberale alla presidenza del Parlamento: stando a Politico, quest’ultima toccherebbe a Guy Verhofstadt, ex primo ministro del Belgio e capogruppo uscente dei Liberali in Parlamento, che si dice punti da tempo alla presidenza dell’aula. Ma sembra che Verhofstadt non sia in buoni rapporti col presidente francese Emmanuel Macron, il leader di fatto dei Liberali, che secondo i giornali preferirebbe spendere il suo capitale politico per nominare il sostituto di Mario Draghi alla Banca Centrale Europea (per questa ragione vari candidati alla carica sono francesi).

Nei giorni scorsi si era parlato della possibilità che fossero i Verdi a esprimere la presidenza del Parlamento Europeo, dato che un po’ a sorpresa stanno partecipando ai negoziati per definire le priorità legislative della maggioranza del nuovo Parlamento Europeo, che dovrebbero essere diffuse a giorni.

Se ai Popolari andrà la Commissione e ai Liberali o ai Verdi il Parlamento, i Socialisti potrebbero esprimere il presidente del Consiglio Europeo, una carica molto influente e tuttavia gravosa rispetto alle altre in ballo, perché slegata dalle istituzioni più laboriose come Commissione e Parlamento: di recente il presidente della Commissione Europea uscente Jean-Clude Juncker ha ammesso che avrebbe preferito presiedere il Consiglio Europeo. Per questa ragione nei giorni scorsi diversi quotidiani italiani – Repubblica su tutti – avevano scritto che l’incarico era stato offerto a Enrico Letta, esponente del Partito Democratico italiano e soprattutto ex presidente del Consiglio, prerequisito considerato piuttosto rilevante per presiedere l’istituzione.

E quindi?
Il Financial Times ha scritto che al momento il Consiglio Europeo del 20 giugno potrebbe finire in quattro modi. Primo: uno stallo, che non porta a una decisione su nessuna delle nomine in ballo: «nessun candidato sarebbe definitivamente fuori, ma qualcuno potrebbe uscirne meglio di altri». In quel caso un accordo sulla presidenza del Parlamento – la scadenza più imminente da rispettare – sarà probabilmente trovato al di fuori delle riunioni ufficiali nei giorni immediatamente precedenti. Al momento sembra la soluzione più probabile, scrive il Financial Times.

Il Consiglio potrebbe invece decidere di resuscitare il sistema dello spitzenkandidat e assegnare un mandato informale a uno dei tre candidati principali – Weber per i Popolari, Frans Timmermans per i Socialisti e Vestager per i Liberali – per provare a mettere insieme una maggioranza al Parlamento Europeo, che dovrà approvare la loro nomina. I leader europei potrebbero invece decidere di discutere certe nomine prima di altre, nel caso risultasse più semplice: come ad esempio la presidenza del Consiglio Europeo o della Banca Centrale, che non necessitano di alcuna approvazione del Parlamento. Ma lo stesso Financial Times spiega che le trattative e i veti reciproci fra le varie famiglie politiche – che esistono anche all’interno del Consiglio – renderanno comunque complicata la scelta, esattamente come nel caso delle presidenze di Commissione e Parlamento.

Infine c’è la possibilità che il Consiglio del 20 giugno finisca «in maniera cruenta»: «il tentativo guidato da Macron di far fuori Weber potrebbe avere come effetto collaterale quello di far fuori gli altri spitzenkandidaten, e anche un paio di altri candidati francesi che al momento fanno finta di non essere interessati. Ma i leader vorranno evitare un tale spargimento di sangue (politico) al più importante tavolo politico europeo», e di conseguenza potrebbero scegliere di rinviare la discussione alla settimana prossima.

E l’Italia?
Come ipotizzato da diversi giornali negli ultimi giorni, sta giocando un ruolo decisamente marginale. L’Italia è infatti l’unico paese dell’Europa occidentale – oltre al Regno Unito, che però è un caso a sé – in cui le elezioni europee sono state stravinte da un partito euroscettico e di destra radicale, la Lega, che non fa parte delle famiglie politiche che gestiranno la prossima legislatura europea. Il Movimento 5 Stelle, che assieme alla Lega fa parte della maggioranza che esprime il governo italiano, in Europa è così isolato che sta facendo fatica a unirsi a un gruppo parlamentare nel nuovo Parlamento Europeo.

Al momento due delle quattro cariche di cui parlavamo sono detenute da italiani: Mario Draghi alla presidenza della BCE e Antonio Tajani a quella del Parlamento Europeo. Nel calcolo potremmo aggiungere Federica Mogherini, attuale Alto rappresentante degli affari esteri e vicepresidente della Commissione Europea. Da qui a novembre, sembra difficile che le tre cariche possano rimanere nelle mani di un italiano, sia per ragioni politiche sia per la naturale rotazione nella gestione del potere. L’unica che ancora potrebbe essere in ballo, per le ragioni che elencavamo prima, è la presidenza del Consiglio Europeo.

Sembra inoltre che alcuni esponenti del governo italiano, su tutti il segretario della Lega Matteo Salvini, stiano concentrando i loro sforzi per riservare all’Italia un incarico rilevante nella prossima Commissione Europea (che per le leggi europee deve avere un commissario per ciascun paese dell’UE). Si parla soprattutto di uno dei due incarichi economici, che in questa legislatura si sono spartiti il lettone Valdis Dombrovskis e il francese Pierre Moscovici.

Tuttavia è improbabile che il nuovo presidente decida di assegnare un incarico così delicato a un politico espresso dall’attuale governo italiano, che quindi probabilmente non appartiene alle famiglie politiche che governano la legislatura europea. Ogni commissario deve inoltre passare una severa audizione del Parlamento Europeo, dove la maggioranza è nettamente europeista e potrebbe bloccare candidati eccessivamente legati a partiti euroscettici: dall’altra parte, candidando un profilo più tecnico come ad esempio quello degli attuali ministri Giovanni Tria e Enzo Moavero Milanesi, il governo potrebbe ritenere di non sentirsi adeguatamente rappresentato.