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  • Lunedì 8 aprile 2019

Guida alle elezioni in Israele

I sondaggi dicono che sarà una gara a due – Benjamin Netanyahu contro Benny Gantz – ma molto dipenderà dalle alleanze post-elettorali

Un adesivo di Benny Gantz (Amir Levy/Getty Images)
Un adesivo di Benny Gantz (Amir Levy/Getty Images)

Martedì in Israele si vota per rinnovare la Knesset, il Parlamento unicamerale israeliano incaricato tra le altre cose di votare la fiducia al governo. Il principale favorito è l’attuale primo ministro uscente, il conservatore Benjamin Netanyahu, che nonostante gli scandali che lo hanno colpito negli ultimi anni sembra avere buone probabilità di ottenere un quinto mandato (il quarto consecutivo), traguardo che prima di lui aveva raggiunto solo David Ben-Gurion, fondatore dello stato di Israele. Netanyahu dovrà vedersela soprattutto con Benny Gantz, ex capo dell’esercito israeliano e oggi alla guida di un’alleanza politica di centro che include tre partiti. Né Netanyahu né Gantz comunque raggiungeranno da soli la maggioranza assoluta dei seggi, ed entrambi proveranno ad allearsi con alcuni dei partiti che supereranno lo sbarramento del 3,25 per cento fissato per entrare in Parlamento.

Le elezioni di martedì sono elezioni anticipate, convocate da Netanyahu nel dicembre 2018 a causa della fragilità della maggioranza di governo e delle indagini avviate dalla magistratura sul suo conto. È molto difficile fare previsioni sull’esito del voto, ma qualcosa si può già dire sui fenomeni che negli ultimi anni hanno cambiato il contesto politico: lo spostamento a destra della gran parte dei partiti, la perdita di rilevanza della questione palestinese, le intenzioni degli ultraortodossi e degli arabi israeliani e l’importante ruolo che ha avuto il presidente statunitense Donald Trump negli ultimi mesi di campagna elettorale.

Una gara a due: Netanyahu vs Gantz
I partiti che si presentano alle elezioni sono una quarantina, ma secondo i sondaggi a entrare in Parlamento saranno tra i 10 e i 14. Davanti a tutti ci sono il Likud di Benjamin Netanyahu, partito di destra che ha governato Israele negli ultimi dieci anni, e il Blu e Bianco, forza politica di centro nata dall’alleanza tra l’ex capo dell’esercito Benny Gantz e l’ex popolare giornalista televisivo Yair Lapid.

Un manifesto elettorale di Benjamin Netanyahu (AP Photo/Ariel Schalit)

Il Likud arriva da anni delicati, in cui ha consolidato moltissimo il suo potere e i suoi consensi ma che sono stati segnati anche dagli scandali che hanno colpito Netanyahu. Alla fine di febbraio il procuratore generale israeliano ha annunciato la decisione di accogliere la richiesta della polizia di incriminare il primo ministro, accusandolo formalmente di corruzione e frode in uno dei tre casi in cui è coinvolto e di violazione di fiducia negli altri due.

Finora gli scandali non sembrano avere indebolito più di tanto Netanyahu, che però potrebbe cominciare a pagare le conseguenze di tutti i suoi guai giudiziari al momento di fare alleanze post-elettorali per poter governare: in cambio dell’appoggio a una legge retroattiva che impedisca a un primo ministro in carica di essere processato – una legge che servirebbe per mettere al sicuro Netanyahu – il Likud potrebbe dover fare concessioni importanti ad alcuni partiti minori molto nazionalisti e ancora più conservatori.

Secondo David Halbfinger, giornalista del New York Times, il Likud potrebbe essere spinto a fare passi concreti verso l’annessione da parte di Israele di una parte o di tutta la Cisgiordania, un’opzione che pochi giorni fa Netanyahu aveva detto apertamente di tenere in considerazione, secondo molti per ingraziarsi le forze politiche più di destra. L’annessione parziale della Cisgiordania – si parla sia di grandi blocchi di colonie israeliane sia di insediamenti più isolati – potrebbe essere facilitata dall’appoggio quasi incondizionato che Netanyahu sta avendo dall’amministrazione di Donald Trump, che è diventato evidente con la decisione degli Stati Uniti di riconoscere la sovranità israeliana sulle Alture del Golan.

Il principale avversario di Netanyahu, quello che secondo il quotidiano israeliano Haaretz potrebbe «chiudere il suo regno», ha preso forma a febbraio con l’alleanza tra Gantz e Lapid, che fino a quel momento erano a capo di forze politiche diverse, entrambe moderate e centriste: Gantz di Hosen L’Yisrael, fondato nel dicembre 2018 dallo stesso ex capo dell’esercito israeliano, e Lapid di Yesh Atid, fondato dal 2012 e per molto tempo sostenitore della cosiddetta «soluzione dei due stati», cioè quella che prevede l’esistenza di uno stato palestinese e di uno israeliano. La nuova formazione, chiamata Blu e Bianco, si è posizionata alla sinistra di Netanyahu (ma non a sinistra dello schieramento politico israeliano) su diverse questioni: tra le altre cose ha mostrato di avere un approccio non troppo ideologico verso il conflitto israelo-palestinese e di preferire soluzioni liberali in economia e in molte questioni sociali.

Benny Gantz, a sinistra, e Yair Lapid (AP Photo/Ariel Schalit)

Dopo essere stata avanti nei sondaggi, l’alleanza Blu e Bianco è stata nuovamente raggiunta e poi superata dal Likud, che ora viene dato come primo partito. La formazione di Gantz e Lapid rimane comunque l’avversario più temibile per Netanyahu, probabilmente l’unico in grado di mettere in dubbio il suo quinto mandato.

Quelli che conteranno poco: i Laburisti e i partiti arabi
Uno dei trend più visibili della politica israeliana degli ultimi anni è stato un generale spostamento a destra di tutti i partiti, con pochissime eccezioni. Alle elezioni del 2015, per esempio, la principale forza di opposizione era Unione Sionista, di centrosinistra, formata dal Partito laburista e da Hatnuah di Tzipi Livni (definita anche «uno dei migliori primi ministri che Israele non ha mai avuto»); oggi il principale partito di opposizione è invece Blu e Bianco, che include diversi importanti politici di destra, come Moshe Ya’alon, e che fa il possibile per negare qualsiasi legame con la sinistra israeliana.

Uno dei partiti che più ha sofferto questo generale spostamento a destra è stato il Partito Laburista, storica forza politica al governo per decenni, che tra le altre cose guidò Israele alla firma degli Accordi di Oslo con i palestinesi, nel 1993. I Laburisti si presentano alle elezioni di martedì da soli, perché nel frattempo Unione Sionista si è sciolta, e un po’ più a destra rispetto al passato: sotto la leadership di Avi Gabbay, infatti, il partito ha rinunciato a parlare di alcuni temi che lo distanziavano molto dal Likud, per esempio la sicurezza e la questione israelo-palestinese, e ha adottato politiche miste, ha scritto il Times of Israel. Secondo gli ultimi sondaggi, il Partito Laburista potrebbe ottenere una decina di seggi, molto pochi se confrontati con gli attuali 30 del Likud.

Avi Gabbay (AP Photo/Tsafrir Abayov)

Le elezioni di martedì saranno probabilmente complesse anche per i partiti arabi israeliani, che rispetto al voto del 2015 non si presenteranno tutti uniti sotto un’unica lista. In Israele gli arabi israeliani sono circa il 17 per cento della popolazione, pari più o meno a 20 seggi in Parlamento (la Knesset è formata da 120 seggi), ma da sempre la loro partecipazione alle elezioni è molto più bassa di quella del resto degli aventi diritto al voto (nel 2015 fu del 63 per cento, contro il 72 del resto).

Secondo gli ultimi sondaggi, martedì l’affluenza ai seggi degli arabi israeliani potrebbe essere ancora più bassa, attorno al 50 per cento, determinante per decidere l’assegnazione di soli due seggi e mezzo.

Secondo il giornalista di Haaretz David Green, il problema non sarebbe una presunta apatia dell’elettorato arabo, ma una forte sensazione di esclusione e discriminazione percepita negli ultimi anni. Il governo Netanyahu ha infatti messo in discussione in diverse occasioni la lealtà e i diritti degli arabi israeliani, adottando anche leggi dure, come quella molto contestata che ha riformulato la definizione costituzionale di Israele modificandola da «stato ebraico e democratico» in «patria nazionale del popolo ebraico». Thabet Abu Rass, co-direttore dell’associazione no-profit Abraham Fund Initiatives, ha paragonato l’attuale campagna elettorale in Israele a una partita di calcio in cui le due squadre sono la destra ebraica e il centrosinistra, «e noi, gli arabi, siamo la palla. Tutti ci prendono a calci e nessuno ci vuole».

Come andrà
Una prima valutazione dei risultati elettorali si potrà fare confrontando la percentuale di voti presi dal Likud e da Blu e Bianco, ma per capire come sarà fatto il nuovo governo bisognerà aspettare le alleanze post-elettorali. Bisognerà quindi guardare i risultati di alcuni partiti che dai sondaggi sembrano poter diventare l’ago della bilancia, come lo Zehut dell’ultranazionalista Moshe Feiglin, che ha una piattaforma molto curiosa: è favorevole alla legalizzazione della cannabis, ha posizioni intransigenti verso i palestinesi, che vorrebbe emigrassero dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, e vorrebbe che venisse costruito un terzo tempio sul Monte del Tempio, luogo più sacro di Gerusalemme.

Moshe Feiglin (AP Photo/Tsafrir Abayov)

Secondo alcuni analisti, il voto di martedì in Israele assomiglierà a una specie di referendum sull’operato di Netanyahu, che negli ultimi anni ha monopolizzato il dibattito politico nazionale e ha costretto i suoi oppositori a confrontarsi sui temi a lui più cari. I primi exit poll si avranno alla chiusura dei seggi alle 21 di martedì, mentre per sapere qualcosa in più si dovranno aspettare diversi giorni.

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