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  • Sabato 14 luglio 2018

C’è anche chi vuole entrarci, nell’Unione Europea

I paesi dei Balcani ci provano da anni, facendo anche progressi per soddisfare i requisiti: ma secondo alcuni il vero ostacolo sono i paesi già membri

I leader e i diplomatici dei paesi balcanici insieme alla prima ministra britannica Theresa May e alla cancelliera tedesca Angela Merkel al summit di Londra. (Leon Neal/Pool via AP)
I leader e i diplomatici dei paesi balcanici insieme alla prima ministra britannica Theresa May e alla cancelliera tedesca Angela Merkel al summit di Londra. (Leon Neal/Pool via AP)

Lunedì e martedì, a Londra, si è tenuto un summit sul processo di inclusione nell’Unione Europea di sei nazioni dei Balcani: Serbia, Montenegro, Macedonia, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo e Albania. I risultati sono stati però perlopiù vaghi e deludenti, come era già intuibile dalle premesse che si prestavano a una certa ironia, ha notato il Financial Times. La persona che avrebbe dovuto inaugurare e presiedere il summit, il ministro degli Esteri britannico Boris Johnson, non si è presentato perché proprio lunedì si è dimesso, per motivi in un certo senso opposti a quelli perseguiti dal summit: Johnson protesta contro la linea, a suo avviso troppo morbida, della prima ministra Theresa May su Brexit, il processo con cui il Regno Unito lascerà l’Unione Europea.

Le dimissioni di Johnson hanno incasinato un summit già delicato, e lo hanno ampiamente oscurato nella copertura mediatica. A presiedere il summit è stato il suo vice Alan Duncan, il cui posto è stato preso il giorno successivo dal nuovo ministro degli Esteri Jeremy Hunt, affiancato da May e dall’Alta rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri Federica Mogherini. Ma i progressi nel percorso che potrebbe portare, nei prossimi anni, a un ingresso nell’Unione dei paesi dei Balcani sono stati sostanzialmente assenti, così come lo erano stati nel precedente summit tenuto a Sofia a maggio.

Albania, Macedonia, Montenegro e Serbia sono ufficialmente stati candidati a entrare nell’Unione, mentre Bosnia e Kosovo non hanno ancora ottenuto ufficialmente tale status, nonostante le trattative siano avviate da anni. I leader di Montenegro e Serbia dicono da tempo di puntare all’adesione completa entro il 2025, una data troppo ottimista secondo gli esperti. Ma è la stessa pronosticata da Behgjet Pacolli, ministro degli Esteri del Kosovo, che ancora deve ottenere lo status di paese candidato. A Sofia, Macedonia e Albania hanno ottenuto un accordo per iniziare formalmente le trattative per l’ammissione nell’Unione, ma soltanto a partire dal giugno del 2019, e a condizione che nei prossimi 12 mesi continui il processo di riforme richieste.

Da tempo l’Unione Europea ripete che non intende accettare paesi che abbiano in sospeso dispute territoriali, una richiesta che si riferisce soprattutto alle controversie in corso tra Bulgaria e Macedonia, Kosovo e Serbia, Macedonia e Grecia. Alcune di queste, in realtà, da tempo sono in fase di risoluzione. Proprio da Macedonia e Grecia, per esempio, sono arrivati negli ultimi mesi i segnali più incoraggianti: dopo una lunghissima trattativa, a giugno la Macedonia ha accettato di cambiare il proprio nome in Repubblica della Macedonia settentrionale, mettendo fine a quella che i greci vedono come un’ambizione territoriale della Macedonia sull’omonima regione della Grecia. La proposta deve però ancora essere accettata dal parlamento greco e da un referendum macedone, due passaggi non scontati.

Lo scorso febbraio, poi, Kosovo e Montenegro hanno raggiunto un accordo per mettere fine a una disputa territoriale (approvato infine anche dal parlamento kosovaro, dopo che l’opposizione aveva tirato dei fumogeni in aula per protesta); Macedonia e Bulgaria nell’ultimo anno hanno firmato un trattato di amicizia; e Albania e Grecia da anni fanno progressi per mettere fine a varie antiche tensioni.

Ma per l’Unione Europea rimangono altri problemi da risolvere prima di accelerare le trattative per l’ingresso dei paesi balcanici: il livello di corruzione e le lacune nel rispetto dello stato di diritto, per esempio. In altri casi, i problemi sono ancora più evidenti: l’indipendenza del Kosovo, ottenuta dalla Serbia nel 2008, non è per esempio riconosciuta da cinque paesi europei. Sono Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e perfino la Spagna, il cui problema con il Kosovo è legato alle spinte indipendentiste interne della Catalogna.

Diversi leader dei paesi balcanici coinvolti, però, ritengono che gli sforzi da parte loro ci siano stati, e che si siano fatti progressi tangibili per venire incontro alle richieste dell’Unione Europea. Nikola Dimitrov, il ministro degli Esteri macedone e uno dei leader balcanici più europeisti, ha insistito recentemente sul fatto che il suo paese stia «inseguendo un treno» nonostante abbia dovuto aspettare a lungo. Commentando Brexit, Dimitrov ha detto che «forse i paesi che stanno dentro [l’Unione Europea] si sono dimenticati quanto freddo faccia fuori».

Secondo alcuni osservatori, in effetti, gli ostacoli alla loro inclusione arrivano più che altro dagli stessi paesi europei. È stata un po’ la posizione espressa dal presidente francese Emmanuel Macron dopo il summit di Sofia, quando disse: «Credo che dobbiamo guardare con molta prudenza e rigore a qualsiasi nuovo allargamento. Gli ultimi 15 anni hanno mostrato un percorso che ha indebolito l’Europa, pensando sempre che dovesse essere estesa».

Un diffuso sentimento tra i leader europei è che ci siano già troppe tensioni e instabilità tra i paesi membri, anche senza contare Brexit. Un diplomatico che lavora nei Balcani ha detto al Guardian che «con Ungheria, Polonia e Croazia che vanno nella direzione in cui stanno andando, non c’è interesse nell’aggiungere altri paesi con gli stessi problemi. Ma se interrompi il processo di integrazione nell’Unione poi è molto difficile riprenderlo, e c’è molto da rimetterci a spingere questi paesi verso la Cina o la Russia».

Proprio l’influenza di potenze straniere sui Balcani è un altro dei principali motivi di preoccupazione dei paesi europei. Srecko Latal, giornalista che dagli anni Novanta si occupa dei Balcani, ha però sostenuto su Balkan Insight che questo problema è in realtà un cane che si morde la coda. Secondo Latal, sono stati proprio il vuoto lasciato dalle potenze occidentali sull’area, il disinteresse dimostrato verso il processo di ammissione nell’Unione, l’ascesa dei populismi da Trump negli Stati Uniti a Orban in Ungheria, e in generale la crisi della democrazia liberale occidentale a spingere i paesi balcanici verso la Russia, la Turchia, la Cina, l’Iran e gli Stati del Golfo. «Invece di portare la democrazia nei Balcani, il 21esimo secolo ha balcanizzato il mondo».

Queste potenze avevano hanno legami con i Balcani da molto tempo: la Russia e la Serbia sono paesi amici da decenni, mentre Turchia, Iran e i paesi del Golfo persico esercitano da tempo influenza sulla Bosnia e sulle altre aree di religione musulmana. Per i paesi balcanici, l’amicizia e la collaborazione con queste potenze ha rappresentato un’alternativa attraente di fronte alla progressiva scomparsa della presenza occidentale nell’ultimo decennio. La scorsa settimana, per esempio, i paesi dei Balcani occidentali sono stati invitati dalla Cina a un summit in Bulgaria per parlare di possibili investimenti nell’area. In altri casi l’influenza è passata per vie meno trasparenti: il Montenegro accusa la Russia di aver tentato un colpo di stato nel paese nel 2016, e la Grecia ha appena espulso due diplomatici russi accusati di provare a sabotare l’accordo con la Macedonia.

Secondo Latal, «la migliore, se non l’unica, soluzione a queste influenze “maligne” sarebbe far ripartire e rendere concreto il processo di allargamento dell’Unione Europea. Ma sembra che questo piatto non sarà sul menu di nessun summit, per un po’ di tempo a venire». È la stessa posizione espressa dal Financial Times in un editoriale della redazione pubblicato dopo il summit di Londra:

«Dopo due decenni di attesa, le nazioni dei Balcani occidentali stanno perdendo la speranza che le porte dell’Unione si possano aprire. In una regione di divisioni etniche e religiose, che ancora si sta riprendendo dalle guerre degli anni Novanta, questo crea dei veri pericoli. Rimuove l’incentivo più potente per le riforme democratiche ed economiche, e per la riconciliazione tra i paesi. E inoltre apre un vuoto che altre potenze, Cina e Russia, sono smaniose di riempire. Se non altro, si potrebbe perdere una storica opportunità per stabilizzare i Balcani, con conseguenze potenzialmente tragiche.