Israele vuole espellere migliaia di migranti
Tra molte critiche il governo ha iniziato a inviare avvisi di espulsione a più di 30 mila persone, che saranno portate in Africa
In questi giorni diversi giornali internazionali si stanno occupando del piano del governo di Israele per espellere più di 34 mila migranti, la maggior parte dei quali proveniente dal Sudan e dall’Eritrea, arrivata in Israele tra il 2006 e il 2012. Gli avvisi di espulsione, che sono stati emanati negli ultimi giorni, non indicano il paese in cui i migranti saranno portati, ma il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che sarà una destinazione sicura in un paese dell’Africa: non sarà l’Eritrea, dove le persone rischierebbero la vita, né il Sudan con il quale non c’è alcuna relazione diplomatica. I gruppi locali che lavorano per i diritti dei e delle migranti hanno parlato dell’Uganda e del Ruanda. Il piano è in generale molto contestato e ha contribuito alle divisioni politiche interne tra nazionalisti e non nazionalisti, che insistono sul fatto che Israele stessa sia stata creata dai rifugiati e dai sopravvissuti all’Olocausto.
Il piano proposto dal governo di Netanyahu coinvolge migliaia di persone che vivono in Israele anche da dieci anni e prevede due opzioni: accettare “volontariamente” l’espulsione dal paese in cambio di 3.500 dollari, oppure essere trasferiti in modo forzato in un centro di detenzione per un tempo indeterminato. I primi avvisi sono stati consegnati a circa 20 mila persone e dicono che ci sono due mesi di tempo per lasciare il paese prima di rischiare di finire in prigione. Del piano si era parlato anche nel 2014, quando il quotidiano di Tel Aviv Haaretz aveva scritto negli ultimi mesi che decine di richiedenti asilo provenienti dall’Africa avevano accettato di aderire a un programma di “partenza volontaria” promosso dal governo attraverso pressioni e una serie di incentivi economici. In quell’occasione la Population and Immigration Authority aveva rifiutato di fornire spiegazioni non confermando la notizia ufficialmente.
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La direttiva ha ricevuto molte critiche. Diversi attivisti e alcuni rabbini hanno creato un movimento ispirato ad Anna Frank per sostenere i migranti africani: stanno cercando di mettere in piedi un programma di protezione, diverse campagne di sensibilizzazione e sono arrivati ad affermare che se il governo non si fermerà nasconderanno i migranti minacciati di espulsione nelle loro case. Un programma televisivo molto popolare ha poi modificato i nomi di alcuni attori elencandoli non con il loro nome ma con la frase “nipote di un rifugiato dalla Russia” o “nipote di un rifugiato dall’Iraq”. Un gruppo di accademici, intellettuali e di sopravvissuti all’Olocausto ha scritto una lettera aperta a Netanyahu, dicendo: «Noi che sappiamo cosa significa essere un rifugiato, cosa significa essere senza una casa e uno stato che protegga dalla violenza e dalla sofferenza, non possiamo comprendere come un governo ebraico possa espellere rifugiati e richiedenti asilo verso la sofferenza, il dolore e la morte». Infine, alcuni piloti della compagnia aerea di bandiera hanno annunciato che si rifiuteranno di espellere i migranti nei paesi terzi e molte organizzazioni non governative hanno sottoscritto un appello per fermare il piano.
Il governo di Israele ha insistito che la sua politica di espulsione non viola il diritto internazionale e che i migranti non verranno rispediti in paesi devastati dalla guerra. Ha poi fatto sapere che nessuno dei migranti che rientra nel piano è un rifugiato politico e che sono invece persone senza un regolare permesso. I gruppi per i diritti umani sostengono però che il governo di Netanyahu abbia ostacolato il riconoscimento dello status di richiedente asilo e che su 15mila pratiche presentate solo 12 siano state approvate. Nel frattempo il Ruanda ha fatto sapere che non accetterà i migranti espulsi contro la loro volontà e il ministro alle Relazioni Internazionali dell’Uganda ha detto che con Israele non c’è alcun accordo.
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Ayelet Shaked, ministro della Giustizia e membro del partito Focolare ebraico, di estrema destra e nazionalista, ha detto che «Israele non è un’agenzia di collocamento dell’Africa». Secondo un sondaggio realizzato un anno fa, Israele è nella parte bassa della classifica che misura l’accettazione degli immigrati da parte della popolazione “locale” dei vari paesi. Le motivazioni sono sempre le stesse: alcune persone hanno detto di aver paura che i migranti facciano aumentare la criminalità e altri che la loro presenza indebolirà lo stato ebraico. L’Economist ha spiegato che queste motivazioni hanno poco a che fare con la realtà: l’economia di Israele è in rapida crescita, la disoccupazione è a un livello bassissimo e semmai nel paese c’è bisogno di manodopera. La presenza di 34 mila migranti, poi, difficilmente trasformerà l’identità di una popolazione che conta quasi di 9 milioni di persone. Infine, il flusso di migranti africani in Israele attraverso l’Egitto si è interrotto nel 2013, dopo che Netanyahu ha eretto una nuova barriera di confine.
Il dibattito in Israele sul piano del governo sta comunque esasperando le divisioni tra coloro che sostengono il nazionalismo ebraico e chi insiste, innanzitutto, sui valori ebraici della carità. I critici stanno anche rimettendo in discussione la cosiddetta “legge del ritorno”, una legge degli anni Cinquanta che garantisce la cittadinanza israeliana a ogni persona di discendenza ebraica, purché si trasferisca in Israele con l’intenzione di viverci. La legge del ritorno è una delle basi dell’esistenza dello stato di Israele, ma crea un sistema a due livelli perché non prevede alcun processo standard di naturalizzazione per i non ebrei. Questa legge può aver avuto senso quando Israele offriva un rifugio agli ebrei perseguitati e non poteva permettersi un’accoglienza maggiore. Ora, conclude l’Economist, Israele è un paese prospero che ha bisogno di lavoratori e «la maggior parte degli ebrei di tutto il mondo vive in pace e non vuole esercitare il proprio diritto di trasferirsi in Israele».
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