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  • Venerdì 20 ottobre 2017

Come l’indipendentismo si è mangiato la Catalogna

La storia di uno "scontro di treni" annunciato: ovvero, come siamo arrivati fin qui?

di Elena Zacchetti

Sostenitori dell'indipendenza della Catalogna a Barcellona, il 10 ottobre 2017 (Chris McGrath/Getty Images)
Sostenitori dell'indipendenza della Catalogna a Barcellona, il 10 ottobre 2017 (Chris McGrath/Getty Images)

Il 10 gennaio 2016 la presidente del Parlamento catalano, Carme Forcadell, annunciò che la votazione per il nuovo presidente del governo catalano era andata a buon fine: con 70 voti Carles Puigdemont, allora sindaco di Girona, era stato eletto nuovo presidente della Catalogna. L’accordo sul nome di Puigdemont, politico di un partito di centrodestra con una grande tradizione di governo in Catalogna, era stato trovato solo il giorno precedente, dopo due sessioni fallite a causa di disaccordi tra la coalizione che aveva ottenuto più voti alle elezioni, Junts pel Sí, formata da politici della sinistra e del centrodestra indipendentisti catalani, e l’altra forza indipendentista presente nel Parlamento catalano, la CUP, un partito di sinistra radicale e marxista. L’elezione di Puigdemont fu accolta dai deputati della nuova maggioranza parlamentare con un grande applauso e molti sorrisi, visto lo scampato pericolo di dover andare a nuove elezioni.

Puigdemont, 54 anni, era fino a quel momento un politico semisconosciuto: era un giornalista, poi nel 2006 era stato eletto deputato nel Parlamento catalano. Fin da subito era stato preso in giro per la sua capigliatura.

Dopo l’annuncio di Forcadell, Puigdemont si alzò dal suo scranno e andò ad abbracciare Artur Mas, politico di spicco del suo stesso partito e presidente uscente. Mas era il candidato designato da Junts pel Sí, ma si era ritirato poco prima a causa di un veto della CUP sul suo nome. Puigdemont lo ringraziò, strinse la mano ai suoi alleati di partito, come Jordi Turull, che sarebbe diventato il portavoce del suo governo, e a chi aveva sostenuto la sua candidatura, come la deputata della CUP Anna Gabriel. Poi fece un breve discorso di fronte ai deputati che terminò con «Visca Catalunya lliure», frase in catalano che significa: «Viva la Catalogna libera». Prima di chiudere la seduta, Forcadell chiese ai deputati di non abbandonare subito l’emiciclo: si sarebbe cantato l’inno ufficiale della Catalogna, Els Segadors, un canto molto ricorrente anche durante le manifestazioni a favore dell’indipendenza catalana. Si alzarono tutti in piedi, la musica partì e i deputati cominciarono a cantare: davanti, nella parte destra dell’emiciclo, quelli di Junts pel Sí, per lo più in giacca e cravatta; dietro quelli della CUP, in felpa e maglietta, con il pugno alzato.

Era una coalizione come se ne vedono poche in giro, e che resiste ancora oggi: riuniva deputati marxisti antisistema (della CUP) che avevano dato appoggio al partito di centrodestra che in quel momento apparteneva più di tutti al sistema (PDeCAT, di Puigdemont e del presidente uscente Mas, persino coinvolto in alcuni scandali negli anni precedenti), che a sua volta si era alleato a un partito di sinistra tradizionalmente molto autonomista e poi indipendentista (Esquerra Republicana, ERC). C’era una sola cosa, una sola, che li accomunava: l’indipendenza della Catalogna.

Già allora l’indipendentismo si era mangiato tutto il resto della politica catalana, rendendo inutili le normali divergenze e discussioni politiche in nome di un obiettivo considerato più importante di ogni altra questione economica e sociale. Questo processo, che visto da qui sembra una cosa di fantapolitica, era avvenuto in una delle regioni più ricche e produttive d’Europa. Come era stato possibile?

Il presidente catalano Carles Puigdemont stringe la mano alla deputata della CUP Anna Gabriel nel Parlamento catalano, a Barcellona, il 29 settembre 2016 (AP Photo/Manu Fernandez)

L’indipendentismo catalano, che non lo era fino a pochi anni fa
Il movimento che oggi sostiene l’indipendenza della Catalogna non è venuto fuori dal niente: non è nato tre settimane fa, con il referendum dell’1 ottobre, né tantomeno con l’investitura di Puigdemont a presidente, nel gennaio 2016. È cresciuto nel tempo, ha avuto un’enorme accelerazione negli ultimi sette anni ma cominciò a formarsi dopo la fine del regime fascista di Francisco Franco che si impose durante la Guerra civile spagnola nella Seconda metà degli anni Trenta e terminò con la cosiddetta “transizione”, nella metà degli anni Settanta.

Durante il franchismo, tanto in Catalogna come nel resto della Spagna, furono annullate le libertà democratiche, tra cui la libertà di stampa, e vennero dichiarati fuori legge tutti i partiti politici. Franco soppresse lo Statuto di Autonomia della Catalogna, cioè la norma isitituzionale che regola i rapporti tra lo Stato spagnolo e la regione autonoma della Catalogna, oltre che qualsiasi organo o istituzione dell’autogoverno, e vietò l’uso della lingua catalana nell’amministrazione pubblica, nelle scuole e nei mezzi di comunicazione. Con la fine del franchismo fu scritta la nuova Costituzione spagnola e nel 1979 fu negoziato un nuovo Statuto, con il quale la Catalogna ottenne lo status di “Comunità Autonoma” e il diritto all’autogoverno. Negli anni successivi il Parlamento catalano approvò una serie di leggi per promuovere la lingua e la cultura catalane, un processo che allora era visto come necessario per riappropriarsi dell’identità e dei diritti soppressi durante il franchismo.

Mariam Tey, vicepresidente della Societat Civil Catalana (SCC) – l’organizzazione anti-indipendentista che ha organizzato la grande manifestazione unionista dell’8 ottobre – ha raccontato al Post: «All’inizio questo movimento era molto ben accolto da un po’ tutti i catalani, perché era una risposta alla dittatura. Tutti volevamo avere una lingua e una cultura catalana più presenti nella società. Per molti anni questo movimento fu visto come una novità. Poi, quando ci accorgemmo che era la strada verso un’indipendenza radicale, era troppo tardi. Non avevamo le risorse per poterlo fermare».

Per molti anni in Catalogna l’indipendentismo fu una componente minoritaria delle forze politiche rappresentate in Parlamento. Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila si cominciò a parlare di un approccio federale, che doveva passare per l’approvazione di un nuovo Statuto di Autonomia, anche perché quello in vigore era ormai vecchio di vent’anni. La proposta arrivò da Pasqual Maragall, che faceva parte del PSC, la sezione socialista catalana del Partito Socialista (PSOE), il principale partito di sinistra spagnolo. Maragall ottenne l’appoggio di ERC, che oggi sostiene il governo Puigdemont e che già allora era indipendentista. Iniziò così un lungo processo di riforma che si concluse nel 2006, durante il quale Convergéncia i Unió (la coalizione di centrodestra da cui nacque l’attuale PDeCAT) mantenne una posizione in generale collaborativa, ma in certi momenti molto ambigua.

Il presidente catalano Pasqual Maragall (PSC), a sinistra, e il primo ministro spagnolo Jose Luis Zapatero (PSOE) al Parlamento catalano, Barcellona, 27 luglio 2006 (LLUIS GENE/AFP/Getty Images)

Il fatto che le proposte di maggiore autonomia economica, politica e culturale arrivassero da forze politiche di sinistra, ha spiegato al Post Albert Marcet – docente di economia all’Università Autonoma di Barcellona, indipendentista – non deve stupire più di tanto: «In Spagna il “nazionalismo” delle regioni è sempre andato di pari passo con le sinistre, ed è stato così per tutto il Ventesimo secolo. Dall’altra parte il “nazionalismo” spagnolo è sempre stato vicino alle destre (anche se non sempre)». Questo è uno dei motivi per cui oggi spesso chi è anti-indipendentista – di qualsiasi orientamento politico, anche di sinistra – viene accusato di essere di destra, o addirittura franchista.

Lo Statuto di Autonomia della Catalogna elaborato dalle sinistre fu approvato dal Parlamento catalano nel 2005. Fu un processo molto travagliato, che doveva mettere d’accordo tra loro innanzitutto i partiti catalani e poi la politica catalana con l’allora governo spagnolo, guidato dal socialista José Luis Zapatero. Furono fatte diverse rinunce: per esempio la formulazione “la Catalogna è una nazione” fu messa nel preambolo, dove non avrebbe avuto effetti giuridici. Il testo finale, diverso da quello inizialmente proposto dalle sinistre catalane, fu comunque approvato dal Parlamento spagnolo e poi di nuovo in un referendum tenuto in Catalogna nel 2006, con il 73 per cento dei voti favorevoli. Nel giugno del 2010 però, a seguito di un ricorso del Partito Popolare, che era sempre stato contrario a rinegoziare l’autonomia, il Tribunale costituzionale spagnolo – il massimo organo giuridico del paese, più o meno l’equivalente della nostra Corte Costituzionale – dichiarò incostituzionali 14 articoli dello Statuto, svuotandolo parzialmente. La decisione del Tribunale fu seguita da enormi proteste in diverse città catalane. La frustrazione tra coloro che l’avevano promosso e sostenuto fu enorme. Protestarono tutti i partiti politici in Parlamento tranne il PP e Ciutadans, partito catalano che in seguito riuscì ad entrare anche nel Parlamento spagnolo con il nome Ciudadanos.

La bocciatura dello Statuto di Autonomia viene considerata oggi uno dei momenti più rilevanti per l’accelerazione dell’indipendentismo in Catalogna, ma non l’unico e non il più importante.

Secondo molti, la spinta principale fu la crisi economica iniziata nel 2007-2008 e che ebbe i suoi effetti più disastrosi negli anni successivi. In altri paesi europei la crisi portò alla nascita di nuovi partiti politici populisti e anti-establishment, e anche in Spagna si vide un fenomeno simile con la nascita di Podemos. In Catalogna però fu diverso. La rabbia conseguente alla crisi rafforzò il fronte autonomista e indipendentista, che aveva avuto nel corso degli anni il “nemico perfetto”, quello che ancora oggi fa da calamita ai diversi gruppi indipendentisti: il PP, i conservatori del governo di Madrid, a cui si poteva – a ragione o a torto – dare la colpa di molti mali. È una cosa da tenere a mente, questa, perché ritornerà anche negli anni successivi.

Nel dicembre 2011 era stato eletto primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, che tutt’oggi mantiene questa carica. Rajoy è il leader del PP, partito che negli ultimi anni è stato coinvolto in una serie molto lunga di scandali legati alla corruzione. Per gli indipendentisti il governo di Rajoy divenne il simbolo di una struttura statale della Spagna inefficiente e corrotta, che aveva imposto alle Comunità autonome spagnole dure misure di austerità.

Il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, a destra, mostra una copia del “Don Chisciotte” al presidente catalano Carles Puigdemont, durante un incontro a Madrid il 20 aprile 2016 (CURTO DE LA TORRE/AFP/Getty Images)

Albert Marcet ha detto al Post: «La Catalogna fu obbligata a fare moltissimi tagli, per esempio del 20 per cento nella salute e nell’istruzione, che dipendono dal governo regionale. Nel frattempo il governo centrale non tagliò praticamente niente, nonostante fosse incredibilmente inefficiente. Così il governo di Madrid riuscì a soddisfare gli obiettivi di deficit imposti da Bruxelles. Fu una slealtà enorme e la gente se ne accorse». Di nuovo, non tutti sono d’accordo con questa analisi e per molti il fatto di scaricare tutte le colpe sul governo di Madrid fu una mossa del governo di allora per non prendersi la responsabilità dei tagli.

Cambiate le condizioni, la politica catalana si adeguò.

Eccoli, gli indipendentisti
C’è una cosa da tenere a mente per capire la politica catalana: cioè che da sempre si è giocata su due tavoli diversi, uno in Catalogna e uno a Madrid. Nel corso degli anni i partiti catalani hanno stabilito alleanze molto diverse, spesso accompagnate da accordi legati alle vicende politiche spagnole. Era una cosa che aveva già permesso una certa flessibilità nel gestire le divisioni politiche tradizionali tra destra e sinistra, flessibilità che si vede bene ancora oggi nel Parlamento catalano. I cambiamenti verso l’indipendentismo nella politica e nella società catalana si concentrarono tra il 2010 e il 2012. In questi due anni successero almeno due cose che contribuirono a polarizzare il dibattito politico catalano attorno alla questione dell’indipendenza, che fino a quel momento era rimasto sotto traccia, perché si parlava per lo più di autonomia, di stato plurinazionale o di federalismo.

Primo. Nel 2011 nacque l’Assemblea Nazionale Catalana (ANC), un’organizzazione non legata a partiti politici che si diede come unico obiettivo l’ottenimento dell’indipendenza della Catalogna. La ANC riuscì a raggiungere nel giro di pochissimi anni decine di migliaia di soci e simpatizzanti di diverse aree politiche: dal centrodestra di PDeCAT, il partito di Puigdemont, alla sinistra di Esquerra Republicana, alleata con il PDeCAT nella coalizione che sostiene l’attuale governo, fino ad arrivare alla CUP, il partito di estrema sinistra di Anna Gabriel. La ANC, insieme a un’altra organizzazione, Ómnium Cultural, cominciò a mobilitare una fetta consistente della società civile catalana, molto trasversale, con l’obiettivo comune dell’indipendenza. Questi due gruppi, per esempio, sono quelli che hanno organizzato le manifestazioni indipendentiste a Barcellona in occasione della Diada, il giorno di festa della Comunità autonoma della Catalogna, che si celebra ogni 11 settembre e alle quali partecipa stabilmente più di 1 milione di persone chiedendo l’indipendenza.

Questa capacità di mobilitare centinaia di migliaia di persone non c’è sempre stata: è una cosa recente, ma le basi erano state messe per anni. Ómnium, per esempio, nacque negli anni Sessanta, agì in clandestinità durante il franchismo e poi si impegnò a promuovere la lingua e la cultura catalane. Nel corso degli ultimi decenni sono nate decine di organizzazioni di questo tipo, anche se più piccole: sono stati istituiti premi culturali, cinematografici e letterari, e si è sviluppato un dibattito sull’autonomismo, e poi sull’indipendentismo, anche al di fuori della politica, che ha coinvolto personaggi della cultura e dell’accademia catalana.

Jordi Cuixart, presidente di Ómnium Cultural (a sinistra) e Jordi Sanchez, presidente dell’ANC, a Madrid il 16 ottobre 2017 (AP Photo/Francisco Seco)

La popolarità di Ómnium e dell’ANC in un pezzo della società civile catalana spiega bene le proteste di questi ultimi giorni per l’arresto dei leader delle due organizzazioni, Jordi Cuixart (Òmnium) e Jordi Sànchez (ANC), deciso in via precauzionale da una giudice dell’Audiencia Nacional, tribunale di Madrid. I “due Jordi”, come vengono chiamati, sono accusati di sedizione, un reato previsto dal codice penale spagnolo per chi impedisce l’applicazione della legge con la forza o con mezzi al di fuori della legge. Secondo molti, la loro carcerazione preventiva ha alimentato le tensioni e le divisioni all’interno della società catalana, e tra il governo catalano e il governo spagnolo. Per i “costituzionalisti”, si tratta solo di avere applicato la legge.

Secondo. Nel 2012, nel pieno della crisi economica e della protesta contro il governo centrale di Madrid, l’allora presidente del governo Artur Mas, di Convergéncia Democrática (CDC, più conosciuto con il solo nome Convergéncia), cominciò a spostarsi, e a spostare il suo partito, su posizioni indipendentiste. L’11 settembre 2012 a Barcellona fu organizzata dalla ANC una manifestazione per l’indipendenza – in occasione della Diada – a cui parteciparono centinaia di migliaia di persone (1 milione e mezzo secondo la polizia municipale e il governo catalano, 600mila secondo la delegazione del governo spagnolo in Catalogna).

Il giorno precedente, il 10 settembre, il primo ministro Mariano Rajoy aveva dato la sua prima intervista televisiva dopo otto mesi di silenzio. Nell’intervista, trasmessa dalla televisione pubblica spagnola TVE, Rajoy aveva liquidato la richiesta principale che in quel momento il governo di Artur Mas stava facendo a Madrid: elaborare un patto fiscale con la Catalogna più favorevole ai catalani, che fosse simile a quello già in vigore per i Paesi Baschi e Navarra, altre due Comunità autonome spagnole. Il patto fiscale non era un tema nuovo nel discorso autonomista catalano. Il 20 settembre, dopo un incontro tra Mas e Rajoy e il rifiuto di Rajoy di accordare un patto fiscale più favorevole alla Catalogna perché contrario alla Costituzione, Mas disse:

«C’è una Costituzione, non la vogliono rivedere, in nessun modo, in termini più aperti di quello che si poté fare 35 anni fa. Le Costituzioni si adattano, e se non si adattano non annullano la volontà dei popoli. E se la Catalogna nei prossimi mesi, o nei prossimi anni, in maniera maggioritaria, pacifica e democratica vorrà intraprendere un certo cammino e progetto per il futuro, non si potrà certamente mettere lì la Costituzione come se fosse una parete insuperabile, non funziona così»

La svolta indipendentista di Convergéncia fu un cambiamento importante per la politica catalana: molti sostennero che fu decisa in parte per ridare slancio a un partito che negli anni era stato coinvolto in alcuni scandali di corruzione e che stava perdendo consensi. Convergéncia era stata la forza al centro della politica catalana dalla fine del franchismo: di centrodestra, liberale, il cui primo leader, Jordi Pujol, aveva governato in Catalogna per più di 20 anni. Era un partito che chiedeva più autonomia ma non l’indipendenza. Dopo l’11 settembre 2012, il giorno della Diada, Artur Mas convocò elezioni anticipate. Si votò il 25 novembre, il partito di Mas perse 12 seggi ma Esquerra Repubblicana, la sinistra indipendentista, ne guadagnò 21. La CUP entrò per la prima volta in Parlamento, con 3 deputati.

Era iniziata una nuova fase della storia politica catalana.

Sì, ma dall’altra parte? Non c’è mai stato niente?
Uno dei più grandi misteri di quello che sta succedendo in Catalogna, almeno visto da qui, è la quasi totale incapacità di mobilitare la cittadinanza da parte degli anti-indipendentisti, che però ci sono. Come mostrano i risultati elettorali del 2015, i risultati del referendum dell’1 ottobre (che pure vanno presi con le molle) e i sondaggi realizzati nel corso degli anni, l’anti-indipendentismo in Catalogna esiste. Forse è persino maggioritario, anche se di poco, o comunque è appoggiato da circa la metà dei catalani.

La grande manifestazione unionista dell’8 ottobre, quella organizzata a Barcellona dalla Societat Civil Catalana, ha coinvolto decine di migliaia di persone: la «maggioranza silenziosa», l’ha definita la stampa spagnola; la «maggioranza silenziata», l’hanno definita gli anti-indipendentisti. Non è facile dire perché da una parte si sia sviluppato un discorso così rumoroso, radicato e organizzato, mentre dall’altra no.

Il discorso di Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la Letteratura, alla manifestazione unionista organizzata dalla Societat Civil Catalana l’8 ottobre. Vargas Llosa ha criticato i nazionalismi, dicendo: «La passione può essere anche distruttiva e feroce, quando è mossa dal nazionalismo e dal razzismo. La peggiore di tutte quella che ha causato più distruzione nella storia, è la passione nazionalista. Religione laica, eredità sfortunata del peggior romanticismo, il nazionalismo ha riempito la storia dell’Europa, del mondo e della Spagna di guerre, sangue e cadaveri. Da un po’ di tempo il nazionalismo sta causando distruzione anche in Catalogna»

In buona parte questo fenomeno si potrebbe spiegare col fatto che nel corso degli anni il governo catalano ha usato molti fondi per finanziare progetti che promuovessero la lingua e la cultura catalane, provocando una moltiplicazione di organizzazioni e associazioni di vario tipo. Secondo molti anti-indipendentisti, inoltre, queste convinzioni sono state anche alimentate da una generale egemonia delle idee autonomiste e indipendentiste nei mezzi di comunicazione catalani, giornali e radio, con stretti legami con la politica, come mostrò nel 2015 in una grossa inchiesta pubblicata sull’Español il giornalista Jordi Pérez Colomé.

Non tutti però sono d’accordo con questa lettura, e anzi la ribaltano. Sostengono che mentre in Catalogna tutti hanno facile accesso alla stampa spagnola, unionista, il contrario non funzioni, anche perché la radio e la televisione pubblica catalana vengono trasmesse solo in Catalogna, mentre quelle pubbliche spagnole in tutta la Spagna. Sostengono poi che il discorso dei finanziamenti ai giornali catalani sia stato molto sopravvalutato: per esempio il Periódico e la Vanguardia, due giornali molto sovvenzionati, non hanno una posizione generale favorevole all’indipendenza. Negli ultimi giorni si è riaperta anche una polemica sul sistema educativo catalano, che secondo alcuni deputati della destra costituzionalista contribuirebbe ad alimentare l’odio nei confronti degli spagnoli: anche su questa interpretazione, comunque, c’è molto poco accordo.

Il punto su cui c’è più convergenza è un altro. L’idea di creare un nuovo Stato, della costruzione di una società nuova, è sempre stata molto più attraente di un discorso “costituzionalista” e conservatore dello status quo. Sono idee diverse, di intensità diversa. È più difficile mobilitare migliaia di persone per la conservazione di qualcosa, soprattutto perché quel qualcosa esiste già e non funziona nemmeno benissimo: non finché venga minacciato concretamente, almeno, come è successo con il referendum dell’1 ottobre scorso.

Il discorso indipendentista ha probabilmente anche giovato del fatto che non c’è stato un vero dibattito sui costi che avrebbe portato l’indipendenza: non vuol dire che sia stato del tutto assente, ma sicuramente non è stato all’altezza dell’enormità delle conseguenze di una Catalogna indipendente. «Non c’è stato un dibattito approfondito perché il dibattito è sempre stato ‘potete votare’ o ‘non potete votare’», ha detto al Post Francesca Ferreres, membro del Segretariato nazionale dell’ANC, indipendentista. È come se lo scontro politico si fosse fermato un momento prima: il momento che per gli indipendentisti è stato quello dell’esercizio di un diritto fondamentale (poter votare) e per gli anti-indipendentisti del rispetto della legalità e della Costituzione (quindi non poter votare), perché per la legge spagnola solo lo Stato può convocare un referendum di questo tipo. Negli ultimi anni poi, ha raccontato al Post un membro di ERC, la sinistra indipendentista, si è sviluppato una sorta di “nuovo indipendentismo” centrato su una specie di “pensiero magico” secondo cui l’indipendenza sarebbe stata indolore e senza costi.

Da quel punto, comunque, non ci si è mossi più di tanto: il vero dibattito sul sì e sul no è stato rimandato.

E poi c’è la politica. Il PP, che alle ultime elezioni spagnole ottenne il 33 per cento dei voti, in Catalogna ha poco più del 10 per cento dei voti. I leader locali del PP catalano sono i più impopolari in ogni sondaggio, ma lo stesso partito nazionale non ha grande interesse a investire in Catalogna per cambiare la situazione. Come ha scritto il catalano Ton Vilalta sul Lavoro Culturale, «la storia elettorale spagnola degli ultimi 20 anni ci insegna che il PP non ha bisogno di ottenere buoni risultati in Catalogna per governare in Spagna. […] In più, mostrarsi inflessibili di fronte alle rivendicazioni dei nazionalisti catalani è spesso redditizio in termini di consenso nel resto del paese. Al contrario, la geografia elettorale spagnola impone a un ipotetico governo alternativo, composto da PSOE e/o Podemos, di ottenere un ottimo risultato in Catalogna per avere i numeri per governare». Questo fa sì che i partiti con ambizioni nazionali diversi dal PP, come PSOE e Podemos, entrambi rappresentati nel Parlamento catalano, debbano ogni volta trovare un modo per mettere insieme un discorso che possa funzionare sia in Catalogna che nel resto della Spagna. E non è facile.

Il presidente del gruppo del Partito Popolare al Parlamento catalano, Xavier Garcia Albiol, durante un dibattito parlamentare il 6 settembre 2017, il giorno che il Parlamento catalano approvò la “legge del referendum” (LLUIS GENE/AFP/Getty Images)

Il risultato è che per molti anni questi partiti sono rimasti in mezzo; sono stati travolti dalla progressiva polarizzazione della politica catalana sul tema dell’indipendentismo e anti-indipendentismo, non riuscendo a farsi spazio senza prendere posizioni nette. Per esempio nelle ultime settimane il PSC, il Partito Socialista Catalano, si è adeguato alla linea del PSOE nazionale, cioè condannare nettamente il referendum illegale dell’1 ottobre e il comportamento del governo catalano; dopo la carcerazione preventiva di Jordi Sánchez e Jordi Cuixart, però, il suo leader, Miquel Iceta Llorens, ha parlato di una decisione “sproporzionata” e si è unito alle proteste degli indipendentisti, cosa che al contrario non ha fatto Pedro Sanchéz, il leader del PSOE nazionale. Anche Podemos ha avuto enormi difficoltà a posizionarsi nella nuova politica catalana: ha appoggiato il diritto di votare dei catalani per definire il proprio futuro, ma si è detto contrario a un referendum illegale, e poi ha proposto un dialogo che però non sembra avere alcuna possibilità di realizzarsi. Al contrario, un partito catalano che ha guadagnato negli ultimi giorni è Ciutadans, di centrodestra e schierato nettamente a favore dell’unità della Spagna.

Negli ultimi anni il discorso sull’indipendentismo e l’anti-indipendentismo si è mangiato tutto il resto: chi in Catalogna non si è posizionato su queste nuove linee politiche ha rischiato di essere ignorato, o ha perso rilevanza.

Due bolle: richieste politiche e risposte giudiziarie
Oggi la probabilità di un dialogo tra governo catalano e governo spagnolo sembra essere inesistente. Non solo perché le due parti la pensano diversamente sull’indipendenza della Catalogna, ma perché non hanno accettato le stesse regole del gioco. Il governo catalano vuole giocare nel campo della politica, sacrificando la legalità; quello spagnolo risponde appigliandosi al rispetto delle leggi vigenti, senza accettare un dato di realtà, senza prendere atto di quello che è successo politicamente in Catalogna. Ma nemmeno questa è una cosa nuova.

Il 9 novembre 2014, quando al governo c’era ancora Artur Mas, si tenne il cosiddetto “processo partecipativo sul futuro politico della Catalogna”, una votazione organizzata dal governo catalano senza valore legale e non riconosciuta dal governo spagnolo. Nella scheda c’erano due domande: «Vuole che la Catalogna sia uno stato?»; «In caso affermativo, vuole che questo stato sia indipendente?».

Il presidente catalano Artur Mas vota in un seggio di Barcellona al “processo partecipativo sul futuro politico della Catalogna”, una votazione senza valore legale che si tenne il 9 novembre 2014 (David Ramos/Getty Images)

Questo “processo partecipativo” era una soluzione di ripiego: la terza, dopo che lo stato spagnolo ne aveva scartate altre due. Il governo centrale di Madrid, il PP di Rajoy e il Parlamento spagnolo avevano negato al governo catalano il permesso di celebrare un referendum di autodeterminazione in Catalogna, un obiettivo che faceva parte dell’accordo che era stato fatto dalla maggioranza uscita dalle elezioni catalane del 2012. Il Parlamento catalano aveva così approvato una propria legge del referendum e aveva fissato la data per il 9 novembre 2014. La legge era stata votata anche dalla CUP, un partito fino a quel momento “allergico” a tutto ciò che era Convergéncia. David Fernández, allora deputato della CUP al Parlamento catalano, spiegò così in un’intervista quello che era successo: «Cosa è successo in Catalogna affinché poli così antagonisti si siano messi d’accordo? Il merito non è nostro, è dello Stato spagnolo».

Il governo di Rajoy aveva fatto ricorso al Tribunale costituzionale, la legge del referendum era stata sospesa e poi dichiarata incostituzionale e il governo catalano aveva fatto mezzo passo indietro. Mezzo perché Mas, in accordo con le altre forze indipendentiste, aveva annunciato che si sarebbe tenuto comunque un “processo partecipativo sul futuro politico della Catalogna”, che però non sarebbe stato vincolante. Di fronte a questa eventualità, Jordi Évole, uno dei giornalisti catalani più conosciuti, anti-indipendentista ma a favore di un referendum sull’indipendenza della Catalogna, disse una cosa in un’intervista ad Antena 3 che è utile anche per capire le conseguenze del referendum dell’1 ottobre:

«La cosa peggiore che credo potrebbe succedere è che di fronte a una votazione considerata “leggera”, che non vale tanto come quella che si voleva fare, diciamo così, qualcuno del governo centrale spagnolo dicesse un’altra volta, “lo proibiremo”. Non credo che sarebbe una cosa buona. Io credo che la proibizione stia portando sempre più persone a essere indipendentiste. E ne porterebbe ancora di più, per esempio, se il 10 novembre venisse pubblicata sui giornali la foto di un agente della Guardia civile o di un poliziotto nazionale che ritirano un’urna elettorale. Sarebbe molto potente.»

Il 2 novembre, a una settimana dal voto, il governo spagnolo annunciò che avrebbe fatto ricorso contro la nuova consultazione, ricorso poi accolto dal Tribunale costituzionale. Il governo catalano organizzò comunque la votazione, che si tenne il 9 novembre. Mas, insieme ad altri funzionari del suo governo, fu poi condannato dal Tribunale Superiore di Giustizia della Catalogna per i reati di prevaricazione e disobbedienza e gli fu imposto il pagamento di una multa di 5,1 milioni di euro, ovvero i costi che il governo aveva sostenuto per organizzare il “processo partecipativo”. Alla consultazione la partecipazione fu bassa, il 37 per cento; i sì vinsero con l’80 per cento dei voti.

Due mesi dopo Mas annunciò che si sarebbero tenute elezioni anticipate. In campagna elettorale si parlò quasi esclusivamente del diritto a votare e di indipendenza. Convergéncia ed ERC si misero insieme col nome di “Junts pel Sí”, con un programma elettorale che parlava esplicitamente di tenere un referendum sull’indipendenza della Catalogna, e che prendeva una netta posizione a favore dell’indipendenza. La CUP si presentò da sola, mise il veto sul nome di Mas ma appoggiò la candidatura di Puigdemont, nonostante avesse idee completamente diverse su tutto ciò che non fosse l’indipendenza catalana. Il mantra del nuovo governo – quello di “Visca Catalunya lliure” e dell’inno El Segadors – divenne «Referendum o referendum», ripetuto da Puigdemont, dai membri del suo governo e dalla CUP, con la promessa di rispettare qualsiasi risultato elettorale, anche il no. Una proposta ritenuta inaccettabile, e nemmeno negoziabile, né dal governo spagnolo né dai partiti unionisti catalani della minoranza parlamentare.

Nel settembre 2016 il governo catalano rischiò di cadere perché Junts pel Sí e la CUP non trovavano l’accordo per l’approvazione del bilancio. Puigdemont chiese in Parlamento che gli fosse rivotata la fiducia e durante il suo intervento disse: «La soluzione della richiesta catalana si farà pertanto in questa maniera: referendum o referendum. Ripeto: referendum o referendum»

Si può tornare indietro? L’1 ottobre, non un giorno qualsiasi
Il referendum sull’indipendenza dell’1 ottobre, e tutto quello che è successo prima e dopo, è stato un momento incredibilmente nuovo e importante per la politica catalana. Il referendum si è tenuto sulla base di una legge approvata dal Parlamento catalano il 6 settembre, la “Legge del referendum”, simile a quella approvata ai tempi di Mas dopo il rifiuto del governo spagnolo di sedersi a un tavolo e parlare della possibilità di votare. Il PP ha fatto ricorso al Tribunale costituzionale, che l’ha sospesa (la bocciatura definitiva è arrivata martedì scorso), e quindi ne ha reso impraticabile l’applicazione. Il governo Puigdemont e la maggioranza che lo sostiene non hanno fatto passi indietro e hanno continuato a organizzare la votazione, rivendicando una decisione che era stata presa da una maggioranza democraticamente eletta il cui obiettivo era, fin dall’inizio, tenere un referendum vincolante sul futuro della Catalogna. Di nuovo, le due parti hanno sostenuto la propria posizione parlando due lingue diverse – una politica, l’altra per via giudiziaria e per il rispetto della legge vigente – e la situazione è precipitata.

Ci sono un paio di cose da dire al riguardo. La prima è che secondo molti, anche quelli che sostengono il diritto dei catalani a votare sul proprio futuro (come Catalunya Sí que es Pot), la legge del referendum è stata votata forzando le stesse leggi catalane: per questioni di enorme importanza – anche meno rilevanti di una possibile indipendenza – è richiesta una maggioranza parlamentare dei due terzi dei deputati, e non una maggioranza semplice. Questo criterio non è stato rispettato. E poi, oltre alla sospensione della legge del referendum da parte del Tribunale costituzionale, alla polizia catalana era arrivato l’ordine del Tribunale Superiore di Giustizia della Catalogna di sequestrare urne e schede elettorali dagli edifici del governo a Barcellona, materiale che lo stesso governo aveva tenuto nascosto per settimane. In altre parole: non c’è dubbio che il governo e la maggioranza parlamentare catalani abbiano agito al di fuori della legge.

Il presidente catalano Carles Puigdemont e i deputati della maggioranza parlamentare applaudono dopo l’approvazione della “legge del referendum”, quella relativa al referendum sull’indipendenza della Catalogna che si è tenuto l’1 ottobre. I deputati della minoranza avevano lasciato i loro scranni prima della votazione, sostenendo che il Parlamento stesse agendo in violazione della legge catalana. Barcellona, 6 settembre 2017 (LLUIS GENE/AFP/Getty Images)

Gli indipendentisti sostengono che forzare il regolamento fosse l’unico modo per dare la possibilità al popolo catalano di decidere sulla questione dell’indipendenza. Lo stesso Puigdemont ha ammesso che avrebbe preferito avere una maggioranza più ampia, ma non c’erano le condizioni. L’opposizione ha denunciato in più occasioni che i diritti dei parlamentari catalani erano stati violati, con la complicità della presidente del Parlamento, l’indipendentista Carme Forcadell.

L’1 ottobre è successo un po’ di tutto: nonostante lo scetticismo generale, il governo catalano è riuscito a tenere nascoste le urne e le due grandi organizzazioni indipendentiste ANC e Ómnium si sono occupate di mobilitare migliaia di persone per garantire l’apertura dei seggi. Il governo spagnolo ha risposto mandando agenti della Guardia civile e della Polizia nazionale ai seggi, per sequestrare le urne e le schede elettorali, dopo che la polizia catalana, i Mossos d’Esquadra, avevano mostrato di non voler collaborare più di tanto. Le immagini delle cariche della polizia, e quelle dei civili feriti, sono circolate parecchio, provocando moltissime critiche. Di nuovo, il giornalista Jordi Évole ha scritto:

«Con la testa, molti catalani se n’erano già andati dalla Spagna. Oggi Rajoy ha ottenuto che diventassero di più. Ieri molti cittadini contrari all’indipendenza hanno provato una enorme repulsione per quello che stavano vedendo. Non dico che siano diventati indipendentisti, però sono sicuro che abbiano desiderato “indipendizzarsi” da questa Spagna, che sembra che provi piacere a massacrare la Catalogna. Per fortuna, ce n’è un altro pezzo che sta andando in piazza per mostrare la sua solidarietà»

Gli indipendentisti sono stati accusati di avere diviso la società catalana, di avere provocato nuove tensioni dentro alle famiglie, nei gruppi di amici, nelle scuole. Il dibattito politico sull’indipendenza è diventato così intenso – annullando temporaneamente tutte le altre questioni – anche perché per molti è diventato una questione legata ai diritti fondamentali degli individui. Mariam Tey, della SCC, ha detto al Post: «Più che una lotta tra Spagna e Catalogna, o tra catalani, è diventata una lotta per la difesa dei diritti individuali. Il governo si introduce continuamente nel nostro spazio privato, ci chiede cosa pensiamo e cosa sentiamo. È un regime totalitario, senza violenza finora, però totalitario». Gli indipendentisti sostengono che il governo spagnolo stia negando al popolo catalano il diritto all’autodeterminazione, e quindi dicono di essere loro i discriminati: rivendicano il fatto che la stragrande maggioranza dei catalani vorrebbe un referendum legale, quindi concordato con lo stato (una convinzione sostenuta dai sondaggi realizzati negli ultimi anni). Dicono che se vincesse il no accetterebbero il risultato del referendum, scioglierebbero il Parlamento e convocherebbero nuove elezioni.

L’intervista di al Jazeera a Puigdemont prima del referendum dell’1 ottobre. Puigdemont dice che il suo governo si sta preparando per l’eventualità che la Catalogna diventi uno stato indipendente, che se vincesse il no lui si dimetterebbe il giorno successivo e convocherebbe nuove elezioni, e che riterrebbe una vittoria personale anche solo il fatto di tenere un referendum, al di là del risultato finale, nonostante lui sia indipendentista «da tutta la vita»

È difficile vedere una via d’uscita a questa situazione. Da anni si fa riferimento al conflitto tra governo spagnolo e governo catalano come uno “scontro di treni”, qualcosa che prima o poi sarebbe successo e da cui sarebbe stato molto complicato uscire: quel momento, probabilmente, è arrivato con il referendum dell’1 ottobre.