Inseguendo Bill Murray

Un giornalista ha cercato di intervistarlo per mesi, inutilmente, ma nel frattempo ha raccolto molte storie strambe e notevoli dai suoi amici

di Geoff Edgers – The Washington Post

Bill Murray alla premiazione del Mark Twain Prize for American Humor al Kennedy Center di Washington, il 23 ottobre 2016 (Leigh Vogel/Getty Images)
Bill Murray alla premiazione del Mark Twain Prize for American Humor al Kennedy Center di Washington, il 23 ottobre 2016 (Leigh Vogel/Getty Images)

Partiamo da uno degli aneddoti assurdi che circolano su Bill Murray, che tra le mille altre cose è anche il santo patrono del Post. Qualche anno fa a un uomo chiamato Ted Melfi venne un’idea per un film, in cui voleva disperatamente che ci fosse Murray. Peccato però che Melfi non avesse mai fatto un film prima di allora. Normalmente per gli esordienti sconosciuti è impossibile far arrivare le sceneggiature ad attori importanti tramite i loro manager. Ma Bill Murray non ha un agente. O un addetto stampa. O un assistente. Ha solo un numero di telefono a carico del destinatario e una segreteria telefonica. Melfi era riuscito ad avere quel numero da un amico produttore e così iniziò a lasciare dei messaggi in segreteria a Murray. Molti messaggi. Un giorno, alla fine, Murray lo richiamò e gli chiese di incontrarlo all’aeroporto internazionale di Los Angeles. I due fecero un giro in macchina, mangiarono cheeseburger e discussero della sceneggiatura, finché Murray diede a Melfi la notizia: avrebbe fatto il film. St. Vincent uscì nel 2014 e fu un successo commerciale e di critica. «Esclusa la salute, tutto quello che ho nella vita lo devo a Bill Murray», ha detto Melfi.

Io e Melfi eravamo al telefono perché stavo fingendo di essere interessato principalmente alla sua storia, che invece era solo un pretesto. Volevo quel numero. Non dovevo promuovere una sceneggiatura, ma scrivere un articolo.

Domenica Murray ha ricevuto al Kennedy Center di Washington il Mark Twain Prize for Humor, un premio americano dedicato alle commedie. Provo a contattarlo da quando a luglio il direttore del mio giornale mi ha chiesto di scrivere un articolo su di lui. Parlare di Murray con altre persone famose è stato semplice. Nel corso delle settimane ho intervistato David Letterman e Howard Stern, i registi Ivan Reitman, Wes Anderson e Sofia Coppola, e i suoi ex colleghi del Saturday Night Live Dan Aykroyd e Laraine Newman, oltre che il popolare autore del programma Jim Downey. Ma non Bill. Ho raccontato tutto questo a Melfi, spiegandogli anche che tramite un messaggio dell’avvocato di Murray avevo scoperto che forse lui ce l’aveva con me, anche se non ero sicuro di capirne il motivo. La mia risposta era stata mandare una nota a Murray, sempre tramite il suo avvocato, per chiarire le cose. Ma ancora niente. Forse Melfi sarebbe stato così gentile da passarmi il numero di Murray. Lui, però, si è messo a ridere: «C’è una legge non scritta con Bill, che conoscono tutti», ha raccontato. «Non dare mai in giro i suoi contatti. Nessuno lo farà mai». C’è stato un momento di silenzio al telefono. «Non hai bisogno di Bill Murray per scrivere un grande articolo», mi ha detto Melfi. «”Bill Murray non ha voluto parlarmi per questo articolo”: ecco il tuo articolo su Bill Murray».

Lampadine

Ci sono molte storie su Bill Murray: questa me l’ha raccontata il famosissimo conduttore televisivo americano David Letterman. È il 29 gennaio del 1982, un venerdì, e Letterman è nervoso. All’epoca non era ancora il re in pensione dei talk show serali americani, ma solo un ex presentatore delle previsioni del tempo dell’Indiana con i denti larghi, a cui avevano appena cancellato il programma mattutino. La puntata d’esordio del Late Night With David Letterman – che in Italia è noto come David Letterman Show – è in programma per lunedì. Il conduttore esce dall’ufficio per girare un’esterna. Mentre è fuori Bill Murray, l’ospite della prima puntata, arriva per incontrare gli autori. Quando Letterman torna, gli uffici sono bui e il suo staff non c’è. È la receptionist a raccontargli cosa è successo: «Per prima cosa svitò tutte le lampadine della stanza degli autori perché con la luce artificiale faceva fatica a concentrarsi», ha raccontato Letterman, «e poi disse: “Sapete che cosa dovremmo fare?”, e portò gli autori fuori a bere rum. Loro mi raccontarono poi che si erano presi tutti una sbronza ed erano tornati a casa. “Che cavolo è successo qui?”, pensai».

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Bill Murray e David Letterman durante la prima puntata del “Late Night with David Letterman”, il primo febbraio 1982 a New York (AP Photo/Nancy Kaye)

Il lunedì successivo Murray arrivò sul set e iniziò a fare un’esilarante arringa contro Letterman, seguita da una lunga richiesta di scuse. Dopodiché, prendendo in giro la mania per l’aerobica del tempo, Murray saltò dalla sedia e si esibì in una parodia di “Physical”, la celebre canzone di Olivia Newton-John. L’esibizione di Murray di quella sera divenne un modello per le sue future apparizioni. «C’era sempre gente che veniva da me per dirmi: “Abbiamo un problema: Bill non è ancora arrivato”», ha raccontato Letterman, aggiungendo che «ogni volta che questo succedeva avevo imparato a non darci molta importanza. Bill non è mai arrivato in ritardo, non ha mai saltato un’esibizione ed era sempre preparato: era sempre la parte del programma migliore della stagione».

Conflitti

Il Mark Twain Prize è il premio più prestigioso che un comico americano possa ricevere, e in passato è stato vinto tra gli altri da Richard Pryor, Carol Burnett, Steve Martin, Eddie Murphy e Tina Fey. Verrebbe da pensare che l’ultimo vincitore del premio abbia voglia di parlarne. Non Murray che, finito agosto, ha continuato a essere sfuggente anche all’inizio di settembre. Il suo avvocato non rispondeva alle email né alle telefonate. I suoi amici – Melfi, Reitman, l’autore Mitch Glazer e il produttore Fred Roos – si sono dimostrati comprensivi ma hanno declinato la mia richiesta di aiuto: non volevano scocciare Murray continuando ad assillarlo.

Io aspettavo vicino al telefono. La cosa che rendeva così frustrante il silenzio di Murray era la facilità con cui era possibile seguirne le tracce. Nei mesi in cui mi ha evitato, Murray è stato visto rubare delle patatine da uno sconosciuto in aeroporto, fare il barista in un ristorante di Brooklyn, far partire un coro per l’America durante il torneo di golf Ryder Cup e fare il tifo per la squadra di baseball dei Chicago Cubs. Ovviamente tra starsene seduti in tribuna e dare un’intervista c’è una bella differenza. Trovare un articolo che tracci un profilo di Bill Murray è difficile. Il pezzo che forse ci riesce meglio risale al 1988, quando un giornalista del New York Times Magazine, il defunto Timothy White, andò a trovare Murray e la prima moglie Mickey nella loro casa sul fiume Hudson. L’anno scorso Glazer è riuscito a convincere Murray a parlare per un suo articolo sull’edizione americana di Vanity Fair, ma «nemmeno quello fu facile, e lo conosco dal 1977». Di tanto in tanto, per fare un favore a un regista, Murray concede delle interviste per far promozione a un film in uscita. Ma anche in questi casi, raramente le cose vanno come da programma. Melfi ha ricordato di come alla prima di St. Vincent, al Toronto Film Festival, a un certo punto Murray sia scomparso. Invece di continuare a parlare alla stampa era andato a casa di un amico per cucinare dei waffle.

Bill Murray è uno di noi: quello che appare a sorpresa e interrompe sconosciuti mentre giocano con un pallone o sono a un karaoke, e che preferisce prendere in prestito la bici di una amico piuttosto che pavoneggiarsi sul red carpet. I suoi amici lo hanno descritto come «combattuto» all’idea di ricevere il Mark Twain Prize, e che è meglio non provare a parlare con lui di lavoro. «Non puoi farlo», ha detto Aykroyd, «state parlando di tutt’altro e poi tirate fuori il lavoro, come se voleste vendergli qualcosa o ottenere qualcosa da lui. Vi girate e quelle che vedete sono le sue luci posteriori. È la Maserati che se ne va. Potete provare a inseguirlo, ma non lo prenderete mai».

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Bill Murray durante la Ryder Cup del 2016 a Chaska, in Minnesota (Sam Greenwood/Getty Images)

La solita vecchia storia

Il controverso conduttore radiofonico Howard Stern si ricorda la prima volta che notò Bill Murray. Era il 1977 e Murray doveva sostituire il popolarissimo comico americano Chavy Chase al Saturday Live Night. «La mia prima reazione fu: “Chi cazzo è questo per partecipare al mio programma?”», ha raccontato Stern, «e poi, di punto in bianco, iniziò a fare quella cosa lì, il cantante lounge. Non era nervoso e non stava cercando di fare presa su di me. Ma conquistò il pubblico nel giro di qualche minuto e non sembrò nemmeno che si stesse sforzando». Nick, il nome del personaggio di Murray, aveva la camicia aperta e un foulard rosso. I suoi medley spaziavano da Crystal Gayle alla colonna sonora di Star Wars di John Williams, combinando testi assurdi e ciglia svolazzanti. Fatto da un altro comico, il personaggio sarebbe potuto risultare come una presa in giro di tutti i cantanti di piano bar. La parodia di Murray, invece, non era solo perdonabile: era adorabile. «Il personaggio di Murray era davvero allegro e impenitente», ha raccontato Downey, «non finisci per compatirlo. È un personaggio strano che si apprezza con il tempo. Di solito la maggior parte delle persone non vede il lato negativo di una cosa divertente».

Il passaggio di Murray dal Saturday Night Live al cinema oggi potrebbe sembrare naturale. John Belushi e Chase l’avevano già fatto prima di lui, e molti sarebbero venuti dopo. In un momento della carriera in cui la maggior parte dei giovani attori sarebbe stata grata anche solo per una parte marginale, Murray ebbe da discutere per il suo ruolo da protagonista in Polpette. Non fu una questione di soldi: Reitman, il regista del film, aveva programmato l’inizio delle riprese per l’estate del 1978, ma Murray aveva paura che girare la commedia ambientata in una colonia estiva avrebbe portato via tempo al golf e al baseball, a cui giocava durante la pausa del Saturday Night Live. Alla fine, però, Murray decise di fare il film. Il primo giorno delle riprese, Reitman notò che l’attore aveva in mano un copione spiegazzato. «Fino a quel momento non ero sicuro che l’avesse letto davvero. La prima cosa che disse fu: “È una merda”», ha raccontato Reitman. «Seguì il copione ma cambiò tutte quante le battute». Murray improvvisò gran parte del famoso discorso del Chi se ne importa! di Polpette, e a un certo punto Reitman decise di dare un’occhiata al suo copione. Su quasi ogni pagina Murray aveva scarabocchiato le lettere “SOT”, “Same old thing“, la “solita cosa ritrita”. «Il primo errore che la gente fa è pensare che siccome è così spontaneo e ha l’aria di uno che se ne frega, non gli importi veramente. La verità è che invece gli importa davvero del suo lavoro, e si comporta in modo molto professionale e preciso», ha raccontato Reitman, che ha aggiunto: «odiava le persone che si accontentavano delle cose più ovvie. Diceva: “L’ho già visto. Ne hanno già fatto una versione simile in passato. È una battuta scontata”».

Sveglia

Bill Murray vive la sua vita seguendo un fine. Aykroyd, che con Murray fu uno dei protagonisti dei primi due Ghostbusters, ha raccontato di come negli anni sia stato impossibile convincere Murray a farne un terzo. La paga era buona, lo studio cinematografico sosteneva il progetto e gli altri attori volevano fare il film. Murray, però, non volle girare il film, anche se ha poi accettato di fare una breve apparizione per il reboot di quest’anno, in cui gli acchiappafantasmi sono delle donne, tra cui Melissa McCarthy, Kristen Wiig e Leslie Jones. Per spiegare il modo di pensare dell’amico, Aykroyd ha citato il mistico russo Georges Ivanovič Gurdjieff, che Murray ammira. «Secondo la filosofia di Gurdjieff il conflitto può essere d’aiuto alla creatività», ha detto Aykroyd, «Bill crede che si debbano scuotere la cose. Quando si gioca a biglie, non ci si limita a lanciarne una: devi colpirne un’altra. L’attrito genera calore, e il calore genera l’energia creativa e la fiamma».

Parlando delle sue improvvisazioni pubbliche, due anni fa Murray ha detto alcune cose che sembravano essere dei riferimenti a Gurdjieff. «Spero sempre», ha detto durante un’intervista promozionale per St. Vincent, «che mi diano una svegliata. Se vedo una persona bloccata dalla paura mi dico: “Va bene, ora prova a dargli una svegliata”. È quello che spero facciano a me: darmi una cavolo di svegliata». Dal punto di vista professionale Murray ha avuto le sue “svegliate”. Nel 1984, per esempio, accettò di fare Ghostbusters solo a patto che lo studio cinematografico finanziasse il remake di Il filo del rasoio, un film drammatico ambientato ai tempi della Prima guerra mondiale e tratto dall’omonimo libro di William Somerset Maugham, in cui Murray interpretava il reduce di guerra Larry Darrell. Ghostbusters uscì nel giugno del 1984, stabilendo un record di incassi e generando diversi apprezzamenti a Murray per la sua interpretazione del dolce e sarcastico Peter Venkman. Il filo del rasoio uscì a ottobre e andò malissimo. Il fallimento del film non lasciò indifferente Murray, che decise di non recitare in Due palle in buca, il sequel di Palla da golf, a cui aveva partecipato. Si trasferì invece a Parigi, dove lesse libri e rifiutò ruoli ben pagati. Murray non recitò in un film per quattro anni, fino a S.O.S fantasmi del 1988.

Anche se gli incassi non furono buoni, Il filo del rasoio colpì un adolescente che viveva nella periferia texana. Wes Anderson andò in bici al videonoleggio locale per affittare il film, che guardò con i suoi fratelli nel salotto rivestito in legno della sua casa. Il personaggio di Larry Darrell, quello interpretato da Murray, gli rimase impresso. «In un certo senso era poetico ed eroico e tristissimo», ha scritto Anderson in un’email, «ma ricordo di aver anche pensato: “Riesce a essere divertente, nonostante tutto”». Diversi anni dopo ad Anderson tornò in mente il personaggio di Darrell mentre stava scrivendo il ruolo di Herman Blume, un imprenditore disilluso e che beve troppo. Bill Murray accettò di interpretare Blume e Anderson realizzò Rushmore.

«Proverò a far morire la cosa»

Perché quindi Murray si rifiutava di parlare con me? Per settimane, ho dato la colpa a Laraine Newman. Ho parlato con l’attrice e comica, che aveva fatto parte del primo cast del Saturday Night Live, il 22 agosto. La conversazione non è andata molto bene. Newman aveva avuto alcune esperienze spiacevoli con i media e faticava a rispondere ad alcune domande che a me sembravano dirette. Le ho chiesto per esempio cosa pensasse del fatto che Murray fosse disposto a prendersi dei rischi come nel caso del filo del rasoio. «Non puoi mai sapere cosa pensa un’altra persona», mi ha risposto Newman, «non penso che a lui farebbe piacere che qualcun altro descrivesse quello che pensa e quali sono le sue motivazioni. Lui in particolare lo detesterebbe, non è giusto. Non c’è niente di più alienante di essere rappresentati in modo sbagliato. Anche se in modo positivo». Abbiamo parlato della sua amicizia con Murray nel corso degli anni. Della volta in cui passò a casa sua con un sacchetto di avocado, o di quando, diversi anni fa, Newman era appena uscita da una separazione difficile e Bill andò a trovarla e la portò a fare un lungo giro sulla sua decappottabile, che l’aiutò a stare meglio.

Quello che però Newman non mi ha detto subito e mi ha rivelato solo qualche settimana dopo in un’altra telefonata, è che la nostra intervista l’aveva messa così a disagio da decidere di avvertire Murray. Newman mi ha poi letto parte del loro scambio al telefono. Murray era già “inorridito”, anche se io e Newman non siamo riusciti a capire se la cosa era dovuta all’imbarazzo per essere stato scelto per il Mark Twain Prize. Murray aveva poi risposto alle preoccupazioni di Newman sul mio conto. «Proverò a far morire la cosa», le aveva detto. A cosa si riferiva Murray? All’intervista? All’articolo? Alla mia carriera? Ci ho rimuginato sopra per settimane, immaginando che il motivo per cui David Nochimson, l’avvocato di Murray, non volesse farmi la cortesia di richiamarmi fosse lo scambio con Newman.

Poi, però, ho parlato con Joel Murray, il più giovane tra i nove fratelli di Murray, anche lui attore. Joel prima mi ha ascoltato, e poi mi ha detto di lasciar perdere. Non era colpa mia: aveva il sospetto che suo fratello non avesse mai preso in considerazione l’ipotesi di incontrarmi. «Non prendertela con te stesso», mi ha detto Joel Murray, «è come avere a che fare con dei terroristi. A loro non importa di morire, e a Bill non frega niente di farsi pubblicità».

Dal dottore

Forse però c’è ancora un modo per finire il pezzo in bellezza. Con un altro aneddoto, ancora di Letterman.

La primavera scorsa Murray ha scritto a Letterman per dirgli che era a New York e gli sarebbe piaciuto vederlo. Letterman ha controllato la sua agenda. Era piena. L’unico giorno in cui aveva ancora spazio era quello in cui doveva farsi delle vaccinazioni per un viaggio in India, e così ha dato a Murray l’indirizzo del medico.

«Il giorno dopo sono nell’ambulatorio del dottor Hartman, nella sala esami, in mutande», ha raccontato Letterman. «Il dottor Hartman, un tipo adorabile, indossa il suo camice da laboratorio e mi sta spiegando tutte le vaccinazioni che vuole farmi. All’improvviso bussano alla porta, e io penso: “Deve essere un assistente o qualcuno che vuole prelevarmi il sangue”. “Ciao Bill”, dico, in mutande, un secondo dopo. Ovviamente il dottore non crede ai suoi occhi. Oh, è Bill Murray. Bill quindi entra nella stanza, dove ora siamo schiacciati in tre. Inizia a chiacchierare con il dottore del più e del meno, gli chiede cosa sta per farmi, spiegandogli che è stato in India anche lui». Letterman si è fatto una delle sue famose risate e ha smesso di raccontare la storia. «È stata una cosa così assurda che faccio fatica a raccontarlo. Sono in mutande. C’è Bill Murray e mi stanno facendo un’iniezione. Non è mica normale, no? Non è una violazione del giuramento di Ippocrate? Il dottore inizia a farmi le iniezioni, io sono in mutande, Bill mi guarda e mi chiede: “Stai andando in palestra?”».

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