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  • Giovedì 4 agosto 2016

Come l’ISIS addestra i terroristi

Un tedesco che ha abbandonato lo Stato Islamico ed è tornato in Germania dove è stato arrestato ha raccontato come funziona la struttura "Emni" al New York Times

Harry Sarfo in un video del New York Times
Harry Sarfo in un video del New York Times

David Fritz-Goeppinger, 24enne fotografo di nazionalità cilena ma cresciuto in Francia, era tra le persone che il 13 novembre 2015 furono tenute in ostaggio al teatro Bataclan di Parigi durante gli attacchi coordinati dello Stato Islamico (o ISIS). Insieme agli ostaggi – una ventina in tutto, costretti a stare vicini alle finestre per fare da “scudi umani” – c’erano due terroristi con indosso una cintura esplosiva e armati di kalashnikov. A un certo punto Fritz sentì un terrorista dire all’altro, in francese: «Dovremmo chiamare Souleymane?». Il secondo sembrò infastidito dall’uso del francese e riprese la conversazione in arabo. Fritz ha raccontato che in quel momento si rese conto che dietro i due terroristi doveva esserci un gruppo molto ben organizzato, una gerarchia: «Si comportavano decisamente come soldati» in attesa di ordini.

Nelle settimane successive al 13 novembre si scoprì che gli attacchi erano stati pianificati per mesi dai vertici dello Stato Islamico in Siria e in Iraq e che i terroristi avevano ricevuto addestramento militare in Siria appositamente per fare quel tipo di attentato. L’antiterrorismo francese seppe anche che la persona che si era occupata in Francia dell’organizzazione dell’attacco era Abdelhamid Abaaoud, un cittadino belga che era poi stato ucciso il 18 novembre in un’operazione di polizia successiva agli attentati a Saint-Denis, a nord di Parigi. Abaaoud non aveva solo gestito l’organizzazione degli attacchi a Parigi: fu riconosciuto come il capo di una estesa cellula dell’ISIS in Francia e Belgio, con ampie libertà di manovra e di decisione attribuitegli dai vertici siriani e iracheni del gruppo. Gli investigatori francesi scoprirono anche l’identità di quel Souleymane citato da un terrorista al Bataclan: era uno dei vice di Abu Muhammad al Adnani, il capo della divisione media e propaganda dello Stato Islamico e il capo di Emni, una sezione del gruppo molto potente e organizzata. Emni pianifica in quasi ogni sua fase gli attentati terroristici dello Stato Islamico compiuti all’estero. Alcuni degli uomini che ha addestrato sono stati coinvolti negli attacchi di Parigi (come Abaaoud) e hanno costruito le bombe usate negli attacchi all’aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles, il 22 marzo. Altri sono stati mandati in Francia, Belgio, Austria, Germania, Spagna, Libano, Tunisia, Bangladesh, Indonesia e Malesia in attesa del momento giusto per compiere un attentato.

Cos’è e che importanza ha Emni lo ha raccontato Rukmini Callimachi, la giornalista che si occupa di terrorismo islamista per il New York Times. Callimachi – che già in passato ha scritto grosse e approfondite inchieste sullo Stato Islamico – ha scritto un lungo articolo pubblicato mercoledì 3 agosto, e ha basato la sua ricostruzione su diversi documenti dell’antiterrorismo francese, belga, tedesco e austriaco, e sulla testimonianza di Harry Sarfo, un cittadino tedesco che nel 2015 si unì allo Stato Islamico ed ebbe a che fare con Emni e trasversalmente con Adnani. Sarfo oggi si trova in un carcere di massima sicurezza vicino a Brema, nel nord della Germania, e sta scontando una condanna a tre anni. Callimachi ha descritto Sarfo come «l’unico europeo reclutato dalla sezione dell’ISIS dedicata a compiere attacchi in Europa che ha accettato di parlarne».

Chi è di Harry Sarfo
Sarfo è nato in Germania da una famiglia non musulmana. Quando era adolescente si trasferì a Londra, dove studiò costruzioni al Newham College. Si convertì all’Islam a 20 anni e poco dopo fu costretto a tornare in Germania per scontare una condanna per un furto risalente a qualche anno prima. Come molti altri jihadisti, si radicalizzò in carcere: si trovò a dividere la cella con un noto reclutatore jihadista legato ad al Qaida che gli insegnò “l’ideologia del jihad”. Una volta uscito dal carcere cominciò a frequentare una moschea a Brema – la città tedesca dove era cresciuto – allora ritenuta molto estremista. Dopo diversi tentativi falliti, nell’aprile del 2015 Sarfo riuscì ad arrivare in Siria e si unì allo Stato Islamico: ci rimase per tre mesi, poi si pentì della sua scelta e andò in Turchia, e da qui tornò in Germania, dove fu arrestato e condannato. Il New York Times ha scritto che non è stato possibile verificare tutte le cose che ha raccontato Sarfo, ma che gli investigatori tedeschi lo ritengono una fonte attendibile, anche incrociando i suoi racconti con le informazioni raccolte finora dalle agenzie europee che si occupano di terrorismo.

Sarfo era arrivato in Siria passando dalla Turchia, come la maggior parte dei cosiddetti “foreign fighters” (i combattenti stranieri) che si sono uniti ai gruppi jihadisti siriani negli ultimi anni. Una volta raggiunto il confine, Sarfo fu sottoposto dagli uomini dello Stato Islamico alla normale procedura prevista per tutti gli aspiranti miliziani. Gli furono prese le impronte digitali e un campione del suo sangue e gli furono fatte molte domande: sulla sua età, sul nome di sua madre, sui suoi studi passati e sulle sue ambizioni. Dopo appena tre giorni, Sarfo fu avvicinato da alcuni uomini con il volto coperto, erano membri di Emni: gli chiesero se volesse tornare in Germania e compiere attentati nel suo paese. «Mi dissero che non c’erano molte persone in Germania disposte a fare quel tipo di lavoro», ha raccontato Sarfo agli investigatori tedeschi. «Dissero che qualcuno c’era all’inizio. Ma uno dopo l’altro si erano tirati indietro perché avevano paura, ci avevano ripensato. Lo stesso era successo in Inghilterra». Un amico di Sarfo, un francese, chiese agli uomini di Emni se servivano reclute di quel tipo anche in Francia. «Cominciarono a ridere, ma a ridere per davvero, con le lacrime agli occhi. Dissero, “non preoccuparti per la Francia”. “Mai mushkilah”, che in arabo significa “non ci sono problemi”», ha raccontato Sarfo. Queste conversazioni si tennero nell’aprile 2015, sette mesi prima degli attacchi di Parigi.

L’addestramento, le decapitazioni e i video
Sarfo si rifiutò di tornare in Germania per compiere un attentato suicida e disse che la sua ambizione era quella di combattere per lo Stato Islamico in Siria o in Iraq. Fu comunque inserito in un programma di addestramento delle forze speciali dello Stato Islamico, uno di quelli che erano diventati dei settori di reclutamento di Emni. I requisiti per entrare nelle forze speciali erano molto rigidi: per esempio erano ammessi solo gli uomini single che accettavano di non sposarsi per tutta la durata dell’addestramento. Sarfo fu portato insieme ad altri uomini in un deserto vicino a Raqqa, in Siria, in mezzo al niente. «Farsi la doccia era vietato, così come mangiare, a meno che non te lo dessero loro. Di fronte alla porta di ciascuna abitazione venivano messi due bicchieri d’acqua al giorno. L’obiettivo era quello di metterci alla prova, vedere chi davvero lo voleva, chi era convinto di stare lì», ha raccontato Sarfo. L’addestramento – sviluppato su dieci livelli – era molto duro, così come le punizioni per chi si rifiutava di fare qualcosa: un giorno un uomo si rifiutò di alzarsi perché era troppo stanco. Gli addestratori gli legarono le gambe e le braccia a un palo e lo lasciarono lì.

Durante i tre mesi passati in Siria, Sarfo assistette ad alcune decapitazioni, ma non vi prese mai parte: ha raccontato al New York Times di avere provato disgusto («mi tremavano le gambe»). Sarfo si allontanò definitivamente dell’ideologia dello Stato Islamico quando vide come venivano girati i video di propaganda del gruppo: un giorno gli fu chiesto da altri miliziani provenienti dalla Germania di andare a Palmira, una città siriana, a girare un video destinato ai simpatizzanti tedeschi. Si accorse che non era come aveva sempre pensato, e che le scene dei video non erano naturali e venivano girate molte volte per ottenere un effetto scenico efficace. Sarfo si rifiutò anche di uccidere uno degli ostaggi e alla fine comparve solo in una breve scena con in mano una bandiera nera dello Stato Islamico. Da quel momento cominciò a progettare la sua fuga. Ci mise settimane ma poi riuscì a superare il confine con la Turchia e a tornare in aereo a Brema, dove fu arrestato.

arfoHarry Sarfo in un video di propaganda dell’ISIS diffuso nel 2015

Cos’è oggi Emni
All’inizio Emni era una sezione interna dello Stato Islamico incaricata di condurre interrogatori e scoprire le spie. A partire dal 2014 ha cominciato a occuparsi anche dell’organizzazione degli attentati all’estero, diventando una delle unità più potenti e influenti di tutta l’organizzazione. Oggi Emni è una parte fondamentale delle operazioni dello Stato Islamico e ha praticamente carta bianca nel reclutare operativi dalle diverse agenzie interne al gruppo (come nel caso delle forze speciali nelle quali era stato inserito Sarfo). A capo di Emni c’è Abu Muhammad al Adnani, noto per essere il potente portavoce del gruppo e il capo della propaganda su cui il Dipartimento di Stato americano ha messo una taglia di cinque milioni di dollari. Di Adnani non si sa molto: si pensa che abbia 39 anni, ma il resto della sua vita è praticamente un mistero. Tra i suoi collaboratori più stretti ci sono diversi europei, per esempio Abu Souleymane, l’uomo citato al Bataclan. Souleymane – che potrebbe avere origini marocchine o tunisine – si occupa tra le altre cose di organizzare i viaggi di ritorno delle reclute in Europa. Secondo Ludovico Carlino, un analista della società di consulenza londinese IHS Conflict Monitor, Souleymane è stato promosso a quel ruolo dopo l’uccisione di Abaaoud, il belga considerato l’organizzatore degli attacchi di Parigi. Adnani e i suoi uomini si occupano anche di creare delle reti di simpatizzanti dello Stato Islamico in quei paesi dove ci sono delle condizioni precedenti favorevoli, come una tradizionale presenza di al Qaida. L’obiettivo, dicono diversi analisti e funzionari dell’antiterrorismo, sarebbe quello di creare una rete globale di terrorismo vicina allo Stato Islamico.

Nel corso degli interrogatori con gli investigatori tedeschi, Sarfo ha anche detto che la rete di Emni in Europa potrebbe essere più estesa di quanto pensino oggi le agenzie antiterrorismo, perché alcuni dei recenti attacchi potrebbero non essere stati solo ispirati dallo Stato Islamico, come si crede, ma anche diretti (su questa questione, tra l’altro, c’è un ampio dibattito). Sarfo ha parlato dell’esistenza in Europa di alcuni intermediari, persone cioè che non partecipano direttamente agli attacchi ma che aiutano coloro che vogliono farli insegnando loro a fabbricare una cintura esplosiva, a recuperare delle armi o a dichiarare fedeltà allo Stato Islamico in modo efficace. Negli Stati Uniti e in Canada le cose andrebbero invece in maniera un po’ diversa. Sarfo ha detto che per lo Stato Islamico è più difficile rimandare in America i miliziani addestrati in Siria: non ci sono le condizioni favorevoli esistenti in Europa, tra cui la facilità di entrare e uscire dalla Turchia e gli accordi di Schengen, che permettono a un cittadino europeo di spostarsi liberamente da un paese all’altro tra quelli che hanno firmato il trattato. »Nel caso degli Stati Uniti e il Canada – ha raccontato Sarfo – è molto più facile per i reclutatori dello Stato Islamico contattare i potenziali terroristi attraverso i social network; dicono che gli americani sono stupidi, hanno una politica che permette di procurarsi facilmente delle armi» e che di fatto rende spesso superflua la presenza di intermediari. Finora gli attentatori dello Stato Islamico che hanno fatto – o hanno tentato di fare – un attentato fuori dall’Iraq e dalla Siria sembrano essere 28, compresi quelli di Parigi, Bruxelles e del resort di Susa, in Tunisia. Secondo Sarfo, i miliziani addestrati da Emni e mandati in Europa sarebbero centinaia.

Sarfo ha appena finito di scontare il primo dei suoi tre anni di carcere, in isolamento: gli ultimi due li passerà in una cella normale perché non è più considerato un “soggetto pericoloso”. Al New York Times ha detto che non sa come sarà d’ora in avanti la sua vita, ma che pensa di avere fatto la cosa giusta a raccontare pubblicamente la sua esperienza.