Perché non sappiamo giudicare i film

Il critico del Washington Post dice che ci concentriamo troppo sul "messaggio", come fossero manifesti ideologici o tesi di dottorato, e ci dimentichiamo che sono opere d'arte

di Ann Hornaday – Washington Post

November 1946: The audience at the Paramount 25 Year Club party. (Photo by George Konig/Keystone Features/Getty Images)
November 1946: The audience at the Paramount 25 Year Club party. (Photo by George Konig/Keystone Features/Getty Images)

Per quelli che apprezzano i film ambiziosi e maturi che di solito vengono premiati agli Oscar, e non i blockbuster, le chiacchiere che circolano attorno ai premi sono una buona cosa: si tratta di film la cui diffusione sarebbe altrimenti a rischio. Eppure, il modo in cui le recensioni parlano di questi film è spesso così campanilistico e superficiale che sembra quasi che stiano parlando di un manifesto ideologico, oppure che stiano discutendo una tesi di dottorato: tutto meno che di un film.

In un’epoca in cui ogni bacheca Facebook scoppia di tirate moralistiche e recensioni improvvisate, è facile perdere di vista il fatto che parlare del contenuto e del messaggio di un certo film significa continuare una pratica secolare. Cento anni fa questo mese usciva infatti La nascita di una nazione del regista David Wark Griffith. Non fu solamente un film molto sofisticato dal punto di vista tecnico ed estetico: fu anche il primo successo commerciale dell’industria cinematografica (lo si può vedere per intero su YouTube, dura più di tre ore).

Adattato dal romanzo di Thomas Dixon The Clansman, questo ambizioso ritratto degli stati del sud degli Stati Uniti durante la guerra civile e il periodo immediatamente successivo era in realtà un catalogo liricizzato di ideali razzisti: raffigurava infatti i neri – interpretati da attori bianchi col viso pitturato – come degli sciocchi, alcolisti, ossessionati dal sesso e di per sé una minaccia politica. I membri del Ku Klux Klan, invece, venivano descritti come eroi romantici. Quando l’allora presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson vide La nascita di una nazione, si dice che commentò: «è come assistere alla storia, illuminata coi fulmini», probabilmente perché il film riprendeva e rinforzava alcune idee razziste da lui citate nel suo libro in cinque volumi Storia del popolo americano.

Il controverso messaggio politico della Nascita di una nazione ebbe un immediato effetto sulla società dell’epoca: fu molto criticato dalla National Association for the Advancement of Colored People (NAACP), una delle più famose associazioni a favore dei diritti dei neri, e di conseguenza la sua circolazione fu impedita in diversi stati (cosa che spinse Wilson a rimangiarsi la sua lode). Nel frattempo la rappresentazione del Ku Klux Klan presente nel film contribuì alla rinascita dell’associazione terroristica che ancora negli anni Sessanta utilizzava il film come uno strumento di dottrina.

È proprio questa capacità di commuovere, motivare e galvanizzare le persone che ha reso il cinema una forma d’arte così problematica, poiché ancora oggi gli spettatori si interrogano sulle capacità di un dato film di dare forma ai nostri comportamenti e alle nostre credenze. Fra tutte le innovazioni di Griffith che hanno riguardato l’utilizzo della videocamera, gli effetti speciali, le luci, il casting, il montaggio e la musica, quella che è circolata più di tutte è stata la volontà di condizionare lo spettatore.

Questa volontà, negli anni, è aumentata a causa della nostra riluttanza o incapacità a parlare dei film proprio nella misura in cui sono stati innovati da Griffith. Un secolo dopo l’invenzione del moderno lungometraggio, le stesse persone che reputano un certo film il veicolo per un messaggio politico o un incartamento per messaggi nascosti, non riescono a concepirlo come un fatto estetico e artistico.

Sia quando un ex dirigente politico si lamenta della rappresentazione di Lyndon B. Johnson in Selma (distorcendo peraltro la vera rappresentazione che se ne fa nel film), sia quando un ex corrispondente di guerra considera American Sniper come un endorsement a una guerra illegale e immorale: entrambi stanno riducendo i due film agli elementi più rudimentali che li compongono, senza apprezzarne le strategie formali e i dettagli che lo rendono una forma complessa d’arte, di intrattenimento e di interpretazione della storia.

Un critico può accusare Boyhood di essere troppo simile al progetto Up (una serie di documentari del regista Michael Apted che contengono diverse interviste a un gruppo di ragazzi in vari momenti della loro vita), oppure di non esserlo a sufficienza. Un altro può insistere sul fatto che l’interpretazione di Michael Keaton in Birdman rifletta in realtà la sua stessa vita e carriera professionale (un’interpretazione che lo stesso Keaton ha definito “superficiale”). In nessuno dei due casi il giornalista sembra interpretare il film come una rappresentazione materiale delle pratiche e degli scopi del regista: una storia, punto.

Troppo spesso anche chi pubblicizza il film è complice nel sottolinearne il contenuto piuttosto che la forma. Nessuno padroneggia quest’arte oscura come il produttore statunitense Harvey Weinstein, fra le altre cose cofondatore della casa di produzione Miramax Films. Weinstein è infatti diventato un esperto nel setacciare i suoi film alla ricerca del più flebile legame con un tema sociale del momento, e quindi camuffare da campagna sociale una manovra di marketing. I cartelloni che pubblicizzano The Imitation Game con la scritta “rendete onore a quest’uomo, rendete onore a questo film” legano un possibile Oscar alla campagna contro l’omofobia. Una cosa simile era successa in passato, quando Weinstein cercò di legare la promozione del Lato positivo a una riforma dei manicomi o Philomena a una nuova legislazione sulle adozioni.

È difficile argomentare che anche la più debole campagna su questi temi non sia apprezzabile: Weinstein può essere scaltro, persino cinico, ma solitamente contribuisce a sollevare attenzione e consensi intorno a buoni film. Ma insistere in maniera così ossessiva sul “messaggio” di un certo film, al posto che soffermarsi su come e perché riesce a trasmetterlo – soprattutto durante la “conversazione” globale intorno agli Oscar – fa male alla cultura cinematografica. E in un’epoca dominata dall’immagine e dal suono, la capacità di avere un pensiero critico riguardo i media visivi è più importante che mai: stiamo parlando della capacità di scomporre una certa immagine, comprendere il montaggio, apprezzare una buona recitazione e accorgersi di tutti i dettagli che finiscono nel film, dall’elemento più abusato da un dato genere fino alla più intelligente dichiarazione artistica d’intenti.

È fuorviante, sebbene sia legittimo, chiedersi se il ritratto che Ava DuVernay ha fatto di Martin Luther King in Selma sia storicamente accettabile. Molto più interessante e cruciale è chiedersi il perché delle scelte di DuVernay, e se siano state motivate da una volontà di realismo, di simbolismo o di asciuttezza della narrazione. Il fatto che Boyhood sia simile alla serie di Up è ovvio. Quello che lo rende un capolavoro agli occhi di molti spettatori è il modo in cui il regista Richard Linklater e la responsabile del montaggio Sandra Adair hanno lavorato sulle proprie influenze, riuscendo a scegliere le scene e momenti di transizione giusti affinché non fossero visibili le “cuciture” del film, senza cioè che si avesse la percezione del passare degli anni.

Sebbene a suo modo, con un atteggiamento autocelebrativo e pieno di lustrini, l’Academy che assegna gli Oscar fa del suo meglio per correggere la miopia di noi spettatori, assegnando i premi ai migliori attori, produttori, sceneggiatori, responsabili della fotografia e tecnici del suono. È un monito notevole al fatto che i film non compaiono dal nulla in tutta la loro complessità, ma che invece vengono costruiti a partire da un linguaggio che Griffith stesso ha ridefinito e anticipato nella Nascita di una nazione.

Chiaro, il valore storico del film di Griffith è nullo. Ma La nascita di una nazione e i suoi successori sembrano davvero simili a un fulmine nella loro capacità di dare la scossa e illuminare, travolgere e rintuzzare. I nostri sentimenti contrastanti nei riguardi di questo potere ci conducono a ridurre i film a manifesti e trattati. Ma almeno per una notte possiamo accordarci sul ritenerli, sopra ogni altra cosa, una forma d’arte.

©Washington Post 2015

foto: George Konig/Keystone Features/Getty Images