Nella notte tra il 24 e il 25 luglio del 1943 si tenne l’ultima riunione del Gran Consiglio del Fascismo, l’organo supremo del regime, presieduto da Benito Mussolini. Durante la riunione venne votato il famoso “Ordine del giorno Grandi”, il documento che portò alla fine del regime fascista e che mise in moto il meccanismo che avrebbe portato all’uscita dell’Italia dalla Seconda guerra mondiale e all’inizio della guerra civile.
La riunione del 24 luglio era la prima dal 1939, quando il Gran Consiglio del Fascismo fu convocato per votare la decisione di mantenere l’Italia neutrale nella guerra appena scoppiata – una decisione non vincolante, come tutte quelle prese dal Gran Consiglio che, per legge, era un organo soltanto consultivo.
Dopo il 1939 Mussolini prese tutte le più importanti decisioni senza consultare il Gran Consiglio, probabilmente per il timore di scontrarsi con i suoi stessi gerarchi. All’interno del Gran Consiglio erano presenti tutte le numerose correnti del fascismo: dai più intransigenti, i rivoluzionari che avrebbero voluto l’abolizione della monarchia, fino ai più moderati, contrari all’alleanza con la Germania.
A metà luglio quegli stessi gerarchi avevano chiesto a Mussolini di convocare nuovamente il Gran Consiglio per discutere l’andamento della guerra, ma anche l’organizzazione del partito e del regime. Più o meno apertamente alcuni gerarchi chiesero a Mussolini di restituire al re parte dei suoi poteri, in particolare il comando supremo delle forze armate. La mossa, almeno apparentemente, voleva far condividere alla monarchia la responsabilità dell’andamento del conflitto – che andava sempre peggio.
Il 10 luglio gli alleati erano sbarcati in Sicilia e l’esercito italiano si era dimostrato incapace di difendere l’isola. Soltanto pochi reparti italiani e le truppe tedesche stavano riuscendo a rallentare l’avanzata degli americani, dei canadesi e degli inglesi. Il 19 luglio gli aerei americani avevano bombardato Roma per la prima volta. Lo stesso giorno Mussolini aveva incontrato a Feltre Adolf Hitler. Nell’incontro Mussolini avrebbe dovuto persuadere Hitler a fornire all’esercito italiano armi e mezzi sufficienti a proseguire la guerra, ma Hitler non gli permise di parlare e Mussolini non riuscì a imporre le sue richieste.
La riunione cominciò alle 17 del 24 luglio nella Sala del Pappagallo a Palazzo Venezia. Nella stanza erano stati disposti 28 scranni, senza nessuna decorazione. Quello di Mussolini era posizionato su una pedana, per tenerlo appena più alto degli altri. Non c’erano stendardi alle pareti e nemmeno la guardia d’onore, formata di solito da 12 moschettieri di Mussolini. Il palazzo, però, era pieno di agenti di polizia in borghese e nel cortile erano schierati diversi soldati delle Camicie Nere.
Tutti i 28 membri del Gran Consiglio erano presenti: i Quadrumviri – i veterani della marcia su Roma – i principali ministri del governo, il presidente del Tribunale Speciale, quello dell’Accademia d’Italia, il comandante della Milizia Volontaria, le Camicie Nere, i presidenti del Senato e della Camera dei Fasci e delle Corporazioni – che aveva sostituito la Camera dei deputati – il segretario del Partito Fascista e altri membri, scelti per meriti speciali che facevano parte del Consiglio con un mandato di tre anni.
Mussolini entrò nella Sala del Pappagallo per ultimo, alle 17 e 14, e chiese a un commesso di fare l’appello dei presenti. «L’ingresso del Duce nella sala del Gran Consiglio», scrisse l’economista Alberto De Stefani, membro del Gran Consiglio per meriti speciali, «è stato silenzioso; un’accoglienza di attesa; pareva non vedesse nessuno; rifletteva e dava l’impressione di chi si appresta ad ascoltare; la sua espressione era passiva, senza sintomi di reazione come quella di chi deve accettare un avvenimento e non vuole sottrarvisi». Altri scrissero che nel volto e nei modi di Mussolini si potevano vedere: «I segni di una volontà oramai rassegnata alla gran resa dei conti».
Non esistono resoconti stenografici della riunione ma molti dei testimoni, tra cui lo stesso Mussolini, lasciarono dei racconti – non sempre concordanti – su cosa venne detto quella sera. Di sicuro la riunione cominciò con un lungo discorso di Mussolini. Secondo alcuni testimoni parlò per due ore in una specie di lunga autodifesa. Riassunse gli ultimi anni di guerra e spiegò che non era stata sua intenzione prendere il comando supremo delle forze armate – una prerogativa che sarebbe stata del re – e che aveva lasciato sempre mano libera di decidere ai generali e allo stato maggiore dell’esercito.
Cercò di prevenire le critiche e disse che era pronto a rivoluzionare la struttura di governo e quella del partito. Disse che era pronto a «cambiare gli uomini» e a «dare un giro alla vite». Alla fine del discorso disse che in fondo anche nella Prima guerra mondiale alcune province erano state perse, ma che nonostante questo la guerra era stata vinta comunque. Il discorso non lasciò soddisfatti i gerarchi presenti. Il ministro delle Finanze, Giacomo Acerbo, descrisse quella relazione come «fiacca, disordinata, contraddittoria».
Dopo Mussolini presero la parola altri due gerarchi, che parlarono per un altro paio d’ore. Erano le 21 quando fu il turno del presidente della Camera Dino Grandi. Era arrivato a Palazzo Venezia con due bombe a mano infilate nella valigetta e, scrisse poi, si era molto preoccupato vedendo il gran numero di Camicie Nere che attendevano nel cortile del Palazzo. Grandi parlò per circa un’ora e, dopo aver premesso la sua fedeltà al re, espose e chiese di mettere ai voti il suo ordine del giorno: Mussolini doveva rimettere i suoi poteri al re, doveva rinunciare al comando supremo delle forze armate e doveva ripristinare la Costituzione, ossia lo Statuto Albertino.
Mussolini non reagì in modo particolare e diede la parola al gerarca successivo, scrissero i testimoni. In effetti conosceva da tre giorni il contenuto di quel documento, perché lo stesso Grandi glielo aveva fatto esaminare il 22 luglio. Grandi era un moderato, era contrario all’alleanza con la Germania e sperava che Mussolini sfruttasse il suo ordine del giorno come via d’uscita per abbandonare il potere e permettere all’Italia di uscire dalla guerra.
Anche alcuni dei gerarchi più intransigenti, come Roberto Farinacci e Carlo Scorza, segretario del Partito Fascista, volevano un passo indietro di Mussolini, almeno da alcune delle sue funzioni, ma chiedevano anche di continuare a combattere accanto alla Germania. E infatti, poco dopo l’intervento di Grandi, venne presentato da Farinacci un secondo ordine del giorno per continuare la guerra accanto alla Germania e riconsegnare al re il comando dell’esercito.