• Mondo
  • Mercoledì 10 luglio 2013

Lo sbarco in Sicilia, 70 anni fa

Le foto e la storia di uno dei più grandi sbarchi militari della storia, che ottenne un obiettivo diverso da quello progettato (che invece fu mancato)

di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca

Poco dopo la mezzanotte del 10 luglio 1943, durante la Seconda guerra mondiale, un corpo di spedizione formato da truppe americane, inglesi e canadesi invase la Sicilia. Nelle ore successive 180 mila soldati sbarcarono lungo 160 chilometri di costa: fu il più grande sbarco di tutta la storia per numero di uomini scesi a terra nel primo giorno e per dimensioni della costa assaltata. Più grande persino di quello in Normandia, un anno dopo (ma quello in Francia fu superiore per numero di mezzi, dimensioni della flotta e truppe sbarcate dal secondo giorno in poi).

Prima della Sicilia
La decisione di sbarcare in Sicilia e da lì invadere l’Italia fu il frutto di un compromesso tra gli ambiziosi piani dell’esercito statunitense e quelli più modesti dell’esercito inglese. Nella primavera del 1943 era chiaro a tutti gli alleati che era necessario impegnare da qualche parte in Europa la Germania nazista. La guerra era in corso oramai da quattro anni e la gran parte dello sforzo militare fino a quel momento era stata sostenuta dall’esercito russo – alla fine della guerra risultò che l’Unione Sovietica aveva, da sola, subito il 95 per cento di tutte le perdite delle potenze alleate e, sempre da sola, aveva ucciso 4,5 milioni di soldati tedeschi, mentre americani e inglesi ne avevano uccisi soltanto 500 mila.

Stalin premeva da anni affinché venisse aperto un “secondo fronte”, cioè che gli alleati sbarcassero in forze in qualche punto dell’Europa, preferibilmente in Francia. I generali americani erano favorevoli a questa alternativa: la loro filosofia, condivisa in buona parte dal presidente Franklin D. Roosevelt, era che la guerra andava finita il prima possibile. Per farlo era necessario sbarcare un grande esercito nel punto dal quale sarebbe stato più facile colpire la Germania. Il primo ministro britannico Winston Churchill e i generali inglesi, al contrario, ritenevano che le forze alleate non fossero ancora pronte a sbarcare in Europa e che invece era necessario compiere operazioni secondarie, ai “fianchi” della Germania nazista – come per esempio in Grecia oppure nel resto dei Balcani occupati dall’esercito tedesco.

Il compromesso scelto fu un’invasione della Sicilia, seguita da uno sbarco nella penisola italiana. Soddisfaceva in parte gli inglesi, che volevano un’operazione in un teatro secondario, ma fu approvata anche dagli americani, che speravano in una facile vittoria che avrebbe portato gli alleati ai passi alpini del Veneto e del Friuli e di là in Germania. In realtà la campagna d’Italia fu una delle più lunghe e difficili di tutta la guerra e sarebbe costata agli alleati disfatte sanguinose, come quella di Cassino. Ma tutto questo era ancora di là da venire, quando i primi soldati si lanciarono dagli aerei nella notte del 10 luglio 1943.

Lo sbarco aereo
Gli alleati decisero di lanciare l’assalto nel corno meridionale della Sicilia, lungo i 169 chilometri di litorale tra Licata, vicino a Gela, ad ovest, fino a Cassibile, pochi chilometri a sud di Siracusa, ad est. In tutto disponevano di 180 mila uomini da impegnare il primo giorno. Tra loro c’erano anche alcune migliaia di paracadutisti, che avevano il compito di occupare ponti e altri luoghi strategici nell’entroterra. I tedeschi e gli italiani – quasi tutti male armati e demoralizzati – disponevano di circa 250 mila soldati sparsi su tutta l’isola. A causa delle pessime strade, questo significava che il punto scelto per lo sbarco non poteva essere difeso da più di qualche decina di migliaia di soldati. Gli alleati, inoltre, avevano un’immensa superiorità in fatto di mezzi e rifornimenti.

I paracadutisti furono i primi a essere impegnati in azione: duemila inglesi e quasi altrettanti americani si lanciarono in piena notte nell’entroterra siciliano. Il loro compito era conquistare alcuni ponti strategici e disturbare tedeschi e italiani, confondendoli e attaccando le loro retrovie. Il primo lancio, quello degli americani, non andò molto bene – e quello degli inglesi fu ancora peggiore. Il vento fortissimo sparse i paracadutisti americani lungo un’ampia zona tra Gela e Siracusa: quasi tutti mancarono le zone di atterraggio e arrivarono troppo lontano dagli obiettivi per aiutare le truppe che sarebbero sbarcate dopo qualche ora.

Gli americani erano quasi tutti scesi con i paracadute. Buona parte degli inglesi, invece, arrivò in Sicilia a bordo di alianti. Si trattava di aerei senza motore in grado di trasportare 20 o 30 soldati, ma anche jeep e piccoli cannoni. Venivano rimorchiati da altri aerei fino a poca distanza dal bersaglio, venivano sganciati e quindi planavano silenziosamente fino alle zone di atterraggio. Era un ottimo sistema per attaccare di sorpresa obiettivi sensibili, come per esempio un ponte: non c’era il rischio di avvertire il nemico con il rombo delle eliche e i soldati non restavano indifesi, per minuti interi, a penzolare in aria attaccati ai paracadute. Ma un aliante era anche un mezzo di trasporto particolarmente pericoloso: una volta sganciato poteva soltanto planare fino al suo obiettivo, senza poter tornare indietro o cambiare rotta. Inoltre prendere terra non era facile: l’atterraggio non era altro che uno schianto controllato, quello che un aereo normale chiamerebbe “atterraggio di emergenza”.

Quello in Sicilia fu uno dei più tragici lanci di alianti della storia. A causa del forte vento, soltanto 12 su 147 atterrarono sull’obiettivo. Altri 69, sganciati troppo presto dai rimorchi, si schiantarono in mare, facendo affogare più di 250 soldati. Il resto atterrò in un raggio di 40 chilometri dall’obiettivo – Ponte Grande sul fiume Anape, sulla strada per Siracusa. Soltanto pochi paracadutisti riuscirono a raggiungere il ponte. All’una di notte sorpresero la guarnigione italiana – come molte delle forze schierate vicino alla costa, era formata da soldati anziani o invalidi – e rimossero le cariche esplosive che servivano a distruggerlo. Alle 10 di mattina, i paracadutisti attendevano i primi rinforzi provenienti dalle spiagge che sarebbero dovuti arrivare a dargli il cambio, ma ancora alle 11 non si vedeva nessuno. Dopo un’altra mezz’ora, al posto dei fanti inglesi arrivarono gli italiani.

Le spiagge inglesi
Mentre i paracadutisti inglesi e americani lottavano contro le raffiche di vento o si tenevano stretti alle cinture di sicurezza dei loro alianti in fase di atterraggio, a poche miglia dalla costa una grande armata si preparava allo sbarco. Erano raggruppate 2.509 navi, pronte a sbarcare 180 mila soldati soltanto nella prima giornata. Per fare un confronto, l’anno dopo durante lo sbarco in Normandia, il primo giorno scesero dalle navi circa 160 mila uomini (anche se vennero impegnate molte più navi, aerei e carri armati).

A mezzanotte i primi soldati cominciarono a scendere dalle grandi navi da trasporto nei piccoli mezzi da sbarco che li avrebbero portati sulle spiagge. Per alcuni soldati fu quella l’esperienza più spaventosa della giornata: scendere lungo una rete di corda stesa lungo la fiancata alta diversi metri di una nave, fino nel piccolo mezzo da sbarco, sballottato dal mare mosso.

A est gli inglesi e i canadesi non incontrarono grandi difficoltà nello sbarco. Le divisioni italiane a guardia dell’entroterra non opposero resistenza. Alcuni soldati scrissero che gli italiani raggiungevano le linee alleate per arrendersi «festosamente», cantando canzoni e riempiendo l’aria di risate. Questo clima si ripeté per buona parte della campagna e un generale tedesco scrisse: «Gli italiani, in pratica, non hanno mai combattuto e probabilmente non combatteranno mai».

Ma era accaduto qualcos’altro che si stava rivelando molto pericoloso per i paracadutisti inglesi che erano riusciti a conquistare Ponte Grande. Il forte vento e l’inesperienza degli equipaggi aveva sparso le divisioni inglesi e canadesi nei punti sbagliati. I comandanti si trovarono di fronte i battaglioni al comando di qualcun altro, l’artiglieria prese terra lontano dalle munizioni e il carburante arrivò ai settori che ancora non avevano ricevuto i veicoli. Ma il caos e il ritardo accumulato da inglesi e canadesi, per quanto stessero mettendo in difficoltà i paracadutisti, si rivelarono meno peggio di quello che stava accadendo agli americani, a Gela.

Le spiagge americane
A ovest, nel settore americano le cose andarono diversamente. Nemmeno un paracadutista era riuscito ad arrivare a Gela, dove avrebbero dovuto conquistare degli obbiettivi strategici. Inoltre la guarnigione italiana, rinforzata da alcuni soldati tedeschi, era già in allerta. I primi soldati sbarcarono a terra alle 2 e 45, nel buio assoluto dopo che i riflettori italiani erano stati distrutti. Senza grandi difficoltà gli americani conquistarono Gela, ma non riuscirono a spingersi fuori dalla città: sulle colline c’erano moltissimi soldati italiani e non sembravano intenzionati ad arrendersi.

Non solo gli americani non riuscirono ad avanzare, ma per gran parte della giornata dovettero resistere ai continui attacchi prima delle truppe italiane e poi di quelle tedesche. In una delle poche azioni aggressive delle truppe italiane in Sicilia, il colonnello Dante Hugo Leonardi riuscì a catturare decine di prigionieri americani. Gli italiani attaccarono dalle sette di mattina fino al primo pomeriggio, ma alla fine vennero respinti. Il loro equipaggiamento era scadente – ad aprire l’attacco c’erano 40 carri armati Fiat 3000, costruito vent’anni prima. Inoltre, le navi da guerra alleate si trovavano vicino alla costa e con i loro enormi cannoni bloccarono ogni tentativo di avanzare. Nel pomeriggio cominciarono i contrattacchi dei tedeschi, ma anche loro vennero fermati. Arrivata la sera divenne chiaro che non era più possibile respingere in mare gli americani.

Anche a est la battaglia era finita, con una vittoria altrettanto difficle per gli alleati. I paracadutisti inglesi avevano difeso Ponte Grande per tutta la mattina nella speranza di vedere arrivare i rinforzi. Nel primo pomeriggio agli attacchi delle truppe costiere italiane, formate da soldati di mezz’età, vennero affiancati a quelli di un battaglione della divisione Napoli, meglio armato e più agguerrito. Alle 14 e 45 erano rimasti soltanto 15 paracadutisti inglesi in grado di combattere. Il distaccamento si arrese soltanto un’ora prima che i rinforzi finalmente riuscissero ad arrivare al ponte. Gli italiani si ritirarono e gli inglesi poterono finalmente occupare Siracusa.

Dopo lo sbarco
La sera del 10 luglio tutti gli obiettivi fissati dai generali alleati erano stati raggiunti: Siracusa con il suo porto era stata conquistata e 180 mila uomini e più di 15 mila tra carri armati e altri veicoli erano sbarcati. Ma, come hanno sottolineato molti storici, gli obiettivi erano stati raggiunti a un prezzo molto superiore a quello previsto. Inoltre i tedeschi non davano segno di volersi ritirare dall’Italia e di permettere agli alleati di raggiungere senza difficoltà i passi alpini.

Mentre alcuni generali e politici restarono ottimisti, molti altri, sopratutto americani, compresero che ottenere una facile vittoria in Italia era impossibile e che la guerra sarebbe stata decisa l’anno successivo, con lo sbarco in Francia. In Sicilia gli alleati combatterono per altre 5 settimane e, tra morti, feriti e prigionieri, persero 25 mila uomini. I tedeschi usarono queste settimane per preparare la difesa della penisola. Arrivare a Roma sarebbe costato agli alleati quasi un altro anno di combattimenti e altre decine di migliaia di morti.

Lo sbarco in Sicilia non accelerò la fine della guerra, ma raggiunse un altro obiettivo: l’uscita dell’Italia dalla guerra. Dopo le numerose sconfitte e le rese in massa dei soldati italiani, e a causa anche del primo bombardamento di Roma, il 24 luglio l’organo principale del Partito Fascista, il Gran Consiglio del fascismo, si riunì e votò un ordine del giorno in cui si chiedeva al Re di assumere tutti i poteri costituzionali: era, di fatto, una sfiducia a Benito Mussolini. Il giorno dopo Vittorio Emanuele II convocò Mussolini al Quirinale e gli comunicò che il generale Badoglio era il nuovo primo ministro. Mussolini venne arrestato all’uscita dal colloquio e Badoglio, pochi giorni dopo, cominciò a trattare con gli alleati l’uscita dell’Italia dalla guerra.