La lettera di Elsa Fornero sul lavoro

Sulla Stampa, il ministro ha esposto le linee guida della riforma in discussione e ha ricordato l'esempio della Germania, un tempo "il malato d'Europa"

In una lunga lettera al quotidiano La Stampa, il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Elsa Fornero ha spiegato oggi le basi della riforma del lavoro che il governo Monti vuole approvare nelle prossime settimane. Due saranno i requisiti essenziali, “flessibilità” e i “nuovi ammortizzatori”, visto che quelli utilizzati sinora, come Cassa Integrazione e Mobilità Lunga, avrebbero accentuato la “disparità tra i lavoratori” e si sarebbero rivelati “incapaci di fornire protezione” a chi è stato maggiormente interessato dalla precarietà negli ultimi anni. Tra le altre cose, Fornero cita come esempio la riforma del mercato del lavoro tedesco degli ultimi anni, elencando una serie di provvedimenti che potrebbero essere applicati anche in Italia. Fornero ricorda che prima di queste riforme, la Germania era “il malato d’Europa”. Poi le cose sono cambiate.

L’Italia sta dimostrando di voler rapidamente superare le condizioni di debolezza strutturale che ne hanno fortemente frenato lo sviluppo nel corso negli ultimi decenni. Senza una riforma complessiva del mercato del lavoro, però, che renda il mercato stesso funzionale e dinamico il sistema produttivo italiano non riuscirà a risollevarsi:
il nuovo mercato dovrà essere funzionale alle opportunità e alle sfide poste dall’economia globale con le sue nuove tecnologie, e dinamico, per adattarsi rapidamente a cicli economici e a fenomeni competitivi dai ritmi molto più veloci di un tempo.

Senza tale riforma, le imprese non riusciranno a riorganizzarsi efficientemente, a stare al passo con il continuo mutamento che caratterizza l’economia mondiale e, conseguentemente, a creare occupazione, sviluppo, benessere.
Due sono i requisiti essenziali di questo nuovo mercato del lavoro: un adeguato grado di “buona” flessibilità nell’utilizzo del lavoro stesso da parte delle imprese, per rispondere a una domanda, interna e soprattutto internazionale, estremamente e rapidamente mutevole e un adeguato sistema di strumenti – assicurativi e assistenziali – che consentano ai lavoratori e alle imprese di gestire il cambiamento e il rinnovamento strutturale, anziché subirli. Il necessario, frequente, mutamento di mansioni e occupazioni, determinato dal rapidissimo rinnovamento tecnologico mondiale, deve avvenire senza traumi, nell’ambito di una “rete di sicurezza” più ampia di quella attuale per lavoratori e imprese.

L’Italia è ancora lontana da questi obiettivi e il lungo percorso che deve fare, nel poco tempo che l’economia globale di fatto le concede, parte dalla presa di coscienza dei limiti del sistema attuale.

La flessibilità sprecata

A partire dalla metà degli anni Novanta, le profonde modifiche apportate, in larga parte col consenso delle parti sociali, al mercato del lavoro italiano hanno introdotto significativi margini di flessibilità e sostenuto la crescita dell’occupazione con un aumento consistente della quota di lavoratori proveniente dai segmenti più svantaggiati, cioè i giovani e le donne.
Il maggior grado di flessibilità e il conseguente calo del costo effettivo hanno però indotto alcune componenti del sistema produttivo a ritardare l’aggiustamento strutturale richiesto dal nuovo assetto mondiale anziché accelerarlo.
A tale ritardo, ha contribuito anche lo scarso adattamento della formazione professionale – carente rispetto alla creazione di “capacità di apprendimento” e alle nuove tecnologie – e più in generale i ritardi della pubblica amministrazione.
Le conseguenze sono, purtroppo, ben note: un quindicennio di debole crescita che non ha consentito di trasformare la maggiore flessibilità in creazione di migliori opportunità di lavoro e un progressivo frazionamento della forza lavoro in due segmenti.
Sul primo, largamente composto da giovani e lavoratori di settori nuovi, è ricaduto maggiormente l’onere della flessibilità, spesso trasformatasi in precarietà, mentre il secondo è rimasto maggiormente isolato e protetto dalle fluttuazioni e dai processi di ristrutturazione, riducendosi però di numero (fino a rappresentare ormai poco più della metà dei lavoratori dipendenti del settore privato).

Strumenti insufficienti e sempre meno efficaci

La segmentazione è stata aggravata dall’inadeguatezza del sistema di ammortizzatori sociali a operare nel nuovo contesto. Gli strumenti presenti nel nostro ordinamento – come, ad esempio, la Cig, i contratti di solidarietà, la mobilità lunga – hanno conservato, durante la crisi, la loro efficacia per il sostegno al reddito del lavoratore e il mantenimento del legame tra lo stesso e il suo posto di lavoro, preservandone la professionalità, ma hanno subìto un parallelo processo di restringimento dell’area di applicazione, accentuando così la disparità tra i lavoratori.
Pensati per un mercato del lavoro molto meno flessibile, gli schemi esistenti si sono rivelati incapaci di offrire una rete di protezione a chi, negli anni precedenti, è stato maggiormente coinvolto dalla maggiore flessibilità.
Questa inadeguatezza è risultata evidente all’avvio della crisi, quando la Banca d’Italia stimava che oltre un milione- e mezzo di lavoratori non avrebbero goduto di alcuna tutela in caso di perdita del posto o sospensione dal lavoro, nonostante gli interventi del Governo allora in carica.

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