In difesa della decrescita

La lettera di Sandro Veronesi in risposta ad Antonio Pascale: "costruire un meccanismo che può andare solo avanti è di un’ingenuità imbarazzante"

Lo scrittore Sandro Veronesi ieri sulla Lettura del Corriere a risposto ad Antonio Pascale, che domenica scorsa aveva scritto un articolo molto critico con i sostenitori della teoria della “decrescita”, la necessità di ridurre i consumi e smettere di utilizzare il PIL e le sue oscillazioni come indicatori del benessere e della ricchezza di una società.

Caro Antonio Pascale, ho letto con attenzione il tuo articolo sulle parole-ameba (cioè quegli involucri verbali che, sostieni, «significano tutto e niente») comparso su queste pagine la settimana scorsa. Tu dici: «Il concetto di decrescita non trova spazio nei dipartimenti di economia, ma abbonda sulla bocca di quelli di noi che non hanno mai superato un esame di micro e macroeconomia». E io ti chiedo: perché dici questo? Vuoi forse suggerire che «quelli di noi» che lo menzionano non sanno di cosa stanno parlando? Non sai che fior di economisti (magari non nei dipartimenti universitari) stanno parlando di downshifting, decrescita e di riduzione da almeno tre decenni? E se le università non ne tengono conto, tu credi forse che abbiano ragione? Credi che in economia abbia valore solo quello che esce dai dipartimenti universitari?

Fai dei nomi, nel tuo articolo, il mio molto tangenzialmente e accompagnato da un complimento di cui ti ringrazio, altri con maggiore messa a fuoco, indicando in quelle persone il modello degli «egoisti» che predicano la decrescita degli altri per evitare la propria. E io ti chiedo: ma sei sicuro di quello che dici? Sono accuse gravi, con quali prove le sostieni? E quale responsabilità hanno avuto costoro nell’irrompere di due recessioni in tre anni? A meno che tu possegga dei dati che nel tuo articolo non hai fornito, la responsabilità di queste persone è pari a zero — ciò che non si può proprio dire dell’economia ortodossa, che è la principale responsabile del flusso di sofferenza che sta attraversando il mondo, per la semplice ragione che continua a basarsi su un modello fatiscente che non funziona più.

Ma davvero, caro Antonio, tu credi che il nostro attuale sistema possa ricominciare a produrre crescita solo perché la maggior parte dei dipartimenti universitari non prevede altra soluzione? Costruire un meccanismo che può andare solo avanti è di un’ingenuità imbarazzante, ma se l’invenzione della catena di Sant’Antonio dello sviluppo risale a un’epoca ingenua (20 gennaio 1949, discorso d’insediamento alla Casa Bianca del presidente Truman), il paradosso che imprigiona l’euro è stato concepito negli anni Novanta, quando il diritto a quell’ingenuità era scaduto da un pezzo. Eppure, come stiamo vedendo, i professori di economia chiamati a stabilire le regole d’ingresso nell’eurozona non hanno studiato nessun protocollo di uscita. Per loro la necessità di uscire dalla moneta unica non era un problema prevedibile — e tu te la prendi con chi invece questo problema se lo pone? Perché questo fanno, caro Antonio, quelli che additi nel tuo articolo: potrà anche non piacerti la via che indicano, ma almeno propongono qualcosa di un po’ più serio che alzare le tasse, smantellare lo Stato sociale e aspettare che passi ’a nuttata.

(continua a leggere sulla Lettura del Corriere)

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