La “decrescita” è una sciocchezza

Antonio Pascale spiega sulla Lettura del Corriere perché ridurre i consumi vuol dire ridurre i redditi, mentre la soluzione per sfruttare meno risorse si chiama innovazione

22nd August 1956: Farmers carrying newly-harvested corn at Burchetts Green near Maidenhead, where 110 acres are in the process of being harvested. (Photo by William Vanderson/Fox Photos/Getty Images)
22nd August 1956: Farmers carrying newly-harvested corn at Burchetts Green near Maidenhead, where 110 acres are in the process of being harvested. (Photo by William Vanderson/Fox Photos/Getty Images)

Antonio Pascale, giornalista, scrittore e blogger del Post, scrive oggi sulla Lettura del Corriere del popolare concetto di “decrescita” – una deliberata politica di riduzione dei consumi e della produzione – e di come questo sia, secondo lui, un concetto improponibile economicamente ed egoista e pericoloso socialmente.

Mi capita di ascoltare svariate volte la parola decrescita. È di gran moda, la usano un po’ tutti. Di recente, l’ho sentita pronunciare da Serena Dandini, Luca Mercalli, Carlo Petrini e dal mio scrittore preferito, Sandro Veronesi. E con sfumature particolari anche dai piccoli e medi imprenditori, quelli cioè che dovrebbero crescere. Marco Cassini della minimum fax: «Impegnarsi insieme, e reciprocamente, in una campagna di “decrescita felice”: produrre meno per produrre meglio». Il benestante italiano, più o meno di sinistra, si sta inscrivendo al club della decrescita e insiste su un punto: questo livello di consumi non è sostenibile per il pianeta. L’obiettivo è giusto, sono tuttavia incerto se rubricare questa posizione sotto la voce sensibilità verso il prossimo o sotto nuovo egoismo. Il fatto è che il concetto di decrescita non trova, in realtà, spazio nei dipartimenti di Economia, ma abbonda sulla bocca di quelli di noi che non hanno mai superato un esame di micro e macroeconomia, dunque tendono a coprire le lacune tecnico- scientifiche con un raffinato eloquio, grazie al quale i punti nevralgici vengono elusi e concetti tra loro distanti prendono, come dire, una buona e consolante nota, piacevole all’orecchio: l’abbondanza frugale (Serge Latouche). O ancora, e sempre sulla capacità oratoria, nella trasmissione Che tempo che fa del 29 gennaio 2012, Daniel Pennac tenta un raccordo tra l’amletica frase di Bartleby lo scrivano — «Preferirei di no» — e l’attuale crisi finanziaria: «La crisi viene da un eccesso di desiderio ». Di fronte a questo accumulo di inutili desideri, meglio una posizione di radicale ma gentile disappunto: «Preferirei di no». Una decrescita gentile.

Ma come si misura l’eccesso di desiderio? Il desiderio di Pennac di parlare delle sue idee si traduce in un consumo, culturale e non: deve prendere un aereo, venire a Milano, pernottare in albergo, tocca usare la carta di credito, credito e finanza sono intrecciati, e insomma consumi e Co2 anche per Pennac, e allora viene da dire: non è che il «Preferirei di no», si applica sempre al consumo degli altri o a quei consumi che non ci piacciono? C’è da dire che esistono vari modi di intendere la decrescita: a) decrescita come riduzione del Prodotto interno lordo; b) decrescita come riduzione dei consumi; c) decrescita come fuoriuscita «radicale» dall’economia di mercato.

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foto: William Vanderson/Fox Photos/Getty Images