Il welfare con i buoni pasto

Dario Di Vico spiega perché aumentando il loro valore il governo potrebbe rafforzare i redditi dei lavoratori senza nuocere alle imprese

Dario Di Vico sul Corriere della Sera di oggi spiega perché il governo farebbe bene a intervenire rafforzando quegli strumenti di “sostegno della condizione economica” che possono essere offerti con relativa facilità dalle imprese, perché defiscalizzati, anche allo scopo di rilanciare i consumi. Come i buoni pasto. C’è una sola obiezione da fare a questo ragionamento, di cui tra l’altro il governo ha già detto di volersi occupare: i buoni pasto sono oggi uno dei moltissimi diritti e benefit di cui non godono i collaboratori a progetto o a partita IVA, anche a parità di mansioni con i loro colleghi dai contratti a tempo determinato o indeterminato.

La contrattazione, quella reale e non quella ideologica, si va orientando sempre di più verso la valorizzazione del welfare aziendale. L’esperienza-pilota in Italia è quella della Luxottica ma ormai non si contano più le realtà e i gruppi che hanno negoziato con i sindacati formule innovative di sostegno alla condizione economica dei lavoratori e delle loro famiglie. Finora però queste esperienze sono rimaste confinate alla dimensione di impresa mentre ieri sul Corriere il professor Alberto Brambilla si chiedeva se non potessero diventare un elemento della politica retributiva e fiscale nazionale al tempo della Grande Crisi.

La materia è regolata dal Tuir, il testo unico delle imposte sui redditi, che prevede un’ampia serie di possibilità di defiscalizzazione. Si va dall’assistenza sanitaria alla mensa, dai ticket restaurant al trasporto collettivo e poi si arriva alle colonie per i figli, agli asili nido, alle borse di studio. Le opportunità, dunque, che il Tuir concede alla contrattazione aziendale sono numerose e molte ancora da scandagliare. In base alle esperienze che si stanno facendo e alle elaborazioni in corso si può tranquillamente dire che si può andare ben al di là di una quattordicesima mensilità.

Ma torniamo alla forma di defiscalizzazione più diffusa, rappresentata dai buoni pasto. In Italia la prassi di dare ai dipendenti il ticket da spendere negli esercizi commerciali data dalla seconda metà degli anni Novanta e il valore nominale del buono era di diecimila lire, interamente deducibili sia per quanto riguarda il fisco che la contribuzione. Con il passaggio alla moneta unica il valore esentasse è passato a 5,29 euro e da lì non si è più mosso nonostante sia difficile oggi consumare un pasto decente con quella cifra.

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