La richiesta di dimissioni di Stefano Fassina è stata un’«incoscienza dei liberal» (Krugman sulla BCE e la politica economica europea dice ben peggio: fosse stato responsabile economico, che figura…). Eppure, bisognerà provare a discutere per bene del “caso”, di questa polemica tra destra-sinistra all’interno del PD, variamente declinata fino alla più seria, reale e simbolica – ma molto approssimativamente raccontata – contrapposizione con Ichino.
Liquidare Fassina come un “ferrovecchio ideologizzato” o “fuori dal mondo” è altrettanto inaccettabile che tacciare Ichino come di “destra” o “traditore del popolo”. Sono due riflessi condizionati speculari, e sorvolare sul primo definendo il secondo come “stalinista” è scorretto. L’accusa di stalinismo, poi, è sempre un po’ sparata grossa e prima o poi ricade addosso: “liberal-stalinisti”, già li chiamano in rete. Vi sarà sfuggita, ma in questi mesi è andata avanti una surreale polemica sul “togliattismo” di certa gioventù democratica – una mimica di dubbia o malriuscita autoironia, ché verrebbe in mente quella poesia di Saba, “a un giovane comunista” (in cui, manco a dirlo, si parteggia per il canarino e i poeti matti più che per Togliatti). Ma lasciamo stare la poesia, in questo tempo totus oeconomicus, specialmente. Il linguaggio si fa spiccio, e a volte rozzo. Renzi, altro riferimento nell’accusa di destrismo (e berlusconismo, stavolta), che ha ricevuto la sprezzante critica di Fassina, dopo aver dato in outsourcing a Zingales la politica economica del PD, aveva parlato del responsabile economico come di «un burocrate chiuso in una stanza del Nazareno», ignorandone il curriculum ma soprattutto il fatto che in questi anni drammatici ha girato quasi tutte le nostre fabbriche in crisi.
Correre ai ripari
Il tema della base politico-culturale del PD – roba grossa, che dovrebbe avere a che fare con il giudizio sul secolo passato, sulla crisi di oggi, e su quale futuro si immagina di (ri)costruire – andrebbe affrontato con serietà e senza riflessi condizionati. Ci s’accorge che il mondo s’è guastato solo quando ti entra in casa, sbattendo i cancelli delle fabbriche – e già si formano accampamenti davanti agli impianti e file alle mense dei poveri. La cultura economica – non solo nella “riserva indiana” dell’eterodossia, anche nel mainstream spiazzato dalla “peggiore crisi eccetera” – si chiede come “rimettere nei cardini” il mondo, o almeno il capitalismo. Persino le librerie della nostra provincia si sono riempite di riflessioni divulgative sulla necessità di un rinnovato ruolo della “cosa pubblica” nell’economia, a partire dal problema delle disuguaglianze vecchie e nuove. Si sono lette le riflessioni sul ripensamento della scienza economica contenute in Bancarotta di J.E. Stiglitz o il recente Dani Rodrik sul “paradosso della globalizzazione“.
“Quali sono i vostri libri? Dove sono le vostre ricerche? Avete studiato?”, si chiese un tempo.
Lasciamo in pace quei tempi, e questi libri. I libri poi non bastano per definizione, e i professori sono tutti al Governo, oramai. Il fatto è che i “pragmatici”, anche tra i liberali, un po’ come fece Keynes a suo tempo, e anche tra i liberisti, si pongono oggi il problema della redistribuzione – è il caso del Financial Times citato e letto da Fassina, ma persino del FMI specie dopo il ruolo decisivo del per altro pessimo Strauss-Kahn. Forse non stanno “cambiando paradigma”, ma è questo ciò di cui si parla nel mondo. Niente e nessuno ne è “fuori”, ma alcune cose vi invecchiano in fretta. Gli anni non passano invano, e nemmeno le ore bruciate dallo spread (“what’s your spread?”, si chiede in giro). L’impianto politico-ideologico che a sinistra ha trovato la sua massima espressione nel new labour è stato con ogni evidenza del tutto insufficiente a evitare che il mondo si guastasse.
E anche alcuni fondamenti del tanto evocato “spirito originario” del PD si sono drammaticamente rivelati falsi: su tutti, la coincidenza di interessi tra capitale e lavoro (tra Calearo e Boccuzzi, per intenderci), uniti in nome dell’innovazione: un’illusione colpevole di fronte alla degenerazione speculativa dei mercati finanziari, a cui molti manager (non solo alla FIAT) prestano ben più attenzione che alle produzioni. Questo significa riaprire un aspro conflitto sociale? No, il conflitto non si è mai chiuso, tanto più nell’Italia di Termini Imerese o di Barletta. Bisogna governarlo con scelte chiare, che spostino la convenienza a investire nell’innovazione dei prodotti e nel miglioramento della qualità del lavoro, piuttosto che sulla rendita finanziaria o sulla speculazione, e difendere ed estendere un sistema di tutele sociali che, garantendo maggiore equità, facciano bene alla crescita. Ci si interroga su come redistribuire e crescere, per riattivare una domanda aggregata che è crollata, che già determina stagnazione e, nei paesi che dovranno attuare politiche di tagli alla spesa, rischio di nuova e stavolta esiziale recessione. È questo il tema da porre all’Europa ridotta a banche e debiti, alla crisi di alcuni stati che è una parte – non così rilevante, ormai – di una peggiore malattia. La cultura economica, non solo quel famoso Nobel, lo fa, rivolge assai preziose critiche all’incompleto – e prima che iniquo, insostenibile – impianto mercatista e intergovernativo dell’Unione, incapace di dare risposte tempestive ed efficaci alla crisi finanziaria dei debiti sovrani che diventa economica ora, e che diventerà infine – alla fine – dell’Unione monetaria e politica.
Un esempio significativo è arrivato dall’Italia con la lettera di molti importanti economisti (che certo non leggiamo con frequenza sulle prime pagine dei nostri conformisti principali quotidiani). Sono critiche attuali, non del “secolo passato”, dettate dall’esigenza di correre ai ripari in questa buriana finanziaria: non è dunque così “fuori dal tempo” chi, come Fassina, nel PD si rifà a questi ripensamenti (per chi, a sinistra, fu protagonista negli anni Novanta) o pensamenti (per chi negli anni Novanta imparava a leggere e scrivere). Ma l’Europa in blu scuro non risponde – e noi, che finalmente ci scopriamo tutti meridionali, dobbiamo provare a fare la nostra parte e un po’ di penitenza. La preoccupazione però rimane – il rigore senza crescita diventa rigor mortis, il risanamento del debito una pia intenzione – per una certa “incoscienza dei liberal”, dei rigoristi, e così via.
Lo scontro nel PD
Nella pressoché totale e miope mancanza di politiche sovranazionali di crescita e di equità (combinate come volete i due termini, devono essere combinati), i principali temi della nostra difficile corrispondenza con le istituzioni europee, che agitano il confronto interno nel PD, diventano le liberalizzazioni, la previdenza, la flessibilità del lavoro – a quest’ultimo s’aggiunge, come altro corno della speciale polemica con Ichino, la questione delle relazioni industriali.