Chiedetelo ai precari

La strada per aumentare i diritti dei lavoratori è una e non è quella che vuole percorrere il PD

di Ivan Scalfarotto

Foto Roberto Monaldo / LaPresse
09-04-2011 Roma
Interni
Manifestazione contro il lavoro precario
Nella foto Un momento della manifestazione

Photo Roberto Monaldo / LaPresse
09-04-2011 Rome
Demonstration against precarius work
Nella foto A moment of demonstration
Foto Roberto Monaldo / LaPresse 09-04-2011 Roma Interni Manifestazione contro il lavoro precario Nella foto Un momento della manifestazione Photo Roberto Monaldo / LaPresse 09-04-2011 Rome Demonstration against precarius work Nella foto A moment of demonstration

Mi telefona un vecchio amico, dicendosi “sgomento” per il fatto che io sia uno dei primi firmatari del documento che Pietro Ichino presenterà oggi alla “Conferenza Nazionale per il lavoro” organizzata a Genova dal PD. «Non si può tutelare il lavoro eliminando i diritti dei lavoratori» mi urla praticamente nelle orecchie.

Ho lavorato per molti anni come Direttore delle Risorse Umane (sì, il capo del personale) in Gran Bretagna, occupandomi di lavoro su una cinquantina paesi di Europa, Medio Oriente e Africa e posso dire con serena coscienza che l’Italia, con la sua reputazione di paese ipergarantista per i lavoratori, è l’unico paese in cui io abbia visto il precariato elevato a sistema. Altrove si può licenziare un lavoratore pagando un indennizzo e sapendo che il sistema di welfare si prenderà cura di chi esce dal mercato del lavoro, in modo più o meno intenso a seconda delle latitudini. Ma fintanto che il rapporto di lavoro continua, non esiste lavoratore che non abbia le ferie pagate e la malattia, i contributi sociali, la formazione. Cose che diamo per scontate per tutti dall’invenzione della spoletta a vapore.

E invece. Una mia amica, assunta a partita IVA da una multinazionale dell’industria della musica, mi ha raccontato della volta in cui, all’annuncio della gravidanza, fu messa seduta stante alla porta. «Mi è andata quasi bene che mi abbiano licenziato: col figlio precedente il mercato “tirava”, per cui ho dovuto lavorare fino all’inizio delle doglie». Un’altra mia amica, classe ’72, laureatissima in CTF – Chimica e Tecnologie Farmaceutiche, specializzazione ipertecnica – non ha mai visto in vita sua un contratto a tempo indeterminato. Ora che di recente gliel’hanno proposto, ha pensato di tenersi la sua partita IVA e di continuare da farmacista libera professionista: «Non ci sono abituata, a questo punto, a quasi quarant’anni, preferisco la mia flessibilità e poter seguire i miei bambini da vicino».

Qui, sia molto chiaro, nessuno vuole abolire i diritti dei lavoratori, secondo la frettolosa e superficiale interpretazione del mio amico urlante: le proposte di Ichino (nessun cambiamento per chi oggi ha un contratto “vero”; contratto a tempo indeterminato per tutti i nuovi assunti, senza articolo 18 per i licenziamenti dettati da ragioni economiche ma con l’articolo 18 assolutamente applicabile contro i licenziamenti disciplinari e discriminatori; concorso delle spese a carico dei datori di lavoro per finanziare un sistema di garanzia nei periodi tra un lavoro e un altro) di fatto aumentano, e di molto, i diritti dei lavoratori. Di tutti quei lavoratori – soprattutto giovani – che oggi, entrando nel mercato del lavoro, di diritti non ne hanno nessuno.

Per capirlo basterebbe chiedere a un qualsiasi lavoratore precario di scegliere oggi tra un contratto atipico e un contratto a tempo indeterminato “vero”, ma senza clausola di inamovibilità in caso di riorganizzazione aziendale. Sono certo che tutti – come fanno quelli che se ne vanno a lavorare a Londra o a Barcellona in cerca di un contratto senza articolo 18 – sceglierebbero il contratto non inamovibile ma “vero”. Il motivo è che il precariato è intollerabile non solo perché priva i lavoratori della sicurezza economica e del loro futuro ma perché li priva anche della dignità del proprio lavoro. Entrare in ufficio e fare lo stesso lavoro dei propri colleghi essendo però un lavoratore di serie B (col tesserino diverso, senza buoni pasto, con le comunicazioni aziendali che non ti arrivano perché sei un consulente e senza che mai nessuno ti inviti a un corso di formazione o a un evento aziendale perché tanto oggi ci sei e domani chissà) è avvilente. Mina il senso di autorealizzazione che ogni lavoro dovrebbe portare con sé. Fa sentire esclusi, più piccoli. Tocca la stima di sé.

Stefano Fassina, il responsabile economico del PD, dice che per eliminare il precariato basta aumentare il costo dei contratti atipici. È sicuramente vero che un contratto atipico non dovrebbe essere mai essere più conveniente, ma vero è anche che il bisogno di flessibilità di cui necessita il sistema non può essere scaricato integralmente solo su una parte dei lavoratori, quelli più giovani e deboli. Nessuna azienda, nessun imprenditore, può assumersi in questo secolo il rischio di avere il 100 per cento dei propri lavoratori in una posizione di (praticamente) assoluta inamovibilità. Chiunque abbia per un solo giorno fatto il mio lavoro lo sa benissimo. E allora, superata la soglia critica, si assume solo con contratti fasulli cosicché gli ultimi arrivati non contano nulla e si possono licenziare con uno schiocco di dita. Anche in maniera discriminatoria, tanto niente li protegge.

La verità è che l’approccio tradizionale della sinistra, e quello che sta assumendo il PD sotto la guida di Fassina, fa prevalere il concetto della sicurezza formale (teorica e sperata, perché per l’intanto di sicurezze i precari ne hanno zero) a quello della sicurezza sostanziale e dell’opportunità. Radica l’aspirazione all’immobilità invece di consentire a chi entra nel mondo del lavoro di assumersi dei rischi (anche investendo su se stessi) sapendo che la protezione sta nel sistema che si prende cura di te nei momenti di debolezza invece che in un datore di lavoro che è costretto a pagarti perché il sistema non ha nessun’altra alternativa da offrirti in caso di disoccupazione improvvisa, se non la fame.

È un approccio che scoraggia gli investimenti dall’estero perché i costi – non solo economici ma anche organizzativi – di una ristrutturazione spaventano quelle aziende che lavorano su molti paesi e che sono abituate a pianificare sia per i tempi buoni che per quelli cattivi. Quando decidono di investire in Italia, già al primo stadio del progetto, il fatto di non poter prevedere i costi e i tempi di una ristrutturazione e di accantonare eventualmente i relativi fondi blocca il progetto per intero. Nella mia esperienza ho vissuto, verso il 2000, la creazione di un grosso “hub” europeo da un migliaio di posti di lavoro che poi fu creato a Barcellona, e ricordo bene che l’ipotesi di farlo a Milano fu depennata tra le prime proprio per l’incapacità della sede italiana di avanzare alla casa madre delle realistiche ipotesi economico-organizzative in caso di contrazione del business. Il risultato fu che mille spagnoli trovarono lavoro (senza l’articolo 18, e ce l’hanno ancora) e mille milanesi rimasero evidentemente a casa.

Il mio amico al telefono mi ha pure detto: «Ma come, firmi un documento contro il segretario proprio ora che vinciamo?». Ho risposto che mai come questa volta la mia firma non ha nulla a che vedere con la tattica e con gli schieramenti interni, è tutta e solo di contenuto. È che sono fermamente convinto che l’unica strada da battere sia questa. I giovani sono una risorsa troppo importante per ingannarli e promettere loro cose che non potremo loro consegnare realisticamente mai. Facciamo una proposta seria. Restituiamo loro prima di tutto la dignità del lavoro e un contratto degno di questo nome, invece di lasciarli con nulla in mano nell’attesa di un rapporto di lavoro che oggi nessuna economia potrebbe sostenere. Ne va del futuro loro, e di quello del nostro paese.

Ivan Scalfarotto è vicepresidente dell’assemblea nazionale del Partito Democratico.

foto: Roberto Monaldo / LaPresse