In attesa delle scuse dallo Stato, da 56 anni

La storia di Luciano Rapotez, incarcerato per tre anni per un reato che non aveva commesso

Sul Corriere della Sera di oggi, Gian Antonio Stella racconta la storia di Luciano Rapotez, che da 56 anni aspetta le scuse dallo Stato per aver passato tre anni in carcere e aver subito sevizie per un reato che non aveva commesso. Rapotez ora ha 92 anni, ma non si vuole arrendere.

Sono 56 anni che lo Stato è in guerra con Luciano Rapotez. E 56 anni che il vecchio non molla. Ha passato la novantina, è pieno di acciacchi, ma non molla: vuole che qualcuno gli chieda scusa per i tre anni di galera e le sevizie che ha subito. Per ricordare a tutti che l’Italia, come torna a denunciare in questi giorni Amnesty International, non ha ancora riconosciuto (che vergogna!) il reato di tortura. Tutto cominciò a Trieste una sera nel gennaio 1955. Quando Rapotez fu fermato sotto casa da poliziotti assai maneschi che dopo avergli piantato una pistola nelle costole e tentato il trucco della «ley de fuga» («Scappa, mi dicevano, scappa! Ma mi avrebbero abbattuto dopo due passi» ) lo trascinarono in questura accusandolo di un delitto orrendo.

Una lontana rapina avvenuta nel 1946 in una villa sul Carso, dove erano stati assassinati un orefice, la fidanzata e la domestica. Lui negò, disperatamente. Ma in quegli anni di tensione e di odio, era il «colpevole» ideale. Ex partigiano. Comunista. Un cognome che pareva slavo. Doveva assolutamente confessare. E come avrebbero riconosciuto più sentenze, venne massacrato: cinque giorni e quattro notti di pestaggi, senza acqua, senza cibo, senza poter chiudere un occhio perché sbattuto sotto lampade incandescenti. E poi le scariche elettriche ai genitali, i pestaggi, la messa in scena di un finto suicidio. Confessò. «Ero annientato. Avrei ammesso anche d’aver ucciso Giulio Cesare» . Restò in galera quasi tre anni. Finché, finalmente, arrivò il processo. E fu assolto. Insufficienza di prove.

Altri tre anni di calvario, ed ecco, anche grazie a tre testimonianze che lo scagionavano, l’assoluzione piena. Col riconoscimento del «trattamento violento» , delle «sevizie» , delle «confessioni estorte» . Uscì dal carcere e cercò con gli occhi la moglie. Non c’era: «Erano anni durissimi, credeva che io fossi un assassino, doveva tirar su i bambini. Aveva trovato un altro. Oggi la capisco. Allora fu durissima» . Aspettò la conferma della sua innocenza in Cassazione e poi, schifato, emigrò in Germania. E ci restò vent’anni. Durante i quali cominciò a scrivere a tutti: presidenti della Repubblica, capi di governo, ministri della giustizia e degli interni… Voleva quello che oggi viene concesso a tante vittime della cattiva giustizia: un modesto risarcimento e una parola: «Signor Rapotez, scusi» . Risposte? Rare.

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