Referendum, meglio via entrambi

Bersani è uno che parla chiaro, non si nasconde dietro alle parole. Se ne vanta e fa bene, dunque non può derogare.
Se ora richiama l’intero Partito democratico ad allinearsi dietro una sola proposta ufficiale di riforma elettorale, quindi senza disperdersi in campagne referendarie (per di più di segno opposto), si intende che questo suo legittimo e anzi tardivo atto di comando debba valere erga omnes. Altrimenti rischia di non valere affatto, con grave vulnus della sua autorevolezza.

In un momento in cui le cose per il Pd sembravano finalmente andare per il verso giusto, non riusciamo a immaginare prospettiva più devastante di una divaricazione referendaria: neo-proporzionalisti contro neo-maggioritari. Una cosa gravissima – anche se qualcuno potrebbe commentare con la solita banalità «agli italiani non interessa, il sistema elettorale non è roba che si mangia» – perché un partito può dividersi su tanti argomenti, ma non sul tipo di sistema istituzionale nel quale vuole abitare. L’opera di coesione interna condotta da Bersani in questi mesi era riuscita a ridurre le distanze tra chi sogna un ritorno alla repubblica dei partiti e chi non rinuncia alla repubblica degli elettori.

La semplificazione su repubblica dei partiti e repubblica degli elettori allude a chi, in base al sistema elettorale, detenga il potere di scelta su coalizioni e premiership. Apparirà brutale e contestabile come descrizione, ma questa è la sostanza della differenza. La mossa per il referendum neo-proporzionalista che ha rimesso in discussione l’accordo raggiunto è stata pensata e organizzata all’interno del Pd. Ha trovato interlocutori disponibili all’esterno, ma Bersani non può accreditare la versione del promotore Passigli, secondo cui si trattarebbe solo di una virtuosa iniziativa della società civile, mentre la contro-mossa di Bindi, Parisi, Castagnetti, Veltroni, Gentiloni, Fioroni, Gozi e tanti altri sarebbe inficiata dal suo esser stata partorita direttamente dal cuore del Pd.
Ieri, opportunamente, Enrico Letta ha chiesto a Passigli di rinunciare all’iniziativa.

Solo su questa base, il Pd nel suo insieme potrà tornare a riproporre il proprio schema, che è un sistema maggioritario a doppio turno con prevalenza di collegi uninominali e diritto di tribuna: formula spendibile con l’opinione pubblica, anche se di improbabile successo nell’attuale parlamento. Il Pd eviterebbe il peggio (i due referendum) anche se non otterrebbe il risultato davvero importante, cioè di far fuori il Porcellum prima del 2013.

Qui c’è un problema. Bersani sa che i democratici non possono rischiare, neanche per fraintendimenti non voluti, di passare per i conservatori del sistema politico e istituzionale esistente. Per gli italiani questo è un sistema frollo, ormai insostenibile. Allora non si possono fare mosse sbagliate. Come evocare tagli dei costi della politica e poi farli svanire (l’errore capitale di Tremonti). O come enfatizzare il ruolo del parlamento contro leggi vergognose, quando tutti per esempio sanno che in quello attuale il Porcellum non morirà mai. O come, infine, rinviare alle famose mitologiche “riforme complessive” gesti magari anche solo simbolici di semplificazione che invece suonano urgenti: l’abolizione delle province è fra questi.

Martedì scorso alla camera nel voto sulla mozione Idv (con quella posizione dell’Udc, e in presenza di tanti dissidenti del Pdl) è stato commesso un errore, anche se comprensibile e rimediabile. L’unico aspetto positivo di quel voto sulle province è stato il rispetto della disciplina di partito da parte dei molti che non condividevano la decisione presa. Bersani può rivendicare a proprio merito questa compattezza: è anche frutto del suo lavoro. Così però aumenta anche la sua responsabilità, nel compiere scelte che siano chiare, eque, e che soprattutto siano le scelte giuste.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.