Mellitah, dove sono stati rapiti i 4 italiani

Mellitah è un luogo dove gli interessi italiani in Libia si incrociano con l’anarchia che regna nel paese. Da qui lunedì 20 luglio sono stati rapiti quattro tecnici italiani e sempre da qui parte il gasdotto Greenstream che dopo aver percorso cinquecento chilometri sul fondo del Mediterraneo arriva a Gela, in Sicilia. A ottanta chilometri da Mellitah c’è Tripoli, dove ha sede il governo degli islamisti che controlla la parte occidentale del paese. Poco lontano c’è Zintan, un’enclave da dove il governo rivale di Tobruk lancia i suoi attacchi contro gli islamisti. Intorno all’impianto, come in gran parte della Libia, imperversano bande armate che obbediscono soltanto ai loro leader ed è probabile che proprio una di queste abbia rapito i quattro tecnici. La Libia non si trova ancora in una situazione disperata come la Siria o l’Iraq, ma è oramai divenuta uno stato fallito dove sono le bande armate a imporre la legge: milizie tuareg nel sud del paese, gruppi armati tribali nelle aree costiere e formazioni affiliate ad al Qaida nelle grandi città. E poi c’è l’ISIS.

Mappa realizzata da Gino Selva (@ginoselva)

Mappa realizzata da Gino Selva (@ginoselva)

La Libia è l’unico stato al di fuori di Siria ed Iraq dove l’ISIS controlla un territorio di una qualche estensione, ma nonostante questo l’organizzazione fondamentalista è soltanto uno dei molti gruppi che si contendono il paese e non è nemmeno il più forte. Lo scorso giugno l’ISIS libica è stata espulsa da Derna, la prima città dove si era stabilita (qui avevo raccontato la storia della città e della nascita dell’ISIS in Libia). Derna è una delle principali fucine di jihadisti di tutto il Mediterraneo e da qui per quasi trent’anni centinaia di estremisti sono partiti per combattere in Afghanistan, in Siria ed in Iraq. Una anno fa, nell’estate del 2014, alcuni di questi combattenti tornati dalla Siria dichiararono la loro fedeltà all’ISIS, mentre altri sono rimasti alleati di al Qaida. È stato proprio uno di questi ultimi gruppi ad espellere l’ISIS da Derna dopo una settimana di combattimenti.

Un miliziano di al Qaida rimuove la bandiera dell’ISIS da un edificio di Derna
Derna

La situazione è precipitata il 10 giugno, quando l’ISIS ha ucciso due comandanti di una milizia locale fedele ad al Qaida scatenando una durissima rappresaglia. Il leader dell’ISIS locale – un iracheno – è stato catturato, costretto ad attraversare la città a piedi tra gli insulti della gente e quindi impiccato. I miliziani dell’ISIS sopravvissuti sono stati obbligati fuggire o nascondersi. La “battaglia” di Derna non ha raggiunto la scala epica e sanguinosa dell’assedio di Aleppo in Siria o delle numerose battaglie per Falluja, in Iraq. La Libia è ancora in una fase in cui le milizie locali sono più simili a bande di criminali che a veri e propri eserciti in miniatura. Questi gruppi controllano quartieri, a volte singoli edifici, si alleano e si scontrano gli uni con gli altri mentre cercano di conquistare il favore della popolazione erogando servizi e amministrando la giustizia (e a volte organizzando feste di quartiere, con musica e DJ).

Ma le cose stanno peggiorando. Fino a poco tempo fa a Sirte, una città nella parte occidentale del paese, la situazione era in qualche modo simile a quella di Derna. La città era divisa tra l’ISIS e una milizia fedele al governo di Tripoli e tra le due parti vigeva una tregua precaria interrotta da sporadici incidenti. Ma a metà dello scorso giugno, poco dopo la battaglia di Derna, gli uomini di Tripoli sono stati ritirati e l’ISIS ha potuto occupare completamente la città. Da Sirte, sfruttando la debolezza del governo occidentale impegnato a scontrarsi con quello di Tobruk, gli uomini dell’ISIS sono riusciti a occupare altri villaggi vicino alla città e oggi controllano un fascia di costa lunga quasi cento chilometri.

Un video girato dalla polizia religiosa dell’ISIS a Sirte

Il successo di Sirte spiega bene i punti di forza e le debolezze dell’ISIS in Libia. Sirte è la città natale di Ghedaffi e il teatro della sua ultima disperata resistenza. È una città che ha avuto molto da guadagnare durante la dittatura e che ha perso molto dopo la rivoluzione, sia a causa dei danni causati dalla guerra che per l’ostilità del nuovo governo nei confronti di una città ritenuta il bastione dei fedelissimi del colonnello. Come a Falluja, dove l’ISIS ha potuto contare sull’aiuto degli ex membri del regime di Saddam Hussein, a Sirte l’ISIS si è potuta appoggiare sui fedelissimi di Gheddafi, rimasti insoddisfatti dall’attuale situazione libica. Uno dei leader locali, Hussain Karameh, è il nipote di un ex membro dell’intelligence di Gheddafi attualmente detenuto a Misurata.

Ma dove l’ISIS ha trovato rivali agguerriti e una popolazione ostile non è riuscita a stabilire una forza importante o addirittura è stata scacciata. Una delle ragioni è che l’ISIS libica non dispone del petrolio e della possibilità di imporre tasse su un ampio territorio come in Siria ed Iraq. Un’altra ragione è che la Libia è religiosamente omogenea e quasi tutti suoi abitanti sono sunniti: non ci sono quelle linee di frattura etnico-religiose che attraversano l’Iraq e che stanno trasformando la Siria in una penisola balcanica dove ogni piccola comunità cerca di difendersi da sola. Ma non è detto che queste condizioni durino per sempre. Entro la fine dell’anno i governi di Tobruk e Tripoli rischiano di dover dichiarare bancarotta e a quel punto non saranno più in grado di erogare i servizi di base e di pagare gli stipendi pubblici. È la situazione ideale perché milizie come l’ISIS si propongano alla popolazione come alternativa allo stato, utilizzando magari le risorse ottenute grazie a qualche pozzo di petrolio sottratto al governo.

L’Italia ha ogni interesse nell’evitare che questo accada. Una Libia stabile e prospera significa un partner con cui fare accordi energetici, un luogo dove investire risorse e un alleato nella lotta al traffico di esseri umani. Proteggere la pace in Libia è probabilmente uno degli obbiettivi più importanti della nostra politica estera, ma fino ad ora i governi italiani non sono riusciti a raggiungerlo. Da quando nel 2011 il regime di Gheddafi è caduto, l’Italia e il resto dell’occidente sono rimasti per quattro anni immobili a guardare il paese sprofondare lentamente nel caos. Quella discesa non si è ancora arrestata e probabilmente ci vorranno meno di altri quattro anni per trovarsi con una piccola Siria a soltanto cinquecento chilometri dalle nostre coste.

Questo è il quarto “dispaccio” di una serie settimanale con cui cercherò di raccontare le guerre che stanno attraversando il mondo musulmano. Qui ho raccontato il progetto. Qui potete trovare gli altri dispacci.

Alla scrittura di questo articolo ha collaborato Andrea Lazzaroni

Davide De Luca

Giornalista. Ho scritto per l’Arena di Verona e per l’Agence Europe di Bruxelles. Ho collaborato ad alcuni libri d’inchiesta su CL e la finanza cattolica. Mi piacciono i numeri e l’economia e cerco di spiegarli in modo semplice. Su Twitter sono @DM_Deluca