Alla fine Roberto Fico è riuscito a diventare presidente della Campania

Il leader dell'ala sinistra del M5S ci provava da tempo, ma per farlo ha dovuto rinnegare un po' se stesso

Roberto Fico durante l'assemblea costituente del Movimento 5 stelle, a Roma, il 24 Novembre 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)
Roberto Fico durante l'assemblea costituente del Movimento 5 stelle, a Roma, il 24 Novembre 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)
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Per Roberto Fico l’elezione a presidente della Campania è un po’ la chiusura di un cerchio: è il ritorno dove aveva cominciato a fare politica, e con la vittoria che desiderava da sempre. «Se tornerò, e sottolineo se, sarà solo per la mia terra», aveva detto all’inizio del 2023, quando la sua seconda legislatura da deputato del Movimento 5 Stelle, e il suo mandato da presidente della Camera, s’erano da poco conclusi. Così è stato.

In realtà ci aveva provato più volte, ma per un motivo o per l’altro gli era sempre andata male. Nel 2010, candidato presidente alle regionali, racimolò meno di 37mila voti: l’1,33 per cento; l’anno dopo ci provò alle comunali, a Napoli, e fu un altro mezzo disastro: l’1,77 per cento.

Ma erano gli inizi del Movimento 5 Stelle, che era nato solo nel 2009 ed era ancora poco conosciuto. Già allora però Fico era un veterano di quel partito. Nel 2005, quando ancora non c’era il Movimento, aprì un Meet-up, «uno di quei gruppi di quasi-carbonari», come disse una volta lui stesso, ricordando quegli esordi. Lo fondò in un pub a Mergellina, a Napoli, dov’era nato nel 1974 – nato e cresciuto nel signorile quartiere di Posillipo – e dove aveva condotto le sue prime iniziative in favore dell’acqua pubblica nei movimenti ambientalisti.

Ora, a 51 anni, dopo essere stato uno dei leader del Movimento 5 Stelle, dopo aver ricoperto la terza carica dello Stato, dopo essere stato incaricato per due volte di valutare la possibilità di far nascere un governo, è riuscito a realizzare uno dei suoi obiettivi più ambiti. Per riuscirci però ha dovuto un po’ contraddire la sua indole e rinnegare alcune sue convinzioni. Da punto di riferimento della cosiddetta ala “ortodossa” del M5S, quella più intransigente e più refrattaria agli accordi con altri partiti, ha finito per dover accettare un’intesa con uno degli esponenti del PD con cui il Movimento ha avuto il rapporto più tribolato, e cioè Vincenzo De Luca. In questa contraddizione c’è buona parte della parabola di Fico degli ultimi anni, e forse dell’intero M5s.

Roberto Fico e Luigi Di Maio, alla Camera, durante un seminario organizzato dal M5S, nell’aprile del 2019 (Vincenzo Livieri/LaPresse)

Quando i membri del Movimento 5 Stelle arrivarono in parlamento, nel 2013, apparvero subito – almeno agli osservatori tradizionali – come dei neofiti un po’ curiosi: diffidenti, sempre scorbutici coi giornalisti, a volte un po’ esaltati, si facevano vanto di non voler collaborare con altri partiti. Pur in questa indeterminatezza, si capì subito che c’erano due figure che emergevano sopra le altre, anche se formalmente il Movimento predicava l’orizzontalità più esasperata del motto «uno vale uno»: uno era Luigi Di Maio, l’altro Roberto Fico.

Non a caso, furono gli unici a ottenere incarichi istituzionali duraturi: Di Maio vicepresidente della Camera, Fico divenne invece presidente della Commissione bicamerale di vigilanza della Rai. Se tutti gli altri deputati e senatori grillini erano costretti a ruotare i loro incarichi ogni 3 o 6 mesi, Di Maio e Fico furono invece gli unici a restare in carica per 5 anni, e questo contribuì ancor più a garantire loro visibilità e prestigio.

Fu chiaro subito, peraltro, che i due erano rappresentanti di due fazioni molto diverse di un partito ideologicamente piuttosto eterogeneo, che si dichiarava «né di destra né di sinistra». In effetti Di Maio era il punto di riferimento della componente di destra, e Fico il più importante degli esponenti di quella di sinistra. La cosa generò subito grosse tensioni, nel partito: inizialmente restarono sotto traccia, poi divennero sempre più conclamate. E vennero fuori quando Fico si mostrò risolutamente ostile alla nomina di Di Maio come candidato premier e leader di fatto del M5S, nell’ottobre del 2017, durante una convention a Rimini: secondo Fico quella scelta tradiva l’idea iniziale di un movimento senza capi; soprattutto però sanciva la vittoria della fazione di Di Maio nel partito.

Pochi mesi dopo, dopo un grande successo elettorale del M5S, Fico fu indicato dallo stesso Di Maio come candidato presidente della Camera, e venne poi eletto (mentre Maria Elisabetta Casellati, di Forza Italia, fu eletta presidente del Senato).

Per Di Maio, del resto, quello fu anche un modo per neutralizzare il suo rivale interno, promuovendolo a un ruolo di assoluto prestigio istituzionale ma di limitata capacità di azione politica. In realtà, poche settimane dopo a Fico fu affidato un compito di grande delicatezza: Sergio Mattarella gli conferì un “mandato esplorativo”, quello cioè per verificare se ci fossero le condizioni per far nascere un governo di centrosinistra tra PD e M5S. Il tentativo si risolse in nulla, anche per l’opposizione dello stesso Di Maio e soprattutto di Matteo Renzi, allora segretario del PD.

Il suo mandato da presidente fu inizialmente oggetto di grosse critiche: per la sua scelta propagandistica di andare al Quirinale a piedi, in nome di una sorta di morigeratezza pauperistica cara al Movimento 5 Stelle, ma accompagnato ovviamente dagli agenti della scorta; per l’inconsistenza del suo curriculum, biasimata da chi ironizzava sulle sue occupazioni giovanili (come operatore di un call center, o come venditore di tappeti importati dal Marocco) talvolta con un po’ di classismo; per il suo eloquio che di tanto in tanto appariva un poco stentato. Seppe però col tempo acquisire una certa autorevolezza nella gestione dell’aula, costruendo peraltro un buon rapporto di fiducia col capo dello Stato e coi suoi consiglieri.

Nel marzo del 2021 la tentazione di diventare sindaco di Napoli lo colse di nuovo. L’ipotesi di una sua candidatura si fece concreta, e fu particolarmente caldeggiata anche dal segretario cittadino del PD, Marco Sarracino, esponente dell’ala sinistra del partito che, anche attraverso il consolidamento dell’alleanza col M5S, cercava di scalfire l’egemonia di De Luca sul PD campano. Non se ne fece niente, alla fine, anche perché l’idea di abbandonare la terza carica dello Stato per andare a fare il sindaco di una città non era gradita neppure alla presidenza della Repubblica.

Rimase notevole però il coerente impegno di Fico per rafforzare il centrosinistra, sforzandosi in ogni modo per posizionare stabilmente il M5S nel campo progressista. Non a caso fu di nuovo a lui che, sempre nel 2021, durante la crisi del secondo governo di Giuseppe Conte che avrebbe poi portato alla formazione del governo di Mario Draghi, Mattarella conferì l’incarico di valutare la possibilità di riproporre una maggioranza di centrosinistra. Ma l’impegno è proseguito anche in tempi più recenti.

Da quando ha dismesso ogni incarico istituzionale, infatti, Fico si è adoperato per propiziare la nascita del cosiddetto “campo largo” (spesso restando anche molto in disparte): non a caso fu proprio lui, insieme all’amico Sarracino e a Elisabetta Piccolotti di Alleanza Verdi e Sinistra, a partecipare all’incontro iniziale per far nascere “Un patto avanti”, una sorta di comitato elettorale per le elezioni a Perugia e in Umbria, entrambe vittoriose per il centrosinistra unitario. Fico è insomma stato il punto di riferimento nel M5S per tutti quelli che lavoravano per il rafforzamento dell’alleanza di centrosinistra.

Il governatore della Campania Vincenzo De Luca negli studi di La7, l’8 settembre 2025 (Roberto Monaldo/LaPresse)

È così che è maturata anche la sua candidatura per le regionali: una candidatura di cui si parlava già da un anno, ma che ha richiesto lunghe e complicate trattative soprattutto con De Luca, il presidente uscente che ha goduto in questi anni di enormi consensi locali ma che ha generato grosse polemiche dentro al partito e alla coalizione. Sia Fico sia De Luca, anche grazie alla mediazione di Conte e di Elly Schlein, hanno dovuto mettere da parte acredini personali e rinnegare vecchie prese di posizione dell’uno contro l’altro.

De Luca alla fine si è fatto da parte ma ottenendo l’elezione del figlio, il deputato Piero, a segretario regionale del PD e una probabilissima candidatura a sindaco di Salerno per sé stesso; Fico, nell’accettare l’accordo con quello che era stato per anni uno dei suoi più schietti rivali, ha reso evidente l’evoluzione politica del M5S, proprio lui che del M5S rappresentava l’ala più intransigente e purista.