L’improbabile svolta politica di Marjorie Taylor Greene
La più fedele, rumorosa ed estrema sostenitrice di Donald Trump al Congresso ora lo critica molto, e lui si è stufato

Da quando è stata eletta la prima volta alla Camera degli Stati Uniti, nel 2020, Marjorie Taylor Greene è sempre stata una delle più estreme, rumorose e convinte sostenitrici di Donald Trump. È una rappresentante della componente MAGA del Partito Repubblicano, quella più radicale e diventata maggioritaria (MAGA è l’acronimo dello slogan di Trump “Make America Great Again”). Ma negli ultimi mesi, mentre anche i Repubblicani più moderati si sono allineati al presidente per non essere estromessi, Taylor Greene è diventata via via più critica con lui.
La scorsa settimana c’è stato uno scontro plateale fra Trump e Taylor Greene: lui l’ha definita una «pazza furiosa» e una «traditrice», promettendo di sostenere altri candidati Repubblicani quando ci saranno le elezioni nel suo collegio elettorale, in Georgia. Lei ha detto di temere per la sua vita dopo che il presidente ha «infiammato i suoi troll di internet» contro di lei.
I disaccordi vanno avanti da tempo e riguardano molti temi. Negli ultimi mesi Taylor Greene ha criticato il sostegno militare dato dagli Stati Uniti a Israele, definendo la guerra nella Striscia di Gaza «un genocidio»; si è opposta all’intervento statunitense in Iran della scorsa estate e alla vendita di armi all’Ucraina, dicendo che gli statunitensi avevano votato Trump «per finirla con le guerre all’estero»; ha detto che vorrebbe l’aereo presidenziale «parcheggiato» e non sempre in giro per il mondo; e ha sostenuto che il governo stia facendo «gaslighting sui prezzi» quando dice che non sono cresciuti «nonostante la gente si accorga del contrario».
Più di recente la distanza tra i due è diventata evidente sul caso di Jeffrey Epstein, il noto finanziere accusato per aver sfruttato sessualmente decine di ragazze minorenni e già condannato per reati sessuali. Taylor Greene da tempo chiede che i documenti delle indagini siano resi pubblici, anche firmando le petizioni dei Democratici, e accusa l’amministrazione Trump di cercare di nasconderli.

Una conferenza stampa sulla questione dei documenti del caso Jeffrey Epstein, nel settembre del 2025 (AP Photo/Rod Lamkey, Jr.)
In un certo senso Taylor Greene è sembrata volersi mostrare più MAGA dello stesso inventore dei MAGA, superando Trump a destra nella difesa del principio “America First”, cioè l’idea che gli Stati Uniti debbano pensare alle proprie questioni interne e disinteressarsi delle crisi internazionali. Sul caso Epstein si è fatta portavoce di una componente importante della destra statunitense, attiva soprattutto online, che critica il modo in cui Trump sta gestendo i cosiddetti “Epstein Files”, finiti al centro di varie teorie complottiste.
Come spesso avviene in situazioni simili, Trump non ha preso bene le critiche e ha cominciato a minacciare e attaccare verbalmente Taylor Greene. È presto per dire se sia una rottura definitiva, o un litigio destinato a rientrare, ma il caso è notevole soprattutto perché lei aveva basato gran parte della sua personalità pubblica e politica proprio sulla fedeltà a Trump e al movimento MAGA.

Marjorie Taylor Greene saluta Donald Trump dopo una seduta congiunta del Congresso per un discorso del presidente, il 4 marzo 2025 (AP Photo/Alex Brandon)
Taylor Greene ha 51 anni. Si è avvicinata alla politica nel 2016, collaborando con siti e canali social riconducibili al movimento QAnon, che promuove teorie complottiste di estrema destra senza alcun fondamento. Si candidò per la prima volta nel 2020 alle primarie Repubblicane per un seggio alla Camera: vinse, e Trump si congratulò definendola una «futura stella Repubblicana».
Dopo l’elezione, piuttosto scontata in un distretto tradizionalmente conservatore, i media statunitensi e internazionali ripescarono tutta una serie di articoli e post sui suoi social apertamente razzisti, islamofobi, antisemiti e complottisti: tra le altre cose aveva espresso dubbi sulla veridicità degli attacchi dell’11 settembre 2001 e di alcune sparatorie di massa nelle scuole. Si rimangiò i più indifendibili, ma continuò a mostrarsi apertamente estremista anche al Congresso: nel 2021 paragonò le politiche per il controllo della diffusione del Covid e l’uso delle mascherine alle «stelle gialle con cui venivano marchiati gli ebrei» durante il nazismo. Ha difeso con veemenza posizioni antiabortiste, a favore delle armi e contro l’immigrazione.
È stata anche una delle più convinte sostenitrici della teoria infondata secondo cui Trump avrebbe vinto le elezioni presidenziali del 2020, ed ebbe un ruolo attivo negli attacchi al Congresso del 6 gennaio 2021. Durante il mandato di Biden (2021-2025) fece parte della componente più radicale del partito e difese ogni decisione di Trump, accusando altri colleghi di non essere abbastanza fedeli o “abbastanza Repubblicani”.

La mascherina con la scritta “Ha vinto Trump” con cui si è presentata il primo giorno alla Camera il 3 gennaio 2021 (Erin Scott/Pool via AP)
Anche per questo il suo recente riposizionamento è risultato ancora più evidente. Nel post su Truth in cui la indicava come una «schizzata» e una «disgrazia per il partito», Trump ha scritto che «tutto quello che fa è LAMENTARSI, LAMENTARSI, LAMENTARSI», con il solito uso della maiuscole.
Taylor Greene prima ha detto di aver speso «troppo tempo e troppi soldi» a combattere per Trump: «Ma io non venero né servo Trump». Pochi giorni dopo è sembrata fare almeno parzialmente marcia indietro: il 16 novembre in un’intervista a CNN ha detto di sostenere lui e la sua amministrazione, e di essersi pentita per aver contribuito a una politica di «attacchi e incitamenti all’odio». Nell’intervista ha detto che ora che lei è diventata oggetto di attacchi, si è resa conto che invece gli Stati Uniti avrebbero bisogno di maggiore unità e di un clima più disteso.
La deputata potrebbe quindi tornare su posizioni di minore contrapposizione, ma parte dei media statunitensi ha individuato nello scontro con Trump un primo tentativo degli esponenti molto radicali della destra statunitense di posizionarsi in vista di un futuro in cui non sia più lui a guidare il partito, anche considerando gli attuali livelli molto bassi di gradimento del presidente.



