Il giorno degli scrittori morti
Il 2 novembre accomuna Roberto Bolaño, Malcolm Lowry e Pier Paolo Pasolini, ucciso cinquant'anni fa

È risaputo che autrici e autori del passato continuano a parlarci attraverso le loro opere; e che se queste sono davvero assurte allo status di classico continuano a parlarci attraverso anni, decenni, secoli. Non solo: possono dare risposte anche a interrogativi contemporanei, che alla loro epoca non erano nemmeno sorti.
Per un editore come me, l’altro innegabile vantaggio dei classici è che non possono partecipare alle presentazioni dei loro libri e quindi, dopo, non bisogna offrigli la cena.
A volte, i morti, e gli scrittori morti, sembrano addirittura dialogare. Fino a questo momento, l’idea di una conversazione fra morti mi aveva sempre riportato alla mente il famoso poemetto di Totò ’A livella, con il suo indimenticabile incipit («Ogn’anno, il due novembre, c’è l’usanza / per i defunti andare al cimitero, / ognuno ll’adda fa’ chesta crianza, / ognuno adda tené chistu penziero»), lo spassoso dialogo filosofico tra un nobile altezzoso e uno straccione – ormai equiparati, “livellati” appunto, dalla condizione di essere entrambi defunti – e l’ancor più memorabile finale che in italiano suonerebbe pressappoco così: «Queste pagliacciate lasciamole fare ai vivi, noi siamo seri, apparteniamo alla morte!»
Ecco invece quello che mi è successo nelle ultime settimane: alcuni scrittori del passato, forse per vendicarsi del fatto che non voglio offrirgli la cena, sono tornati per dialogare fra loro, usando me (e la mia ossessione per numeri, date, coincidenze) come semplice medium.
Le prime parole del romanzo di Roberto Bolaño I detective selvaggi, infatti, compongono una data, «2 novembre»: il giorno dei morti. È il giorno in cui inizia il diario di Juan García Madero, che occupa la prima parte del romanzo, intitolata «Messicani perduti in Messico». Anche la terza parte («I deserti del Sonora») è un diario di García Madero; mentre la seconda, nella forma della apparente trascrizione di una serie di una cinquantina di interviste, è quella che dà il titolo all’opera.
I detective selvaggi, uno dei libri degli ultimi trent’anni (è stato pubblicato nel 1998) cui più si addice la definizione di “libro di culto”, è incentrato sul movimento realvisceralista o del realismo viscerale, un nome fittizio a cui si può facilmente far risalire un movimento poetico davvero esistito, l’infrarealismo. Al cuore di questo lungo romanzo c’è l’insopprimibile passione per la poesia. Una poesia vissuta con pienezza di emozioni, e con un senso di comunione che si ispira in parte a quella della beat generation statunitense.
Ma le prime vere parole dei Detective selvaggi sono quelle dell’epigrafe, tratta dal romanzo di Malcolm Lowry Sotto il vulcano, che racconta l’odissea messicana del suo protagonista, il console britannico Geoffrey Firmin. Come nell’Ulisse di Joyce o, per restare in Italia, i Tre romanzi di una giornata di Raffaele La Capria, la vicenda narrata da Lowry si svolge tutta in un unico giorno, in questo caso il 2 novembre 1938: il giorno dei morti, di nuovo. In maniera differente rispetto ai dettami della nostra cultura che impongono alla loro commemorazione un senso di tristezza e di raccoglimento introspettivo, in Messico il Día de Muertos è una vera e propria festa che, nel momento in cui si ricordano i defunti, ha l’obiettivo di celebrare la vita.
Ecco come riassume il senso della festività del Día de Muertos lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano, nel suo libro I figli dei giorni:
«In Messico, i vivi invitano i morti, ogni anno nella notte di oggi, e i morti mangiano e bevono e ballano e si fanno aggiornare sui pettegolezzi del giorno e le novità del vicinato».
A parte la momentanea incursione di Galeano, la conversazione fra Bolaño e Lowry a un certo punto deve allargarsi a un altro autore, stavolta italiano.
Infatti l’opera di Bolaño non prende le mosse da un 2 novembre qualsiasi: si tratta del 2 novembre del 1975. Il giorno in cui muore Pier Paolo Pasolini.
Non ho motivo di credere che Bolaño, iniziando con quella data il suo opus magnum, che è un grande atto d’amore (in forma narrativa) per la poesia e per chi la scrive, volesse rendere omaggio a Pasolini: PPP infatti nel libro viene citato una sola volta, nel capitolo in cui si delinea la singolare teoria di Ernesto San Epifanio (personaggio di finzione che corrisponderebbe al poeta Darío Galicia), secondo cui esiste una letteratura eterosessuale, una omosessuale e una bisessuale.
«I romanzi, in genere, erano eterosessuali, la poesia, invece, era assolutamente omosessuale, i racconti, deduco, erano bisessuali, anche se questo non l’ha detto. Nell’immenso oceano della poesia, distingueva varie correnti: frocioni, froci, frocetti, checche, culi, finocchi, efebi e narcisi. Le due correnti maggiori, tuttavia, erano quelle dei frocioni e dei froci». (traduzione di Ilide Carmignani)
Segue un’elencazione e suddivisione per categorie dove Whitman e Blake stanno tra i frocioni e Neruda, Alberti e Paz tra i froci. «Il fatto è», dice più avanti, «che un poeta frocione come Leopardi, per esempio, ricrea in qualche modo froci come Ungaretti, Montale e Quasimodo, il trio della morte». (E così, grazie a questa definizione di «trio della morte» possiamo immaginare la partecipazione anche di altri tre poeti italiani a questo festino letterario del Día de Muertos).
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Ecco, dunque, l’unica apparizione del poeta di Casarsa nel libro: «Nello stesso modo, Pasolini rivernicia il frociume italiano», e ci sembra che, con un pennello in mano, sia pronto a schiarirsi la voce per poter essere udito dalle generazioni future.
Ed ecco aggiungersi un altro partecipante alla nostra «ballata degli scheletri». È nota, perché molto citata, la frase tratta dal discorso funebre di Alberto Moravia che con una voce incrinata dall’emozione ricorda l’amico Pier Paolo:
«Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta».
Di poeti ne nascono pochi in un secolo, eppure nei Detective selvaggi ne incontriamo decine, se non centinaia, nelle poche settimane del suo arco narrativo, nella sola Città del Messico; potremmo dire nella sola avenida Bucareli, o addirittura fra i soli avventori del bar Quito. Sarà il tempo a dire quali di tutte queste voci risuoneranno ancora oggi, cinquant’anni dopo le vicende narrate da Bolaño. Ma d’altro canto Arturo Belano e Ulises Lima, i poeti protagonisti del romanzo, hanno ben chiaro qual è il nome della poesia messicana che conta, la voce poetica di cui «ne nascono poche dentro un secolo»: Cesárea Tinajero, la cui scomparsa e relativa ricerca sono il filo rosso dell’opera. Anche questa ricerca sembra avvalorare la tesi di voci letterarie che ci parlano dall’oltretomba: Concha Urquiza (1910-1945), la scrittrice a cui è ispirato il personaggio di Cesárea, sulle cui tracce si sono messi Lima e Belano, all’epoca della vicenda narrata nei Detective selvaggi è già morta da trent’anni.
Bolaño le regala dunque una vita più lunga: nel suo romanzo muore di morte violenta la notte del 1° febbraio 1976. L’indomani mattina, 2 febbraio, fuori del romanzo e dentro la vita reale, inizia a Roma il processo a Pino Pelosi per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini.
Il romanzo di Bolaño si conclude il 15 febbraio 1976. L’indomani mattina, mentre è in corso il processo per l’omicidio di Pasolini, scompare Antonio Pinna, fortemente indiziato di essere tra i veri assassini del poeta.
Trovo interessante un’ulteriore coincidenza che ho voluto approfondire, e che ravviva la conversazione in corso.
Centrale, se non altro cronologicamente, nella produzione cinematografica di Pasolini, Teorema (del 1968, separato di sette anni sia dall’esordio con Accattone sia dal postumo Salò o le 120 giornate di Sodoma) si chiude con le immagini di un vulcano. La sequenza finale non porta con sé solo l’ulteriore coincidenza di avere come colonna sonora il Requiem di Mozart (il requiem, così chiamato dall’incipit «requiem aeternam dona eis, Domine» ossia «eterno riposo dona loro, Signore» è una messa celebrata in onore dei defunti nella ricorrenza del 2 novembre). C’è di più: la scena rappresenta un uomo nudo che incede disperato su una solfatara fumosa: sembra cioè richiamare proprio la chiusura del romanzo di Lowry, in cui negli ultimi istanti della sua vita Firmin immagina, in preda al delirio della morte e dell’alcolismo, di essere sulla sommità di un cratere, enumerando alcuni dei più imponenti vulcani del Messico:
«il Pico de Otizabe, il Malinche, il Cofre de Perote, come tutte le montagne della sua vita, conquistate una dopo l’altra prima che la sua grande impresa venisse portata a termine con successo, sebbene in modo poco convenzionale. Ma lì non c’era niente: niente cime, niente vita, niente scalata. E neppure questa vetta era esattamente una vetta: non aveva sostanza, non aveva una base solida. Anzi, si stava sgretolando, qualsiasi cosa fosse, stava crollando, e lui stava cadendo, precipitando dentro il vulcano, alla fine era riuscito a scalarlo, anche se ora c’era questo suono di lava crepitante nelle orecchie, orribile, c’era un’eruzione, o forse no, non era il vulcano, era tutto il mondo che stava esplodendo…». (traduzione di Marco Rossari)
Il che chiude il cerchio aperto nei Detective selvaggi con la citazione da Sotto il vulcano e la data della morte di Pasolini. Ma non è finita qui, perché nelle primissime pagine del romanzo di Bolaño, a sua volta, Juan García Madero appunta nel diario la descrizione del dipinto che María Font, uno dei personaggi femminili principali, sta ultimando: «un acquerello in cui si vedevano due donne con le mani allacciate, ai piedi di un vulcano, circondate da rivoli di lava». Un centinaio di pagine più avanti, la stessa María indossa «una camicia da notte rossa che all’inizio avevo preso per un vestito, con un ricamo bianco sul petto che raffigurava un vulcano, un fiume di lava e un villaggio sul punto di essere distrutto».
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La conversazione continua: Bolaño, Pasolini e Lowry sono morti tutti intorno ai cinquant’anni, lasciandoci alcune opere pianificate ma non terminate (rispettivamente, usciranno postumi: 2666, Petrolio, Hear Us O Lord from Heaven Thy Dwelling Place) e chissà quante nemmeno iniziate e che avrebbero potuto scrivere se avessero vissuto più a lungo. Bolaño morì due mesi dopo aver compiuto cinquant’anni, mentre era in attesa di un trapianto di fegato; Lowry, che il suo fegato aveva messo a dura prova, morì a quarantotto anni, per aver ingerito troppi barbiturici e troppo alcol; Pasolini, che invece morì per «lo scoppio del cuore» (così l’autopsia), all’epoca dell’omicidio all’Idroscalo di Ostia ne aveva cinquantatré.
Da ultimo, quasi a voler sancire l’appartenenza a tre generazioni diverse, è notevole che siano trascorsi diciotto anni (il tempo di una generazione appunto) tra la morte di Lowry (1957) e quella di Pasolini (1975), esattamente quanti ne sono passati tra questa e la morte di Bolaño (2003).
Altri sincronismi: il primo tentativo letterario di Pasolini (Pagine involontarie) è del 1947, l’anno di pubblicazione del capolavoro di Lowry. Ed è proprio nell’anno di uscita di Teorema che Roberto Bolaño imprime una svolta decisiva alla propria vita trasferendosi con la sua famiglia dal Cile a Città del Messico, che sarà la sua patria letteraria oltre che l’ambientazione dei Detective selvaggi.
Un montage cinematografico che volesse mettere in relazione le due vicende vedrebbe alternarsi immagini girate nell’arco di poche settimane del ’68: Teorema viene proiettato alla Mostra del cinema di Venezia mentre immaginiamo la famiglia Bolaño prendere possesso del nuovo appartamento; il 13 settembre, mentre la Procura della Repubblica di Roma sequestra il film per oscenità, a Città del Messico 250.000 persone con la bocca simbolicamente cucita danno vita alla «Marcha del silencio»; il 18 settembre diecimila soldati, con tanto di camionette e carrarmati, occupano l’UNAM, Università Nazionale Autonoma del Messico, vicenda attorno a cui ruota il capitolo più toccante e più riuscito dei Detective selvaggi (verrà infatti espanso da Bolaño l’anno successivo in un romanzo a sé stante, Amuleto) che ha per protagonista Auxilio Lacouture, «la madre della poesia messicana», scampata fortunosamente al pestaggio degli studenti universitari perché chiusa nel bagno al quarto piano della facoltà di Lettere e Filosofia a leggere un libro di poesie; il 2 ottobre avviene il massacro di Tlatelolco, una della pagine più tragiche della storia contemporanea latinoamericana; il 14 ottobre, due giorni dopo l’inaugurazione delle Olimpiadi messicane ironicamente battezzate «i giochi olimpici della pace» – svoltesi in realtà in un clima di tensione e di terrore –, il film di Pasolini è messo al bando; il 22 novembre il rettore della UNAM annuncia il ritorno alle lezioni per il lunedì successivo, e il giorno dopo il Tribunale di Venezia assolve Pasolini dall’accusa di oscenità, togliendo il bando al film.

Studenti arrestati nella zona di Tlatelolco a Città del Messico, il 2 ottobre 1968. (AP Photo)
C’è un’altra corrispondenza nella quale mi sono imbattuto. Ed è a mio avviso la più potente.
Tutte le cronache scritte e le storie orali in cui si racconta l’inizio del fenomeno infrarealista ricordano una rassegna poetica che certifica la nascita del movimento poetico (un po’ allo stesso modo in cui il reading alla 6 Gallery di San Francisco nell’ottobre del 1955 aveva suggellato la nascita della beat generation, cui per inciso l’infrarealismo in parte si ispira).
Dall’agosto all’ottobre 1975, si tenne nella sala principale della «Casa del Lago» – una residenza, guarda caso, proprio della UNAM – un «Ciclo di conferenze e letture di giovane poesia latinoamericana, anglosassone e francese». È qui che ricordi personali e leggende letterarie testimoniano il primo incrocio fra i destini di Roberto Bolaño e di Mario Santiago, le cui vicende animeranno la poesia messicana e (con le loro identità letterarie di Arturo Belano e Ulises Lima) offriranno ampio materiale narrativo per I detective selvaggi.
Ebbene, la rassegna da cui nacque l’infrarealismo si svolse in nove incontri in altrettante domeniche consecutive: il 31 agosto, il 7, 14, 21, 28 settembre, il 5, 12, 19, 26 ottobre del 1975. La domenica successiva, la prima in cui la rassegna non si svolge più, è il 2 novembre 1975. C’è un passaggio di testimone: muore un poeta, nasce un movimento poetico.
È questo passaggio di testimone che, senza ancora saperlo, cercavo quando ho notato l’incipit dei Detective selvaggi e ci ho trovato dentro la data della morte di Pier Paolo Pasolini.
«Il poeta non muore», fa dire Bolaño a un suo personaggio, don Pancracio Montesol, «affonda ma non muore».

Volantino del movimento Infrarealista (via Unam.mx)
Post scriptum. Una volta terminata la stesura di questo articolo, ho letto su Repubblica un’intervista di Lucio Luca a Ninetto Davoli, amico e attore in molti film Pasolini.
Luca: «Sono passati cinquant’anni, chissà quante cose avrebbe fatto Pasolini se ne avesse avuto il tempo».
Davoli: «Pier Paolo era un vulcano…»
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