Lo sfruttamento nella filiera delle grandi aziende si può evitare

Per dimostrarlo la procura di Milano ha iniziato a usare un nuovo metodo d'inchiesta molto discusso, che però ha ottenuto qualche risultato

di Alessandra Pellegrini De Luca

(Getty Images)
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Negli ultimi anni il tribunale di Milano ha aperto inchieste giudiziarie su diverse grandi aziende nelle cui filiere produttive sono stati denunciati casi di sfruttamento, caporalato, frode o evasione fiscale. Le indagini hanno avuto una certa visibilità perché hanno riguardato società molto note e importanti, e in certi casi hanno avuto esiti eclatanti perché alcune di queste aziende sono state messe in amministrazione giudiziaria: un provvedimento usato generalmente in risposta a situazioni gravi, nato per contrastare le infiltrazioni mafiose e che poi si è evoluto fino a comprendere reati come sfruttamento e caporalato.

L’amministrazione giudiziaria è già stata usata per società come Geodis e BRT nella logistica, o altre di proprietà dei marchi ArmaniAlviero Martini e Valentino nella moda. Il provvedimento più recente ha riguardato il marchio di lusso Loro Piana. Per altre aziende la procura di Milano ha aperto inchieste che sono ancora in corso (talvolta ordinando sequestri di somme di denaro notevoli) e in alcuni casi è riuscita a raggiungere accordi che permettessero di evitare l’amministrazione giudiziaria: tra le altre, sono state indagate AmazonDHLGLSFedExEsselunga, Dior.

Le violazioni di leggi e diritti all’interno delle filiere produttive di grandi aziende sono un problema da anni e in settori diversi, ma fino ai tempi recenti non erano mai state avviate azioni sistematiche per affrontarle. Il motivo è che è sempre stato complicato attribuire a quelle stesse aziende le responsabilità di eventuali reati, proprio per il modo in cui è fatta la loro filiera produttiva: gran parte della produzione di beni e servizi infatti viene affidata in appalto (“esternalizzata”, si dice in gergo) ad altre aziende più piccole, di cui il marchio committente non ha (o sostiene di non avere) il controllo. Lo si fa per ridurre i costi di produzione. Spesso poi anche queste aziende più piccole affidano parti di lavoro ad altre aziende ancora più piccole, in una catena di appalti e subappalti molto lunga, ramificata e frammentata.

Nel caso di Loro Piana, per esempio, è emerso che il marchio affidava la produzione di giacche a un’azienda più piccola, la Evergreen Fashion Group Srl: quest’ultima però non aveva un reparto produttivo adatto, e per realizzare le giacche si rivolgeva a sua volta a un’altra azienda ancora più piccola, la Clover Moda Srl. È qui che è stato rilevato lo sfruttamento dei lavoratori per cui è stata aperta un’indagine. Il numero di ore lavorate era superiore ai limiti di legge, venivano impiegati operai in nero e senza permesso di soggiorno, oppure operai a cui non venivano pagati i contributi e che avevano contratti con condizioni di lavoro molto diverse da quelle reali (la procura cita contratti da venti ore settimanali, a fronte di oltre cinquanta ore lavorate).

Dal momento che i marchi committenti non hanno necessariamente una responsabilità penale per i reati compiuti da altre aziende all’interno della loro filiera, le azioni giudiziarie tendono a limitarsi alla punizione delle singole aziende che violano la legge, ma non di chi è a capo della filiera. Le inchieste avviate dalla procura di Milano si basano invece sull’idea che aziende delle dimensioni, profitti e rilevanza di Loro Piana debbano avere la responsabilità di controllare tutta la propria filiera: non solo le società a cui affidano direttamente la produzione, ma anche quelle a cui la produzione viene ulteriormente subappaltata.

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Non potendo accusare queste aziende per i reati compiuti da altre aziende all’interno della loro filiera, la procura di Milano ha fatto ricorso a strumenti diversi: misure di prevenzione come l’amministrazione giudiziaria, come nel caso di Loro Piana, o sequestri preventivi di denaro.

Le misure preventive vengono disposte indipendentemente dal fatto che sia commesso o meno un reato: servono a prevenirlo: con l’amministrazione giudiziaria si nominano uno o più funzionari (gli amministratori giudiziari, appunto) incaricati di correggere pratiche illecite all’interno della filiera di un’azienda. Nel caso dei sequestri preventivi si parla di una misura prevista invece dal codice penale, con cui vengono sottratte all’azienda committente somme equivalenti al profitto ricavato all’azienda dal mancato pagamento dell’IVA, o dei contributi. Sono misure che la procura chiede al tribunale di applicare: nel caso dell’amministrazione giudiziaria senza che l’azienda sia formalmente responsabile di un reato; nel caso del sequestro preventivo senza che ci sia stata la sentenza di un tribunale, ma sulla base di quanto raccolto durante le indagini.

In tutti i casi citati il tribunale di Milano ha accolto le richieste della procura. In entrambi i casi – amministrazioni giudiziarie o sequestri preventivi – la novità nel metodo della procura di Milano sta nel condurre le indagini puntando direttamente ai grandi gruppi a capo della filiera.

Dopo l’imposizione delle misure inizia una fase piuttosto complessa di negoziazione tra il tribunale e le aziende: in vari casi – soprattutto nel settore della logistica e della grande distribuzione – i procedimenti avviati dalla procura di Milano si sono conclusi e sono stati archiviati dopo accordi con cui l’azienda si è impegnata a riorganizzarsi internamente e a adottare misure per prevenire i rischi di sfruttamento, caporalato e altri reati nella loro filiera. Sono accordi simili a quello che nei paesi anglosassoni si chiama prosecution agreement.

La procura di Milano ha ottenuto dei risultati. Le aziende hanno introdotto più controlli sui fornitori, ispezioni a sorpresa, divieti di subappalto del lavoro ad altre aziende. In altri casi hanno accettato di assumere direttamente una parte dei lavoratori impiegati dai fornitori in condizioni di illegalità, oppure di versare somme allo Stato per compensare le evasioni fiscali passate. Solo nel settore della logistica 19 inchieste della procura di Milano hanno portato a circa 49mila assunzioni (il dato è dell’INPS), mentre per le somme versate la procura ha stimato un ricavo complessivo per lo Stato di quasi mezzo miliardo di euro.

Ma i metodi usati dalla procura di Milano sono stati anche criticati da alcuni giuristi, in particolare per l’esteso utilizzo delle misure preventive, che come detto non presuppongono il compimento di un reato. Secondo i critici sono misure aggressive e invasive nei confronti di aziende che non hanno responsabilità penali, e per cui è complicato controllare filiere ampie e fatte di centinaia o migliaia di altre aziende con margini di autonomia molto ampi.

Un’altra critica rivolta alla procura di Milano riguarda le conseguenze economiche che i suoi provvedimenti hanno sulle aziende. In particolare per il fatto che in assenza di meccanismi nazionali e omogenei sul controllo delle filiere, le inchieste finiscono per penalizzare alcune aziende, quelle su cui ha modo di intervenire la procura di Milano per competenza territoriale: in questo modo si creerebbe disparità nella competizione di mercato con altre aziende che hanno sede altrove e magari si trovano in condizioni simili.

«Il rientro nella legalità costa: anche se un’azienda indagata completa il suo piano rimediale e ne ha un ritorno positivo d’immagine e magari non ha contrazioni di fatturato, i costi aumentano e spesso si crea una forte distorsione della normale concorrenza, perché nella regione a fianco un’azienda simile continua a mantenere costi più bassi visto che la procura competente non adotta le stesse iniziative della procura di Milano», dice l’avvocato Pasquale Annicchiarico, che ha difeso alcune grandi aziende interessate dalle inchieste del procuratore Storari.

Borsette di Dior in un negozio a Parigi (AP Photo/Thomas Padilla)

Ad avviare le inchieste contro i grandi marchi per via delle loro filiere è stato un procuratore in particolare: Paolo Storari, a lungo collaboratore di Ilda Boccassini, nota e discussa ex magistrata che ha condotto alcune delle inchieste più vistose della procura di Milano contro criminalità organizzata, terrorismo e contro Silvio Berlusconi.

A seconda delle valutazioni, ciò che fa Storari è stato definito un «metodo» o una «crociata» contro le aziende multinazionali. C’è chi considera il lavoro di Storari giusto e meritevole per via dei risultati ottenuti, e chi ritiene che abusi dei propri poteri per fare un utilizzo politico della giustizia: intervistato dal Foglio, il giurista ed ex presidente della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick ha parlato di «esondazioni della magistratura», e di un modo di utilizzare la posizione di procuratore per contrastare fenomeni sociali ed economici molto complessi invece che reati: secondo Flick è un obiettivo che non dovrebbe competere a una procura.

Paolo Storari (AP Photo/Luca Bruno)

La procura e il tribunale di Milano, d’altra parte, utilizzano strumenti previsti dalla legge. L’amministrazione giudiziaria, per esempio, è prevista dall’articolo 34 del cosiddetto “decreto antimafia” (poi, come detto, è stata estesa anche a reati non di mafia). Funziona così: il tribunale nomina un amministratore giudiziario, che affianca temporaneamente la dirigenza dell’azienda (normalmente il mandato dura 12 mesi, prorogabili di 6) e fa in modo che adotti le misure necessarie a correggere le pratiche illecite all’interno della filiera, stabilite volta per volta. Quando il tribunale le ritiene sufficienti, il controllo dell’azienda viene restituito a chi la dirige. L’azienda non può rifiutarsi di fare ciò che dice il tribunale.

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Finora la procura di Milano ha agito principalmente su tre fronti: quello della logistica e della grande distribuzione, quello della moda e del lusso e quello del cosiddetto “lavoro povero”: sono le cooperative che reclutano e forniscono lavoratori come maschere, custodi, bigliettai e guardarobieri a vari tipi di istituzioni culturali, come teatri, musei o fiere, con retribuzioni, orari e condizioni lavorative fuori dalle norme di legge.

Le inchieste sono iniziate a seguito di controlli della Guardia di finanza in laboratori o opifici abusivi o in cui vengono compiute violazioni, controlli fatti dall’Agenzia delle entrate sui versamenti dell’IVA (l’imposta sulla vendita dei beni e servizi) e dei contributi, o a volte denunce di singoli lavoratori sfruttati.

È proprio il caso di Loro Piana, iniziato da una denuncia di un cittadino cinese assunto come sarto da una piccola azienda inserita nella filiera del marchio. L’uomo diceva di lavorare 13 ore al giorno nonostante il suo contratto ne prevedesse 4, di aver smesso di ricevere lo stipendio e di essere stato picchiato dal suo titolare a seguito delle sue rimostranze. Diceva anche di lavorare in un opificio con altri operai senza permesso di soggiorno e contratto di lavoro.

Il caso di Loro Piana è esemplare del modo in cui agisce Storari: anziché limitarsi a punire il titolare della singola azienda che aveva sfruttato il lavoratore in questione, la procura ha fatto un passo ulteriore: ha avviato ispezioni e controlli sulle società con cui la piccola azienda lavorava, ricostruito i rapporti di fatturazione con le altre aziende e gli orari di attività dei vari laboratori (attraverso i dati sui consumi elettrici), e concluso che la piccola azienda in questione, la Clover, lavorava per la Evergreen, che a sua volta lavorava per Loro Piana.

La procura, in altre parole, ha accertato che il reato di sfruttamento di cui si stava occupando era avvenuto all’interno della filiera di Loro Piana e contribuiva quindi al funzionamento della sua produzione (in questo caso di giacche), e per questo ha chiesto di disporne l’amministrazione giudiziaria al tribunale, che ha accolto la richiesta.

L’amministrazione giudiziaria di Loro Piana durerà un anno, durante il quale l’azienda dovrà cambiare la propria organizzazione interna, rivedere tutti i contratti con i fornitori e interrompere i propri contratti con quelli che non rispettano la legge, tra le altre cose. Per accertare la regolarità dei propri fornitori l’azienda dovrà fare delle ispezioni nei loro stabilimenti e verificare le condizioni di lavoro al loro interno.

Un amministratore giudiziario che ha chiesto di restare anonimo dice che non è sempre possibile per un’azienda ispezionare i laboratori dei fornitori: «Spesso i marchi di moda hanno fornitori comuni che magari non li fanno entrare negli ambienti in cui vengono prodotti capi per un marchio concorrente, che poi sono quelli in cui si lavora». Per questo diversi amministratori giudiziari ritengono che sarebbe meglio istituire un organo di vigilanza indipendente sulle filiere, attivo a livello nazionale, anziché affidare questo compito alle aziende stesse, e per volontà di una procura locale.

Una volta raggiunte dal provvedimento le aziende non hanno altra scelta se non collaborare con la procura per concordare un piano rimediale allo scopo di arrivare nel minor tempo possibile alla sua revoca. È un’attività complessa e articolata, diversa a seconda del tipo di provvedimento (sequestro preventivo o amministrazione giudiziaria), ma che coinvolge da un lato un avvocato penalista con i suoi consulenti e l’ufficio legale dell’azienda, e dall’altro la procura, l’Agenzia delle entrate e l’INPS (con cui Storari ha rapporti molto diretti, dice l’avvocato Annicchiarico).

Secondo Annicchiarico uno dei motivi per cui la procura di Milano è stata finora l’unica ad agire in questo modo è la quantità e complessità di lavoro richieste da questo tipo di procedimenti, che non si limitano a indagare sul singolo reato ma mirano a “riabilitare” intere filiere di enormi aziende in collaborazione con vari enti, e a farlo in assenza di una legge chiara da parte dello Stato.

È proprio a seguito della visibilità mediatica ottenuta dal caso di Loro Piana che in una recente intervista al Corriere della Sera Carlo Capasa, presidente della Camera nazionale della moda italiana, associazione che rappresenta le principali case di moda, ha detto di star lavorando a una proposta di legge sul tema: l’obiettivo sarebbe affidare il controllo delle filiere a un ente indipendente e istituire un albo dei fornitori certificati che vengano sottoposti a controlli ogni sei mesi per verificare il rispetto dei requisiti di legalità.

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