Vi ricordate quella volta di Trump con l’enorme tabella sui dazi?

Dopo i disastri in borsa, la Casa Bianca rinviò tutto e promise 90 accordi in 90 giorni: ne è arrivato solo uno, ora ci risiamo

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel giardino della Casa Bianca con in mano la tabella coi dazi da applicare al resto del mondo, il 2 aprile del 2025 (AP Photo/Mark Schiefelbein)
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel giardino della Casa Bianca con in mano la tabella coi dazi da applicare al resto del mondo, il 2 aprile del 2025 (AP Photo/Mark Schiefelbein)
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Mercoledì 9 luglio scade il termine fissato dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump per stringere accordi con le decine e decine di paesi a cui ad aprile aveva promesso grossi dazi. Per rinfrescare la memoria: sono i dazi delle famigerate grandi tabelle esposte dallo stesso Trump nel giardino della Casa Bianca, quelli che lui chiama impropriamente “reciproci”: introdotti, sospesi e rimandati più volte, causarono un grande caos in tutto il mondo prima che lo stesso Trump li rinviasse per 90 giorni. Ecco: i 90 giorni scadono tra una settimana.

L’amministrazione Trump aveva promesso “90 accordi commerciali con 90 paesi diversi in 90 giorni”. Per ora di accordo ne è stato concluso solo uno, col Regno Unito. Peraltro un’intesa politica più che un vero accordo commerciale, per cui solitamente servono molti anni, negoziati e compromessi. In questi giorni Trump sta dicendo che è tentato di chiudere la questione mandando delle «lettere» con su scritto quanto ai paesi toccherà pagare: anche se, di nuovo, i dazi statunitensi li pagano solo consumatori e aziende statunitensi. Il governo americano ovviamente non ha il potere di imporre tasse fuori dai propri confini.

Insieme alla Cina, con cui Trump dice di avere trovato un accordo, è l’Unione Europea il pezzo più importante di questa partita: quella tra Stati Uniti e paesi europei è la relazione commerciale più importante al mondo, cioè non esiste un gruppo di paesi che si scambi un valore così alto di beni e servizi. I dazi sarebbero un disastro sia per l’Unione Europea (e per l’Italia), le cui merci vendute agli Stati Uniti sarebbero penalizzate dal sovrapprezzo, sia per gli Stati Uniti, i cui consumatori e le cui aziende sarebbero costretti a pagare molto di più per i prodotti europei.

Per i paesi europei, tra cui l’Italia, significherebbero una tassa aggiuntiva del 20 per cento che dovrebbe pagare chiunque voglia importare i prodotti italiani negli Stati Uniti, in aggiunta al 10 per cento già imposto dall’amministrazione Trump sui prodotti di ogni paese al mondo. Per un totale del 30 per cento. Per questo motivo, i negoziati sono stati intensi.

(AP Photo/Martin Meissner)

I rappresentanti, tecnici e collaboratori di Unione Europea e Stati Uniti parlano da settimane, e venerdì i negoziatori statunitensi hanno proposto una bozza di accordo che da allora sta venendo esaminata dai diplomatici europei. Ma il lavoro dei tecnici è stato messo alla prova dalle decisioni e dichiarazioni estemporanee di Trump, che per esempio un venerdì di fine maggio disse di punto in bianco che il lunedì successivo sarebbero entrati in vigore dazi del 50 per cento contro i paesi europei (neanche del 30 per cento, come in origine) perché a suo dire i negoziati non stavano portando a niente.

È il classico modo di Trump di portare avanti questo tipo di relazioni: minacciare conseguenze terribili per ottenere quello che vuole, provare a ottenere qualcosa e poi rimangiarsi le minacce (se non ottiene niente, come accaduto con la Cina, rimangiarsi le minacce comunque). La settimana scorsa, per esempio, ha interrotto bruscamente i negoziati con il Canada perché pretendeva l’abolizione di una tassa sui servizi digitali che doveva essere pagata a breve (abolizione che poi ha ottenuto).

(AP Photo/Manuel Ceneta)

I negoziatori statunitensi hanno presentato una serie di richieste all’Unione Europea, che secondo Trump è nata proprio per «fregare» gli Stati Uniti: chiedono di ridurre la tassazione e soprattutto le stringenti regolamentazioni a cui devono conformarsi le multinazionali tecnologiche statunitensi; chiedono per i loro prodotti l’abolizione dell’IVA, l’imposta sul valore aggiunto che negli Stati Uniti non c’è (ma ce n’è una molto simile); chiedono che i paesi europei acquistino più auto statunitensi.

In senso più ampio, chiedono che si riduca lo squilibrio commerciale tra le due aree, il cosiddetto deficit commerciale, l’ossessione di Trump: la differenza tra quanto si esporta e quanto si importa.

Se un paese è in deficit commerciale, significa che compra dall’estero più di quanto vende all’estero. Secondo Trump il deficit commerciale degli Stati Uniti è una loro ragione di debolezza, perché dal paese escono più soldi di quanti ne entrino: ma è una sciocchezza infondata. Gli Stati Uniti comprano di più perché hanno la più ricca economia del pianeta, perché lo trovano conveniente e banalmente perché possono e vogliono farlo, senza che nessuno li costringa. Ma il peso di questa relazione permette a Trump di fare richieste e tentare di spuntare condizioni commerciali migliori, e usare questo negoziato per ottenere anche risultati non commerciali.

L’Unione Europea non è disponibile a cambiare il suo sistema fiscale o le leggi sui servizi digitali. Ha offerto di comprare più merci statunitensi, non solo auto ma anche energia: d’altra parte dall’inizio della guerra in Russia gli Stati Uniti sono diventati un fornitore essenziale di gas per i paesi europei. In cambio ha chiesto la cancellazione dei dazi “reciproci” e l’esenzione dagli altri già in vigore su auto e loro componenti, acciaio e alluminio. E ha minacciato a sua volta dazi su una serie di prodotti statunitensi che vengono venduti nei paesi europei, dai jeans e alle Harley-Davidson: ma con dimensioni quasi simboliche, imposti su una minuziosa selezione di merci. Avrebbe anche un altro strumento negoziale, che però non ha usato.

La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen (AP Photo/Geert Vanden Wijngaert)

L’Unione potrebbe infatti imporre tasse aggiuntive sui servizi – soprattutto digitali e tecnologici – che gli Stati Uniti ci forniscono e su cui sono invece in condizione di enorme surplus: ne vendono all’Europa ben più di quanti ne acquistino, il contrario di quello che avviene con le merci. Tra i servizi rientrano quelli forniti da tutte le aziende digitali e anche quelli finanziari, che solo nel 2023 pesavano per 420 miliardi di euro (100 in più di quelli che i paesi europei vendono agli Stati Uniti). Ma su questo le cose sono andate diversamente, e sono state addirittura fatte grosse concessioni.

Sabato sera i paesi del G7, tra cui Italia, Francia e Germania che fanno parte dell’Unione Europea, si sono accordati per escludere le multinazionali statunitensi dal pagamento della global minimum tax, una tassa in vigore dallo scorso anno in decine di paesi del mondo che impone che le aziende paghino almeno il 15 per cento di tasse sui loro profitti: l’accordo era stato trovato avendo in testa innanzitutto le grandi aziende tecnologiche statunitensi come Google, Amazon e Meta.

A fronte di questo contesto, ci si aspetta un accordo molto superficiale – vago tanto quanto quello con il Regno Unito – che cancelli il dazio aggiuntivo del 20 per cento sulle merci europee ma lasci quello del 10 per cento, in attesa di negoziare eventualmente nuove esenzioni su auto, acciaio e alluminio: una soluzione che entrambe le parti potrebbero presentare come una vittoria.

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