Fin qui la strategia di Trump sui dazi non sta funzionando
La promessa di fare "90 accordi in 90 giorni" è ancora in alto mare, e intanto gli Stati Uniti stanno facendo grandi retromarce senza ottenere nulla in cambio

Da quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha temporaneamente e parzialmente sospeso gli enormi dazi che aveva imposto a mezzo mondo, lui e i suoi funzionari non hanno fatto altro che dire che decine di paesi avrebbero avuto una gran fretta di trattare – e si sarebbero arresi a qualsiasi accordo – pur di evitare una guerra commerciale con gli Stati Uniti. Il consigliere economico di Trump Peter Navarro aveva addirittura quantificato un obiettivo ritenuto irrealistico da gran parte degli addetti ai lavori: «90 accordi in 90 giorni», cioè 90 trattati commerciali con 90 paesi diversi, da fare nei 90 giorni di sospensione dei dazi.
Era il 9 aprile. Sono passate due settimane e non solo non è stato concluso alcun accordo, com’era prevedibile, ma si sa anche poco su come stanno andando i negoziati e se ce ne sono. Ognuno di questi accordi infatti normalmente richiede anni di trattative, e non è affatto raro che i negoziati semplicemente falliscano. Senza contare che Trump sta già mettendo in fila una retromarcia dopo l’altra, senza ottenere niente in cambio: prima il rinvio dei cosiddetti “dazi reciproci”, poi l’esenzione di smartphone e dispositivi tecnologici, secondo il Financial Times la prossima resa unilaterale arriverà sulle automobili.
Queste decisioni mostrano quanto male stiano facendo i dazi agli Stati Uniti, e mettono il resto del mondo a conoscenza del fatto che c’è un livello di sofferenza economica oltre il quale l’amministrazione non è disposta ad andare; inoltre privano gli Stati Uniti di strumenti e questioni che avrebbero potuto usare durante le trattative per ottenere qualcosa.
Martedì alcuni giornalisti hanno chiesto conto della mancanza di risultati concreti alla portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, che in modo molto vago ha parlato di «18 proposte» ricevute, senza però specificare di cosa né da quali paesi. Leavitt ha anche aggiunto che il team delegato da Trump a trattare – composto tra gli altri da Navarro, dal segretario al Commercio Howard Lutnick e dal segretario al Tesoro Scott Bessent – ha finora incontrato i rappresentanti di 34 paesi. Sono poco più di un terzo rispetto ai 90 paesi con cui dovrebbero stare già parlando.
La scorsa settimana Bessent, che è considerato il principale negoziatore, ha detto che gli Stati Uniti stanno dando priorità ai 15 paesi che sono i loro maggiori partner commerciali: tra questi ci sono l’India, il Giappone, Taiwan, la Corea del Sud, il Vietnam e l’Unione Europea.
Ma anche di questi si sa ben poco, oltre le vaghe, confuse e sempre oltremodo entusiaste dichiarazioni del governo: «Abbiamo avuto un incontro fantastico con il Giappone ieri, credo che ci siano già state delle chiamate con l’Unione Europea, e poi la prossima settimana arriverà la Corea del Sud e credo che anche l’India stia parlando. Tutto sta procedendo molto velocemente», ha detto Bessent giovedì scorso.

Da sinistra: Donald Trump, il vicepresidente JD Vance, il segretario al Tesoro Scott Bessent e quello alla Difesa Pete Hegseth, il 17 aprile 2025 nello Studio Ovale (AP Photo/Alex Brandon)
In India è andato il vicepresidente JD Vance, che ha detto che con il primo ministro Narendra Modi è riuscito a definire alcuni termini di massima per un accordo finale di cui però non si sa niente. La scorsa settimana una delegazione dal Giappone è stata a Washington per negoziare, ma secondo diverse ricostruzioni i delegati sono andati via abbastanza sconfortati: non hanno ancora capito nemmeno cosa vogliono ottenere gli Stati Uniti da un accordo commerciale e quali sono le loro richieste.
C’è poca concretezza anche sui negoziati con l’Unione Europea. Maros Sefcovic, il commissario europeo al Commercio, è stato tra i primi delegati a recarsi a Washington dopo l’annuncio sui dazi, e comprensibilmente: l’Unione Europea nel suo complesso è il primo partner commerciale degli Stati Uniti e le due parti hanno la relazione bilaterale più grande al mondo. Ma al suo arrivo mancava persino Bessent, che era a Buenos Aires dal presidente Javier Milei.
Le cose sono andate meglio durante la visita della presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla Casa Bianca, quando Trump ha detto di essere certo «al 100 per cento» di riuscire a trovare un accordo commerciale con l’Unione Europea, verso cui aveva minacciato dazi aggiuntivi del 20 per cento. Ma ancora, non risulta ci siano delle trattative: e gli ultimi negoziati per un accordo commerciale tra Unione Europea e Stati Uniti erano durati anni per poi fallire. Nel frattempo l’Unione sta cercando di velocizzare nuovi accordi commerciali con altri paesi, per aprirsi nuovi mercati alternativi.

Trump e Giorgia Meloni, il 17 aprile 2025 alla Casa Bianca (AP Photo/Alex Brandon)
È una storia ancora diversa quella che riguarda la Cina, l’unico paese verso cui sono rimasti in vigore gli enormi dazi che ha annunciato Trump nelle scorse settimane: sono del 145 per cento verso le merci cinesi che arrivano negli Stati Uniti e del 125 verso le merci statunitensi che vanno in Cina, un livello che rende il commercio di fatto impossibile. Lo ha riconosciuto martedì lo stesso Bessent, in un incontro a porte chiuse con alcuni investitori, a cui avrebbe rivelato che i colloqui col governo cinese non sarebbero neanche iniziati.
Anche perché la Cina non sembra intenzionata a trattare. Dopo l’imposizione di questi dazi, Trump aveva detto spavaldo di essere in attesa di una telefonata dal presidente cinese Xi Jinping: telefonata che non è mai arrivata. Anzi, la Cina ha risposto con le maniere forti, sospendendo gli ordini di aerei e di petrolio: la strategia, insomma, non ha funzionato. Poi è arrivata la resa di Trump su smartphone e dispositivi tecnologici. Due giorni fa è tornato sul tema in modo insolitamente conciliatorio: ha detto che non prevede un negoziato «duro» e si è anche impegnato a «essere molto buono con la Cina».
Visto come sono andate queste prime due settimane, circolano sempre più dubbi tra gli esperti su come l’amministrazione Trump possa gestire così tante negoziazioni simultanee e sull’obiettivo dei 90 accordi in 90 giorni.
Innanzitutto perché sarebbe un risultato irrealistico anche per un’amministrazione estremamente efficiente: gli accordi commerciali richiedono solitamente molto tempo, perché il commercio è una materia estremamente tecnica. Dazi e percentuali sono la parte meno ostica: ci sono normative specifiche sui prodotti e sulle procedure doganali, norme sanitarie anche molto diverse tra le controparti, solo per dirne alcune.
Ci vollero otto mesi per l’accordo più semplice del primo mandato di Trump, quello per rivedere i termini dei soli settori dell’auto e della siderurgia previsti dall’accordo di libero scambio tra Stati Uniti e Corea del Sud. Ci vollero due anni per l’accordo commerciale tra Stati Uniti, Messico e Canada, il cosiddetto USMCA, nonostante il quale peraltro Trump ha comunque colpito con i dazi sia Messico che Canada. L’Unione Europea e gli Stati Uniti negoziarono per sei anni il TTIP, il trattato di libero scambio su cui addirittura non trovarono mai un accordo, e che fu archiviato nel 2019.
Il tutto poi è reso ulteriormente complicato da chi oggi dovrebbe condurre questi negoziati per conto degli Stati Uniti.

Un negozio di Apple, tra le aziende statunitensi che hanno più da perdere dalla guerra commerciale con la Cina, a Pechino ad aprile del 2025 (AP Photo/Andy Wong)
Molti incarichi con competenze tecniche, quelli tipicamente più coinvolti in questi colloqui, non sono ancora stati assegnati dall’amministrazione Trump, e i funzionari già insediati devono dividersi tra diverse altre mansioni. Inoltre le persone di alto livello incaricate da Trump – Navarro, Bessent, Lutnick e Hassett – hanno notoriamente opinioni molto diverse sul commercio internazionale, col risultato che la posizione degli Stati Uniti non è univoca e risulta talvolta confusa alle controparti.
E poi c’è Trump. Navarro ha detto che è Trump «il capo negoziatore. Nulla viene fatto senza che lui lo esamini attentamente». D’altra parte è il tratto distintivo delle sue presidenze: l’unico modo efficace per fare diplomazia con gli Stati Uniti è parlare direttamente con Trump, che però disdegna le modalità ufficiali, le ambasciate, i ministeri e i negoziati tra gli “sherpa”. I rappresentanti di Trump hanno scarsa autonomia, e le controparti degli Stati Uniti lo sanno: come sanno che tutto quello che dicono i funzionari americani durante i negoziati vale poco e potrà facilmente essere smentito dal presidente sui social media. Intanto vedono i dati economici e finanziari statunitensi diventare sempre più preoccupanti, e l’amministrazione arretrare senza ottenere nulla in cambio. E quindi, perché affannarsi a trattare?