Non è chiaro cosa Meloni abbia ottenuto da Trump, a parte molti complimenti

Ma il miglior risultato della presidente del Consiglio è stato soprattutto evitare incidenti

Donald Trump accoglie Giorgia Meloni alla Casa Bianca, il 17 aprile 2025 (Alex Brandon/AP Photo)
Donald Trump accoglie Giorgia Meloni alla Casa Bianca, il 17 aprile 2025 (Alex Brandon/AP Photo)
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Nel suo incontro con Donald Trump a Washington, Giorgia Meloni aveva uno spazio di manovra piuttosto ristretto: non poteva chiedere un trattamento di favore per la sola Italia sui dazi, perché avrebbe violato l’unità che l’Unione Europea sta mantenendo per trattare con gli Stati Uniti (e comunque era molto improbabile che Trump glielo concedesse); e non poteva nemmeno trattare a nome dell’Unione Europea, perché non aveva il mandato per farlo. Meloni stessa se n’era resa conto e due giorni prima della partenza aveva cercato di ridimensionare le grosse aspettative che si stavano creando sul suo viaggio, spiegando che il momento era difficile e che sentiva su di sé una grossa pressione.

La visita ha confermato queste attese. Meloni ha offerto a Trump quello che chiedeva: maggiore acquisto di gas americano, soprattutto, e poi un aumento delle spese per la difesa e la garanzia di grossi investimenti di aziende italiane negli Stati Uniti. In cambio ha ottenuto un riconoscimento a livello internazionale non scontato. Trump l’ha riempita di complimenti, come aveva già fatto nei mesi passati, ribadendo la sintonia ideologica e personale: è in fondo un buon risultato, che Meloni potrà agevolmente far valere nel dibattito politico interno. Le concessioni concrete che ha ottenuto sono invece assai più fumose e difficili da capire, e la stessa Meloni ha faticato a indicarle durante la conferenza stampa nello Studio Ovale (lo studio ufficiale del presidente statunitense) al termine dell’incontro.

Trump ha detto che è certo («Al 100 per cento») di trovare un accordo con l’Unione Europea entro il 9 luglio, quando dovrebbe scadere la sospensione di 90 giorni sull’aumento dei dazi annunciata giorni fa. Meloni, la prima leader europea a essere ricevuta alla Casa Bianca da quando Trump ha iniziato la guerra commerciale contro mezzo mondo, può rivendicare di aver contribuito a facilitare questo dialogo: in realtà resta complicato, e quello che succede di concreto passa soprattutto attraverso altri canali diplomatici. Il commercio internazionale è infatti una delle poche materie su cui la Commissione Europea ha una competenza esclusiva, che dunque non può in alcun modo essere delegata ai singoli Stati membri.

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Meloni ha dato un certo risalto al fatto che Trump abbia accettato l’invito per una visita ufficiale a Roma «in the near future», cioè in un futuro prossimo ma non ben definito, e soprattutto al fatto che Trump si sarebbe detto disponibile a «considerare la possibilità» di incontrarsi anche «con l’Europa». Le parole sono importanti: «consider the possibility» è la formula diplomatica che si usa quando c’è una disponibilità a fare una cosa, ma al tempo stesso non ci si vuole vincolare davvero a un impegno preso in modo un po’ generico.

In questo e in altri passaggi inoltre, Meloni ha parlato di Europa e non di Unione Europea: un fatto che sembra suggerire che a questo dialogo vorrebbe far partecipare anche il Regno Unito, o che più banalmente voglia evitare di coinvolgere troppo esplicitamente le istituzioni dell’Unione, che Trump ha finora snobbato e ignorato, quando non ingiuriato.

Meloni d’altra parte è stata ricevuta alla Casa Bianca dopo che c’erano andati già altri leader europei: il francese Emmanuel Macron, il britannico Keir Starmer, l’irlandese Micheál Martin, il polacco Andrzej Duda. Questo dà un po’ la misura della considerazione che gli Stati Uniti hanno per l’Italia: un paese importante, ma non determinante per i rapporti internazionali (quello che verosimilmente sarà un interlocutore obbligato per Trump, e cioè il cancelliere tedesco Friedrich Merz, deve di fatto ancora entrare in carica).

Di certo tra questi leader Meloni è quella che più ha mostrato di condividere in modo convinto le idee di Trump, ma evidentemente è un’adesione più formale che di sostanza. Al tempo stesso Meloni è sempre stata attenta a fare in modo che questa vicinanza ideologica non fosse in contrasto con l’Unione Europea (anche se non molto tempo fa aveva detto di condividere le dure critiche all’Unione mosse dal vicepresidente statunitense JD Vance).

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Nello Studio Ovale Meloni in un paio di circostanze ha tentato proprio di accreditarsi come rappresentante dell’Europa. Ha sottolineato che i legami commerciali ed economici sono fortissimi non solo per quel che riguarda l’Italia, ma per l’intera Europa. Ha accolto con favore l’idea che Trump rappresenti un «nazionalismo occidentale», riprendendo un’espressione usata da un giornalista statunitense, e ha auspicato un compromesso sui dazi che rafforzi le relazioni «tra le due sponde dell’Atlantico». Ha mutuato lo slogan caro a Trump «Make America Great Again», ma dicendo che il suo obiettivo è quello di «rendere di nuovo forte l’Occidente».

Questo presunto ruolo di mediatrice ha evidentemente delle insidie. In questo senso, il miglior risultato ottenuto da Meloni è proprio avere evitato che nello Studio Ovale si verificassero degli incidenti diplomatici, o che il colloquio degenerasse: una prospettiva che prima dell’incontro i suoi collaboratori non escludevano affatto, e anzi in parte paventavano, tanto che hanno cercato di proporre ai membri dello staff di Trump di ridurre al minimo lo spazio dedicato alle domande dei giornalisti (richiesta poi ignorata).

Quando i giornalisti italiani hanno sollevato i temi più divisivi, e cioè il sostegno all’Ucraina e le accuse rivolte da Trump agli europei, definiti «parassiti», Meloni è stata abbastanza in imbarazzo. Sulle accuse all’Europa Meloni ha suggerito che Trump non avesse mai pronunciato quelle parole, mentre il presidente statunitense ha liquidato la questione a modo suo («Non so neppure di cosa stiate parlando», ha risposto).

Sull’Ucraina invece la questione è più complicata. Anche se con toni assai meno assertivi di quelli usati in passato, Meloni ha ribadito che la responsabilità della guerra è dell’invasore, cioè Putin, e non di Volodymyr Zelensky come aveva invece detto giorni fa Trump. Quando però Trump ha ribadito la sua posizione sono emerse le distanze tra gli Stati Uniti e l’Italia, e tra gli Stati Uniti e l’Europa. Su questo aspetto è rilevante soprattutto quel che non è stato detto. Durante la conferenza stampa non si è mai fatto alcun riferimento alla proposta avanzata tempo fa da Meloni di estendere la protezione garantita dall’articolo 5 della NATO all’Ucraina, pur non facendo entrare l’Ucraina nell’alleanza atlantica.

È una proposta abbastanza complicata, sia sul piano giuridico sia su quello diplomatico: prevedrebbe, dopo l’eventuale raggiungimento di una tregua, un intervento degli alleati europei e statunitensi a difesa dell’Ucraina nel caso in cui fosse nuovamente attaccata dalla Russia. Meloni l’aveva avanzata mesi fa, poi l’ha più volte riformulata, ogni volta in maniera più vaga. Un’approvazione di Trump sarebbe in ogni caso imprescindibile, ma giovedì nessuno dei due leader ne ha parlato.

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