Una cosa divertente che Spielberg non farebbe mai più

La storia delle disastrate riprese di “Lo squalo”, spesso a mollo e sempre incarognite, tanto che lui l'ultimo giorno scappò dal set

Steven Spielberg, al centro con le braccia incrociate, e altri membri della troupe di Lo squalo (Michael Ochs Archives/Getty Images)
Steven Spielberg, al centro con le braccia incrociate, e altri membri della troupe di Lo squalo (Michael Ochs Archives/Getty Images)
Caricamento player

Nel 1973 il produttore della Universal Richard Zanuck comprò per una cifra irrisoria i diritti di Jaws, un romanzo che raccontava di un enorme squalo bianco che terrorizzava i bagnanti di una piccola spiaggia di Long Island, nello stato di New York. Era il libro da cui sarebbe stato tratto Lo squalo, uno dei blockbuster più importanti e famosi di quel decennio, ma anche uno dei film dalla lavorazione più infernale di sempre: fu girato nell’arco di cinque mesi tra difficoltà tecniche, mal di mare, attrezzature usurate e continui litigi. Oggi la travagliata realizzazione di Lo squalo, uscito 50 anni fa, è diventata parte integrante della sua leggenda, e ha contribuito a rendere il suo successo finale ancora più sorprendente e memorabile: ai tempi, però, Steven Spielberg non la visse benissimo.

Jaws era stato scritto da Peter Benchley, uno scrittore esordiente poco più che trentenne che negli anni successivi avrebbe fatto parlare di sé, ispirando molti registi a realizzare film ispirati alle sue storie. Zanuck aveva sentito parlare del romanzo perché sua moglie lavorava a Cosmopolitan, e la giornalista che si occupava dei libri per la rivista, nell’annunciarne la pubblicazione, scrisse: «Potrebbe diventare un bel film». Inizialmente Zanuck scelse di affidare l’adattamento a Dick Richards, un regista poco noto e che fino a quel momento aveva diretto soltanto un film. Le cose però andarono male fin da subito: durante tutto il periodo di preproduzione, nelle riunioni a cui veniva invitato anche Benchley, Richards parlava sempre di una grande orca bianca e non di uno squalo.

Il fatto che non avesse mai capito che si trattava della storia di uno squalo convinse la produzione a licenziarlo, anche senza avere un sostituto pronto. In quel momento di passaggio, Spielberg capitò davanti a una copia del romanzo di Benchley lasciata su una scrivania alla Universal: ne fu attratto, lo lesse e si offrì di dirigere lui il film. Aveva 26 anni.

Spielberg all’epoca frequentava gli uffici della Universal perché lavorava per loro. Nei quattro anni precedenti aveva diretto diversi episodi di serie televisive (tra cui uno del Tenente Colombo), tre film per la tv, tra cui Duel, e un film per il cinema, Sugarland Express. La storia di Jaws gli ricordava molto quella di Duel, in cui un uomo in auto viene inseguito da un camion sulle lunghe strade poco frequentate d’America. A lui sembrava proprio che Lo squalo potesse essere concepito come una specie di «Duel in acqua», e che quindi sarebbe stato certamente in grado di farlo. E, nonostante fosse un film a budget basso, per lui sarebbe stato un grande passo in avanti, il suo primo film con delle star.

Come racconta Peter Biskind nel libro Easy Riders, Raging Bulls, nonostante fosse molto giovane all’epoca, Steven Spielberg si dichiarava ancora più giovane. Era solito sottrarsi degli anni perché riteneva che la sua carriera, abbastanza precoce, venisse aiutata dalla fama del wunderkind (cioè ragazzo prodigio) che si era creata intorno a lui, e non voleva perderla. Decenni dopo, adulto e ormai famoso, Spielberg raccontò la storia della genesi di Lo squalo sottolineando l’opposto, cioè che tutto il disastro che sarebbe seguito, ovvero una delle esperienze più faticose della sua carriera, fosse scaturito proprio dalla stupidissima decisione di girare un film in mare aperto, frutto di inesperienza e ardore giovanile.

Ignorando tutte le persone che lo avevano avvertito che girare in mare sarebbe stato impossibile, consigliandogli di usare invece un lago o le grandissime piscine degli studios, Spielberg volle andare a Martha’s Vineyard, nello stato americano del Massachusetts, per amore del realismo. E questo nonostante in quel momento nessun film di un grande studio di produzione fosse mai stato girato in mare aperto. Tutte le battaglie navali di Ben-Hur, Antonio e Cleopatra, così come film di sottomarini o Gli ammutinati del Bounty, erano state girati in piscine con sfondi finti o accorgimenti cinematografici che prolungavano l’acqua fino all’orizzonte.

I problemi sottovalutati o per nulla calcolati erano tantissimi. A partire dall’impatto che ha il sale sulle attrezzature e, potenzialmente, sulla pellicola, che se bagnata diventa inutilizzabile, per continuare con il mal di mare di parte della troupe e degli attori. Ma il costo maggiore per ogni produzione è sempre il tempo: più tempo si sta sul set, più bisogna pagare.

E girare in mare significava mettere gli attori su una barca e la macchina da presa e la troupe su un’altra, accanto, per tutte le inquadrature. Le barche però non stanno mai ferme, e quando si finisce un’inquadratura di un dialogo e si passa a girare l’altra, cioè le risposte, le posizioni sono completamente diverse, tutto è cambiato e bisogna ricominciare. Senza contare che, se c’è una nave sullo sfondo, lontano, e bisogna aspettare che passi perché non è previsto ci siano altre imbarcazioni nella scena, possono anche passare ore prima che scompaia dall’orizzonte. Sperando che non ne arrivi un’altra.

Il budget di Lo squalo era di 4 milioni di dollari, ed era previsto che le riprese durassero due mesi. I problemi però furono tali che alla fine ce ne vollero 5, e il costo finale fu di 9 milioni: più del doppio. Attori, troupe e Spielberg rimasero così a lungo confinati a Martha’s Vineyard che, anche per inesperienza e cercando di arginare i problemi, il regista finì per comportarsi come un dittatore. Sul set non mancarono i dissapori: una sera, durante un buffet, l’attore Roy Scheider tirò del purè in faccia a Spielberg. Richard Dreyfuss, il co-protagonista, lo difese lanciando dell’altro cibo a Scheider, e la cosa scatenò una surreale battaglia con il cibo tra persone adulte.

Il clima era pessimo anche perché Robert Shaw, che interpretava il cacciatore di squali Quint, contribuiva comportandosi come il suo personaggio, sminuendo gli altri attori e fomentando rivalità. Era il suo modo di essere e dare il meglio, ma rendeva l’ambiente un disastro. Eppure fu proprio lui a contribuire in modo decisivo a una delle scene più belle: il monologo sulla USS Indianapolis.

Avviene nell’unica notte che i tre personaggi passano sulla barca, dopo aver bevuto ed essersi mostrati a vicenda le cicatrici. Quint racconta la sua esperienza con gli squali, quando durante la guerra la nave militare su cui viaggiava fu affondata e lui rimase a lungo in acqua con il resto dell’equipaggio, preda di un branco che li mangiava tutti uno a uno. Quel pezzo era nella sceneggiatura originale, ma fu pesantemente riscritto e allungato da John Milius (autore, tra gli altri, di Un mercoledì da leoni) e poi aggiustato da Shaw sul set. È anche la parte che Spielberg stesso preferisce di tutto il film.

Non ci volle molto perché, in un posto competitivo e pieno di malelingue come Hollywood, la notizia che la produzione di questo film era un disastro arrivasse in fretta a Los Angeles. Quando a una festa vicino a dove stavano girando Spielberg incontrò un’attrice molto nota di cui non ha mai fatto il nome, appena arrivata da Los Angeles, questa gli disse: «Tutti parlano di quanto questo film faccia schifo. Un fallimento totale e nessuno ti farà più lavorare perché spendi in modi dissoluti. Tutti ti ritengono un irresponsabile».

La cosa ebbe un effetto devastante su di lui, ha raccontato decenni dopo, definendo l’esperienza «una quasi morte professionale». Malvoluto dalla sua troupe, in rotta con gli attori e con un futuro incerto al ritorno, quando il film arrivò finalmente al suo ultimo giorno di lavorazione Spielberg scappò dal set e non si fece trovare dopo l’ultimo ciak, convinto che la troupe lo avrebbe buttato in mare.

Il malcontento era tale che informalmente il film, in originale intitolato Jaws, era stato ribattezzato “flaws”, cioè “difetti”. Quando non c’erano i problemi di barche, orizzonte, sale e mal di mare, c’erano quelli relativi allo squalo.

A parte qualche scena con degli squali veri filmati sott’acqua in una piscina, nella maggior parte dei casi in cui appare l’animale è un pupazzone. Ne erano stati fatti diversi: due che avevano un profilo buono e l’altro pieno di ingranaggi utili a muoverlo (uno per andare da destra verso sinistra e l’altro realizzato a specchio per le scene in cui va da sinistra verso destra), e poi quello che si vede più di tutti, che era sostanzialmente una grande testa in animatronic, cioè collegata con dei fili elettrici a una plancia di controllo da cui comandare i movimenti del corpo, della bocca, delle mascelle e tutto quello che lo faceva sembrare vero. E non funzionava mai, anche se era stato costruito da un grande effettista come Bob Matty, lo stesso che aveva costruito il calamaro gigante per il film 20.000 leghe sotto i mari. Il problema, ovviamente, era l’acqua salata.

Uno dei più grandi meriti di Spielberg è come riesca continuamente a distrarre lo spettatore non facendogli notare quanto lo squalo meccanico sia finto. Se si riguardano le scene, concentrandosi solo sullo squalo, è subito evidente che si tratta di un pupazzo che si muove poco e male.

Il problema era tale che molte delle scene in cui doveva vedersi l’animale furono cancellate, e Spielberg dovette inventarsi soluzioni alternative, che poi si sono rivelate così efficaci da diventare dei classici dei film di paura. Sostanzialmente, l’idea divenne di mostrarlo il meno possibile, così da usarlo il meno possibile. Si passò a suggerirne la presenza in tutti i modi: con i movimenti della barca, con i barili gialli ancorati che spuntano in superficie o con la sola pinna che spunta (un’immagine di paura che non esisteva prima di Lo squalo e che oggi diamo per scontata).

In questo senso fu molto utile la musica di John Williams, un’invenzione (una volta tanto) proprio di Williams e non di Spielberg, che invece si aspettava una colonna sonora magniloquente per il suo primo film con grandi attori. Quando si presentò da Williams e sentì che aveva preparato due note, ripetute, insistite, a velocità diverse e con tutta un’orchestrazione intorno, ci rimase malissimo. Pensò seriamente a uno scherzo e non fu semplice convincerlo.

L’idea che ebbe Williams però era proprio cinematografica, cioè usare la musica per suggerire la presenza della minaccia, una soluzione di regia attraverso la colonna sonora. Spielberg poi ebbe l’idea di usarla anche per ingannare lo spettatore e fargli credere che stia arrivando lo squalo anche quando non è così.

Il primo momento in cui si capì che questo film non era un disastro ma potenzialmente un successo fu in una proiezione di prova, nel marzo del 1975, diversi mesi prima dell’uscita prevista per l’estate. Spielberg racconta che «fu la prima volta che mi fu chiaro che lo squalo funzionava, il film funzionava, tutto funzionava». Anche per questo fu organizzata una delle campagne marketing più aggressive e rivoluzionarie dell’epoca, che portò il film a essere il primo nella storia del cinema a incassare più di 100 milioni di dollari.

– Leggi anche: È colpa di Spielberg se non escono più film come E.T. e I Goonies